RUBENS E LA SCULTURA A ROMA
euro 42,00
IL TOCCO DI PIGMALIONE
1601-1608: Rubens a Roma, Rubens
e la Galleria di Scipione Borghese.
Un incontro che cambierà la storia dell’artista
e quella della collezione.
Non solo la pittura, ma anche la scultura
faranno i conti per tutto il secolo con questo
passaggio e con le sue conseguenze.
a cura di
Francesca Cappelletti
e Lucia Simonato
IL TOCCO DI PIGMALIONE.
RUBENS E LA SCULTURA A ROMA
14 novembre 2023 – 18 febbraio 2024
Direttrice Generale
della Galleria Borghese
Francesca Cappelletti
Ufficio prestiti
Silvia Lucantoni
Federica Pietrangeli
Consiglio di Amministrazione
Francesca Cappelletti, presidente
Marco Cammelli
Fabiano De Santis
Mariastella Margozzi
Ilaria Miarelli Mariani
Ufficio tecnico
Agnese Murrali
Annalisa Ruocco
Comitato Scientifico
Patrizia Cavazzini
Alessandro Ippoliti
Luigi Pomponio
Collegio dei revisori dei conti
Fernanda Ballardin, presidente
Marco Coletta
Paola Passarelli
Ufficio della Direttrice
Gloria Antonelli
Funzionarie Storiche dell’arte
Lucia Calzona
Geraldine Leardi
Maria Giovanna Sarti
Emanuela Settimi
Stefania Vannini
Ufficio restauro
Costanza Longo
Barbara Provinciali
con
Dorina Inglese
Ufficio mostre
Geraldine Leardi
Ufficio comunicazione
e promozione
Maria Laura Vergelli
Ufficio bilancio
e programmazione
Cinzia Guglielmi
con
Mariangela Cecere (Ales)
Tatiana De Cola (Ales)
Ufficio affari legali
Monica Pantaleo
Ufficio gare e contratti
Martina Massarelli (Ales)
Ufficio iconografico
Maria Giovanna Sarti
Servizio educativo e accessibilità
Maria Giovanna Sarti
Stefania Vannini
Ufficio eventi
Cinzia Guglielmi
Ufficio del personale
Roberta Gentile
con
Mauro Ansovini
Tiziano De Deo (Ales)
Ufficio del protocollo
Anna Lo Cascio
Elisabetta Sandrelli
Ufficio del consegnatario
Pietro Felici
Accoglienza e informazioni
Armando Peppetti
Assistenti di sala
Christiana Anastasi, Scilla Bonini,
Paola Buzzi, Andrea Campagnolo,
Ciro Coppola, Miriam Corrada,
Assunta Curto, Daniela De Cesaris,
Nicola Debiasi, Giulia Della Vecchia,
Nadia Di Giandomenico, Stefano Fazzi,
Daniela Frillocchi, Maria Clara Garofalo,
Tiziana Gorini, Gabriele Labianca,
Natalino Lampasona, Nicoletta Latteri,
Donatella Luciani, Laura Marzo,
Adelmo Morganti, Giulia Olivetti,
Stefania Olivieri, Chiara Petracci, Palma
Petrelli, Marco Petroselli, Roberta Picardi,
Giuseppina Pierucci, Roberto Pinto,
Rossella Ranieri, Franca Sacchinelli,
Paola Savignano, Serena Sergiampietri,
Alex Silvestri, Francesca Silvia, Michela
Taglioni, Francesca Tota
Ales
Louise Beaudean, Eliphas Biasciucci,
Lorena Bonanotte, Roberto Casella,
Teresa Croce, Eliana Fiamin, Margherita
Masi, Giulia Monti, Gabriella Natale,
Luisa Polcari, Barbara Ripabella,
Giulia Spada
Collaboratori esterni
Costanza Molini (ufficio mostre) Annalaura
Valitutti (ufficio mostre) Giulia Siotto
(ufficio restauro)
Ileana Pallai (ufficio tecnico)
Raffaele Valente (ufficio tecnico)
Lara Facco (ufficio stampa)
Giulia Bandini (servizio educativo)
Rasul Mojaverian (ufficio accessibilità)
Anastasia Diaz della Vittoria Pallavicini
(ufficio comunicazione/eventi)
Diletta Fenicia Moricca
(ufficio comunicazione, membership)
Dinamica (sito web e social network)
Simona Ciofetta
(archivi digitali e catalogo online)
Claudia Sciarra (sito web)
Rebecca Linguanti
(ufficio gare e contratti)
Michela Reggio d’Aci
(ufficio gare e contratti)
Thomas Clement Salomon
(progetti direzione)
Vigilanza
Veruska Addesa, Alessio Casadei,
Sebastian Coluzzi, Riccardo Corradini,
Alessia Di Cesare, Rosa Fiorini,
Fabrizio Franconi, Luca Fuligna,
Valerio Massimo Garofalo, Emanuela
Giovannini, Ermira Hashorva, Simone
Longo, Simone Paolicelli, Francesco
Petroselli, Maria Concetta Puletti,
Mirko Scardamaglia, Antonio Vairano
A cura di
Francesca Cappelletti
e Lucia Simonato
Supervisione e coordinamento generale
Geraldine Leardi
Coordinamento prestiti
Costanza Molini
Coordinamento assicurazioni e trasporti
Annalaura Valitutti
Rapporti internazionali
Thomas Clement Salomon
Progetto di allestimento, illuminazione
e grafica in mostra
progetto allestimento
PANSTUDIO architetti associati
Arch. Cesare Mari
progetto illuminotecnico
Francesco Murano
progetto grafico
Cristiano Coppi per Metilene
Supervisione allestimenti, illuminazione
e sicurezza per il Museo
Agnese Murrali
Barbara Provinciali
Annalisa Ruocco
Accoglienza e allestimento delle opere
Silvia Lucantoni
Costanza Molini
Federica Pietrangeli
Annalaura Valitutti
Revisione conservativa delle opere
Giovanna Antonelli
Matilde Migliorini
Realizzazione allestimento e apparati grafici
Articolarte
Trasporti
Apice Srl
Arterìa
Assicurazioni
AGE Assicurazioni Gestione Enti Srl
Albo dei prestatori
Bayerische Staatsgemäldesammlungen
München – Alte Pinakothek
Veneranda Biblioteca Ambrosiana,
Pinacoteca – Milano
Bayerisches Nationalmuseum, München
The British Museum, London
Gallerie Nazionali di Arte Antica, Roma
Musée du Louvre, Paris
The Metropolitan Museum of Art,
New York
National Gallery of Art, Washington
Museo Nacional del Prado, Madrid
Wallraf-Richartz-Museum & Fondation
Corboud, Cologne
Kupferstich-Kabinett, Staatliche
Kunstsammlungen Dresden
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria
Palatina
Rijksmuseum, Amsterdam
The Morgan Library, New York
Nationalmuseum, Stockholm
Rubenshuis, Antwerp
Gallerie dell’Accademia di Venezia
Philadelphia Museum of Art
Musei del Bargello, Firenze
Accademia Nazionale di San Luca, Roma
The Israel Museum, Jerusalem
The National Gallery, London
Liechtenstein. The Princely Collections,
Vaduz –Vienna
Ringraziamenti
Francesca Borgo
Paola D’Agostino
Guglielmo De Santis
Lucia Faedo
Gabriele Finaldi
Elizabeth McGrath
Sara Petrilli-Jones
Ulrich Pfisterer
Salvatore Settis
Andrés Úbeda de los Cobos
Alejandro Vergara
Un ringraziamento speciale
a Mattia De Luca per la sua grande
generosità.
Le curatrici sono molto riconoscenti
a Lara Scanu per il suo fondamentale
aiuto nella redazione di questo catalogo.
Un ringraziamento particolare va a tutto
il personale della Galleria Borghese.
Catalogo
Testi di
Adriano Aymonino
Carmen C. Bambach
Francesca Cappelletti
Alessandro Giardini
David Jaffé
Lucia Simonato
Schede di
Luca Annibali
Giulia Bandini
Marco Bei
Bruna Bianco
Vittoria Brunetti
Andrea Crimi
Giulia Daniele
Giovanni Lusi
Elisa Martini
Marcantonio Massimo
Lucrezia Mastropietro
Maria Gabriella Matarazzo
Alessandro Pinto Folicaldi
Nadia Rizzo
Sara Sciascia
Shlomit Steinberg
Claudio Tongiorgi
Coordinamento editoriale
Federica Boragina
Progetto grafico
Angelo Galiotto
Impaginazione
Giorgia Dalla Pietà
Redazione
Laura Guidetti
Traduzione
Alessandra Gallo
e Corrado Piazzetta
per Scriptum, Roma
Ricerca iconografica
Simona Pirovano
SOMMARIO
9
Rubens a Roma. Una mostra oltre il ‘paragone’
Francesca Cappelletti
10
Rubens e la Galleria Borghese
Lucia Simonato, Francesca Cappelletti
101 I. Il mito del Barocco
111 II. Rubens e la storia
13
33
129 III. Corpi drammatici
“Materia e forma, pietra e immagine”: la riproduzione
a stampa della statuaria classica prima e dopo Rubens
Adriano Aymonino
143 IV. Corpi statuari
Rubens, pictor doctus, e la sua risposta a Leonardo
Carmen C. Bambach
159 VI. La nascita della scultura pittorica
153 V. Rubens e Caravaggio
183 VII. Il tocco di Pigmalione
59
73
Assimilazione e invenzione: cavalli rampanti
e il ‘taccuino’ perduto di Rubens
David Jaffé
Rubens, Bernini e la nascita della scultura ‘pittorica’
Lucia Simonato
201 VIII. Rubens e Tiziano
210 Appendice. Peter Paul Rubens,
De imitatione statuarum
a cura di Alessandro Giardini
216 Bibliografia
RUBENS, PICTOR DOCTUS,
E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
CARMEN C. BAMBACH
Le numerose battaglie e le feroci scene di caccia dipinte da
Rubens sono state a lungo interpretate come altrettanti ‘riflessi’
della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Tra i numerosi disegni del maestro toscano riconducibili a quell’opera, pochi
eguagliano la potenza visiva di quello a penna e inchiostro bruno,
matita morbida nero-grigiastra e matita rossa conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (fig. 1)1. In questo foglio, celebre
già all’epoca della sua esecuzione, convivono la “scientia” del genio vinciano e l’espressione impetuosa della “pazzia bestialissima”,
cioè della follia animalesca che si scatena durante ogni guerra: la
prima è visibile nella parte superiore della pagina, in cui spicca
lo studio accurato – corredato da annotazioni esplicative – della
fisionomia e delle proporzioni di una figura maschile di profilo
raffigurata fino al busto (quadrettato e misurato con piccoli fori
fatti con il compasso), mentre nella porzione inferiore il vigoroso schizzo a matita rossa raffigura soldati e cavalli che si lanciano
furiosamente nella battaglia2. Nel 1568, a proposito della Battaglia di Anghiari Giorgio Vasari scrisse: “non si conosce meno la
rabbia, lo sdegno e la vendetta negli uomini, che ne’ cavalli”3. Da
studioso, Leonardo aveva meditato per oltre un decennio su ogni
particolare della composizione di una scena di battaglia, prima di
ricevere la commissione di Anghiari intorno al 24 ottobre 15034.
Le annotazioni del 1490-1492 circa per il suo trattato incompiuto,
il Libro di pittura, offrono una descrizione dettagliata del modo
in cui un pittore dovrebbe raffigurare un combattimento: l’autore
comincia la trattazione definendo l’atmosfera e la scenografia per
l’azione drammatica: “farai prima il fumo dell’artiglieria mischiato
infra l’aria insieme con la polvere mossa dal movimento de cavalli,
de combattitori, la quale mistione userai così”5. In seguito, tra il
1505 e il 1510, in un’annotazione frammentaria per il suo trattato
sulla pittura Leonardo conierà l’espressione “pazzia bestialissima”
per definire la dimensione espressiva di una scena di guerra6.
Tutto ciò aiuta a comprendere perché Rubens trovò ispirazione nella Battaglia di Anghiari sia in quanto composizione
estetica straordinariamente dinamica sia come esempio di “pazzia
bestialissima” nell’ambito della teoria del gesto del maestro toscano, che risulta quasi palpabile nel suo grande disegno del 1600
circa o poco successivo, oggi conservato al British Museum (fig.
2)7. Rubens elaborò questa composizione (41,5 × 52,1 cm) con
una suggestiva tecnica di sfumato, reso con una matita morbida
nero-grigiastra e lievi tocchi di sanguigna, e qui e là approfondì
il chiaroscuro con vigorose acquerellature in grigio e bruno. Il
foglio del British Museum è una libera improvvisazione sul tema
centrale della Lotta per lo stendardo nella Battaglia di Anghiari di
Leonardo, in cui massicci gruppi di soldati intrecciati e cavalli impetuosi, forse studiati su modelli in argilla scolpiti in rilievo, sono
spesso osservati da dietro e si estendono drammaticamente nello
spazio in senso diagonale. Nell’angolo superiore sinistro del foglio
Rubens scrisse a matita nera una nota iconografica (oggi molto
sbiadita): “sara Medesima[.] far si che colui / il corpo si alsi su piedi sopra le staffe / per avvicinare gli nemici”. Anche se questa nota
frammentaria non ricalca il contenuto del lungo precetto scritto
da Leonardo nel trattato di pittura su “come si debbe figurar una
battaglia”8, Rubens ne coglie l’essenza, quasi partecipando a un
dialogo che arricchisce il pensiero del maestro. Il monumentale
intreccio di figure e cavalli nella composizione evoca la “turbulenzia” e il soldato centrale in sella ha i “denti spartiti in modo di
gridare con lamento”, come prescritto da Leonardo.
Non meno importanti sono l’estremo realismo, l’uso drammatico della luce e il trattamento dell’atmosfera resi con la tecnica della matita acquerellata, con cui Rubens cerca di imitare i
riferimenti di Leonardo alla “polvere grossa” e altri effetti scenici
delle battaglie: “dalla parte che viene il lume parrà questa mistione
d’aria, fumo e polvere molto più lucida che dalla opposita parte”9.
33
Una replica fedele e accurata da un disegno perduto di Rubens del
1600-1605, eseguita a penna e inchiostro e conservata a Edimburgo, raffigura una Battaglia delle Amazzoni disseminata di note
in latino, anziché in italiano: “Maxima púlvis núbis instar / aút
Caliginis” (“tantissima polvere come una nuvola o una nebbia”)10;
“púlvis longo tractu / a tergo albescit” (“la polvere per un lungo
tratto, si schiarisce nella parte posteriore”) e “ad pedes lúx clarior”
(“ai piedi una luce più brillante”)11. Le “oscure nuvole” e il “fumo
che si mischia infra l’aria inpolverata”, dovuti ai cavalli e ai soldati
che calpestano il campo di battaglia, così vividamente descritti da
Leonardo nei suoi testi per il Libro di pittura, risuoneranno a lungo nella mente di Rubens e della sua cerchia, come dimostrano i
loro disegni, gli schizzi a olio e i dipinti fino agli anni trenta del
Seicento12.
Come si nota negli esempi citati, i disegni di Rubens e dei
suoi allievi presentano spesso dettagliate annotazioni, infatti fin
dall’inizio della sua carriera il grande maestro fiammingo sapeva
che Leonardo era solito riempire i propri disegni di prolisse osservazioni13. Un esempio significativo di nota iconografica, fra i tanti, si trova sul Nettuno con cavalli marini di Leonardo (fig. 3), del
1503-1505 circa, conservato a Windsor; questo grande schizzo
per il disegno poi presentato ad Antonio Segni, eseguito in matita
sfumata grigio-nera, ha la medesima straordinaria grandiosità e
atmosfera di azione tempestosa della Battaglia di Anghiari14. Nella
parte superiore sinistra del foglio, con la stessa matita usata per il
disegno, Leonardo annota: “abassa i chavalli”, per ricordarsi che
l’eroico dio nudo doveva spiccare di più rispetto alla quadriga dei
suoi cavalli marini. È molto probabile che Rubens conoscesse i
disegni del maestro toscano, come il Nettuno ad esempio, e avesse
studiato nel dettaglio le sue teorie sulla pittura, dato che aveva
accesso alle collezioni di disegni di Leonardo di provenienza Melzi-Leoni-Windsor15. Inoltre, come si dirà, Roger de Piles accenna
al fatto che Rubens aveva studiato il materiale leonardiano appartenente a Pompeo Leoni16. Ricordiamo che all’inizio del Seicento
copie manoscritte del Libro di pittura circolavano nell’Italia settentrionale, a Firenze e a Roma, e ciò accadeva già molto prima
del 1651, data della sua pubblicazione a Parigi (come si accennerà
più avanti nel testo)17.
L’opera più celebre realizzata da Rubens d’après un artista italiano del passato è la maestosa composizione conservata al Louvre
(fig. 4), brillante rielaborazione di una copia della perduta Battaglia di Anghiari. Tra il 1600 e il 1608 Rubens trasformò questo
disegno in un vero e proprio dipinto su carta, e lo rimaneggiò
nuovamente alla fine del 1610, dopo il suo ritorno ad Anversa18.
Il disegno-dipinto del Louvre restituisce alla perfezione il temperamento selvaggio e primitivo della “pazzia bestialissima” che
Leonardo voleva per le sue scene di battaglia. Naturalmente Rubens non poté mai vedere a Firenze l’originale della Battaglia di
1. Leonardo da Vinci, Busto di uomo di profilo con studio di
proporzione; studi di soldati e di cavalli per la Battaglia di Anghiari
(recto), 1490-1495 circa e 1503-1505 circa. Venezia, Gallerie
dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 236r
2. Peter Paul Rubens, Disegno ispirato alla Lotta per lo stendardo
di Leonardo, con altri motivi di cavalli e soldati in lotta, 1600 circa.
Londra, British Museum, inv. 1895.0915.1044
Anghiari andato distrutto. Non stupisce quindi ciò che sappiamo
oggi – grazie alle laboriose osservazioni di prima mano dell’originale di Rubens da parte di numerosi studiosi – e cioè che per
realizzare la composizione del Louvre, Rubens è intervenuto su
una copia indiretta già esistente19. Gli strati di disegno di questa copia anteriore (precedente ai ritocchi di Rubens) erano stati
realizzati dopo la metà del Cinquecento in matita nera, penna e
inchiostro bruno, pennello e acquerello bruno forse da due mani
diverse20. Dopo essersi appropriato di questo cimelio del passato,
Rubens aggiunse i suoi strati di disegno a pennello con acquerellature in bruno e grigio, a pennello con bianco bluastro, grigio e
gouache bianca. Inoltre in un secondo momento ampliò la scena,
incollando strisce di carta sui quattro lati21. Le due fasi di lavoro
sul disegno-dipinto del Louvre testimoniano quindi il persistente
interesse di Rubens per l’ingegno compositivo di Leonardo. Il foglio inizialmente misurava 42,8 × 57,7 cm (con l’usura del tempo
si era strappato in due parti che erano state poi ricongiunte), ma
dopo le aggiunte di Rubens sui quattro lati la scena di battaglia
misurava 45,3 × 63,6 cm.
La composizione del Louvre raffigura l’episodio più celebre,
la Lotta per lo stendardo, che doveva essere il punto focale al centro
del dipinto immaginato da Leonardo. La Battaglia di Anghiari e
la Battaglia di Cascina di Michelangelo avrebbero dovuto affiancare l’importante struttura lignea (una tribuna, con gli scranni
del gonfaloniere e dei buonomini della Repubblica) nella Sala del
Gran Consiglio nel Palazzo della Signoria (oggi Palazzo Vecchio).
A mio avviso, sulla base della direzione della luce osservata nelle
copie, la Battaglia di Anghiari era probabilmente destinata alla
parete est, a destra della tribuna dei Signori (guardando la parete
orientale)22. L’opera di Leonardo doveva rivaleggiare con la Battaglia di Cascina di Michelangelo, mai realizzata. Quest’ultima
fu commissionata un anno dopo, tra l’agosto e il settembre del
1504, e doveva essere dipinta a buon fresco, sempre sulla parete
est della Sala del Gran Consiglio, ma a sinistra della tribuna dei
Signori23. Anche questa collocazione è confermata dalla direzione
della luce osservata nelle copie della Battaglia di Cascina, soprattutto in quella risalente al 1540 circa di Bastiano (detto Aristotile)
da Sangallo, conservata presso la Holkham Hall24.
Un disegno dalla Battaglia di Anghiari, eseguito principalmente in matita nera e in parte rimaneggiato con pennello e acquerello grigio, penna e inchiostro bruno (venduto da Sotheby’s
nel 2019; fig. 5), somiglia così precisamente al motivo del foglio
di Rubens al Louvre da suggerire decisamente una fonte comune.
Anche le dimensioni sono molto simili a quelle del foglio che
costituisce il nucleo della composizione di Rubens (43,5 × 56,5
cm)25. A mio avviso, si tratta della copia più autorevole del cartone di Leonardo, risalente agli anni sessanta del Cinquecento, eseguita da un artista vicino a Giovanni Stradano (Jan van der Straet
3. Leonardo da Vinci, schizzo per il disegno presentato ad Antonio
Segni: Nettuno con cavalli marini, 1503-1505 circa. Castello
di Windsor, Royal Library, inv. RCIN 912570
CARMEN C. BAMBACH
34
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
4. Peter Paul Rubens, su disegno cinquecentesco (e con aggiunte
successive), progetto dalla Lotta per lo stendardo di Leonardo nella
Battaglia di Anghiari, 1600-1608 circa, 1615-1620. Parigi, Musée
du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 20271
5. Artista vicino a Jan van der Straet (Giovanni Stradano),
qui attribuito, dalla Lotta per lo stendardo di Leonardo nella Battaglia
di Anghiari, 1560-1570. Collezione privata (per gentile concessione
di Sotheby’s, Londra)
35
[1523-1605]), collaboratore di Vasari al Salone dei Cinquecento
(la nuova veste della Sala del Gran Consiglio).
La Lotta per lo stendardo fu l’unico motivo della composizione
che Leonardo tentò di dipingere, molto prima di aver completato
il cartone preparatorio o il disegno a grandezza naturale. Il suo
cartone era stato commissionato nell’ottobre del 1503 e quando fu
esposto riscosse un enorme successo di pubblico, come sappiamo
da Vasari, da Benvenuto Cellini e da altri autori26. Nel 1505-1506
Leonardo sperimentò una tecnica di pittura a olio “a secco” ad
asciugatura lenta, con risultati disastrosi. Due copie su tavola, in
cui anonimi artisti cinquecenteschi hanno rappresentato le figure
leonardiane dipingendole a risparmio su uno sfondo dalle tonalità
giallo-brunastre che doveva indicare (approssimativamente) il colore dell’intonaco del murale incompiuto, rappresentano la condizione in cui Leonardo abbandonò l’opera. Queste repliche sono la
cosiddetta Tavola Doria (già a Napoli, collezione Doria d’Angri;
fig. 6), ora di proprietà congiunta del Tokyo Fuji Art Museum e
dello Stato italiano, e la tavola esposta a Palazzo Vecchio (Firenze,
Gallerie degli Uffizi 1890, n. 5376; fig. 7)27. Analisi comparative
di queste copie pittoriche dimostrano che sia nel caso della composizione di Rubens al Louvre (fig. 4) sia in quello della copia italiana su carta della metà del Cinquecento (fig. 5) la fonte originale
deve essere una delle prime copie del cartone di Leonardo, anziché
la porzione dipinta dall’artista sulla parete.
I resti danneggiati di quel poco che il maestro aveva dipinto
nella Sala del Gran Consiglio scomparvero con la ristrutturazione
operata da Vasari tra il 1563 e il 1572. I frammenti del celebre
cartone (incompiuto) per la Battaglia di Anghiari cominciarono a
deperire probabilmente nel 1510-1512, ed è verosimile che negli
anni tra il 1520 e il 1540 ne rimanesse ben poco. Il progetto della Battaglia di Anghiari, con la pittura frammentaria e degradata
del motivo centrale sulla parete, rappresentò un epico fallimento
pubblico nella carriera professionale di Leonardo; e la porzione
dipinta fu coperta nel 1512.
Trasformata dall’ingenium, dallo stile personale e dalla “furia
del pennello” peculiari del vocabolario pittorico rubensiano, la
Battaglia di Anghiari del Louvre (fig. 4) ha finito per rappresentare per i posteri tutto ciò che Leonardo aveva immaginato in termini di espressività e ferocia per il suo murale perduto28. Si tratta
senza dubbio della risposta più ispirata a Leonardo mai prodotta
da un artista. Inoltre, come gli studiosi hanno riconosciuto, lo
spirito della Battaglia di Anghiari dal punto di vista compositivo
si ritrova in molte delle opere raffiguranti battaglie e scene di caccia dipinte da Rubens nel corso di tutta la carriera.
Eppure, nonostante l’enorme valenza visiva della composizione del Louvre nella produzione del maestro fiammingo, gli studiosi
hanno trovato sorprendentemente difficile esprimersi sulla percezione che Rubens potrebbe aver avuto di Leonardo, una questione
6. Da Leonardo da Vinci, copia della Lotta per lo stendardo nella
Battaglia di Anghiari (cosiddetta Tavola Doria), ante 1563. Proprietà
congiunta del Tokyo Fuji Art Museum e dello Stato italiano
che va al di là delle evidenze stilistiche, delle incertezze sulle attribuzioni e dell’ardua identificazione delle fonti visive nei disegni
dell’anversese, pur affrontate con ammirevole precisione filologica29. Le prove suggeriscono che il maestro fiammingo continuò a
rispondere a Leonardo in modo più o meno diretto e preciso nel
corso di tutta la carriera. Cercherò in questa sede di ricomporre
un contesto estremamente frammentario, così da illustrare quali
aspetti concettuali della produzione, del pensiero e della biografia
di Leonardo potrebbero aver influenzato il fiammingo.
Nella classifica dei grandi artisti del Rinascimento italiano
che Rubens stimava, Tiziano – morto nel 1576, l’anno prima della
sua nascita – fu senza dubbio il suo pittore ‘moderno’ preferito,
tanto che ne studiò con attenzione lo stile e ne copiò le opere30.
Numerose copie ancora esistenti eseguite dallo stesso Rubens e da
altri artisti presenti nella sua collezione personale testimoniano
anche la sua profonda e persistente venerazione per le sculture e
gli affreschi di Michelangelo31. Nel 1600-1608, Rubens disegnò a
matita nera e rossa una replica fedele e straordinariamente accurata
dei possenti nudi maschili visibili in basso a sinistra nel Giudizio
universale (New York, collezione privata; fig. 8); si tratta delle figure della parte più direttamente accessibile dell’affresco, quella che
rappresenta la Resurrezione della carne32. Come sappiamo, l’ammirazione di Rubens per Michelangelo era in contrasto con il gusto del primo Seicento. Infatti già dalla presentazione del Giudizio
universale nel dicembre 1541 e per gran parte della seconda metà
del secolo, lo stile e la ‘terribilità’ degli ultimi lavori del maestro
toscano non erano più così alla moda; la sovrabbondanza di figure
nude in pose tanto complesse era stata condannata dai teorici della
Controriforma come blasfema ed eccessiva, e a volte il suo stile veniva persino ridicolizzato33. Rispetto a Michelangelo, le ancor più
numerose copie di Rubens da Raffaello (e i suoi disegni ispirati alle
incisioni di Marcantonio Raimondi sempre da quest’ultimo) confermano la preminenza indiscussa dell’arte dell’Urbinate, non solo
per Rubens e la sua cerchia, ma anche per la storia del gusto tra
gli artisti e i collezionisti cinque e secenteschi34. Per contro, sono
pochissime le copie da Leonardo eseguite da Rubens e dai suoi
collaboratori e, come la Battaglia di Anghiari del Louvre, nessuna
è stata realizzata osservando direttamente un originale35. Tuttavia,
basarsi su questa scarsità di repliche come unico metro per misurare l’impatto di Leonardo su Rubens rischia di portarci fuori strada.
Rubens probabilmente conosceva meglio di quanto sospettiamo il vasto patrimonio di disegni e manoscritti teorici di Leonardo (lo si vedrà tra poco). Tuttavia agli inizi del Seicento altre
prove dell’arte del genio vinciano erano meno accessibili e le opere
pittoriche autografe erano ben poche. Un esiguo numero di dipinti da cavalletto si trovava in Francia, alcuni già dal 1518, anche se
in Italia e nel resto d’Europa ne circolavano numerose copie. Rubens dipinse il Ritratto di signora ora a Windsor (fig. 9) intorno al
7. Da Leonardo da Vinci, copia della Lotta per lo stendardo nella
Battaglia di Anghiari, ante 1563. Firenze, Museo di Palazzo Vecchio,
inv. 1890, n. 5376
1625-1628, mentre era impegnato nel progetto per Maria de’ Medici a Parigi36. La tela, che rappresenta la donna di tre quarti, con
lo sguardo diretto verso l’osservatore, il capo leggermente voltato
a sinistra e le mani elegantemente incrociate all’altezza della vita,
è un’ispirata risposta personale al modello della Gioconda di Leonardo (fig. 10). Il Ritratto di dama con ventaglio, in prestito al Museo Boijmans van Beuningen37, risale al 1625-1635 ed è un’opera
meno convincente di Rubens e bottega, tuttavia anch’esso rende
omaggio alla posa della Monna Lisa. Il maestro fiammingo aveva
visto di persona il dipinto originale di Leonardo a Fontainebleau
e, se si può prestar fede a Cassiano dal Pozzo, è possibile che abbia
condiviso le sue riflessioni sul quadro con il duca di Buckingham.
Un lungo passaggio nel diario del 1625 di Cassiano registra la visita al castello di Fontainebleau e descrive la Gioconda nella Galerie
des peintures, con il seguente accenno a Rubens:
“5o Un ritratto, della grandezza del vero, in tavola incorniciato di noce intagliato, è mezza figura et è ritratto
d’una tal Gioconda. Questa è la più compiuta opera che di
quest’autore si veda […] In somma con tutte le disgratie che
questo quadro habbi patito, la faccia et le mani si mostrano
tanto belle, che rapiscono chi le mira. Il Duca di Buchingam, mandato d’Inghilterra per condur la sposa al nuovo re,
hebbe qualche intention d’haver questo ritratto, ma essendone stato distolto il re dall’istanze fattegli da diversi, che
messero in consideratione che S. M. mandava fuor del regno
il più bel quadro che havesse, detto Duca sentì con disgusto
questo intorbidamento e, tra quelli con chi si dolse fu il Rubens d’Anversa, Pittor dell’Arciduchessa”38.
La Gioconda originale e altri tre dipinti di Leonardo furono
visti da Antonio de Beatis e dal suo mecenate, il cardinale Luigi
8. Peter Paul Rubens da Michelangelo, studi di figura dall’affresco
del Giudizio universale, 1600-1602 circa. Collezione privata
CARMEN C. BAMBACH
36
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
37
di Santa Maria delle Grazie, che “incomincia a guastarsi”44. Leonardo aveva dipinto l’affresco con una tecnica sperimentale a secco, usando tempera grassa e olio sull’intonaco. Giovanni Battista
Armenini nel suo De’ veri precetti della pittura (Ravenna 1586 e
1587) dopo aver visto il Cenacolo lo aveva descritto come “mezzo
guasto”45. Eppure la straordinaria imponenza e la struttura ritmica
della disposizione delle figure nel Cenacolo incantarono Rubens e
la sua risposta alla composizione fu personale e inaspettatamente
vivace. Due suoi fogli con schizzi audaci e altamente espressivi a
penna e inchiostro bruno, ora alla Chatsworth House e al J. Paul
Getty Museum, raffigurano gruppi di figure strettamente intrecciate che pulsano di movimento e forse erano idee per un dipinto
dallo stesso soggetto46. I gesti amplificati degli apostoli intorno a
Gesù, visti in una prospettiva obliqua, creano un’esuberante azione drammatica che va ben oltre le limpide geometrie che governano gli spazi e la disposizione delle figure in Leonardo. Sul recto
del foglio del Getty Rubens scrisse un promemoria sopra le teste
degli apostoli, per ricordarsi di aumentare la drammaticità delle
pose: “Gestus magis largi longiq[ue] / brachijs extensis” (“i gesti
[devono essere] più ampi e più larghi / con le braccia distese”)47.
Come ha osservato Jeremy Wood, il Cenacolo era ben noto
e copiato anche nella cerchia di Rubens, ad esempio da Pieter
Soutman e Jacob de Witt48. Il disegno alquanto grezzo e parzialmente incompleto conservato al Musée des Beaux-Arts di
d’Aragona, durante le loro visite del 10 e dell’11 ottobre 1517
alla dimora di Amboise e nel Castello di Blois, meno di due anni
prima della morte del maestro39. Queste opere facevano probabilmente parte del lotto che l’incorreggibile allievo Salaj (Gian
Giacomo Caprotti) vendette a Francesco I nel 151840. Il diario
di Cassiano dal Pozzo del 1625 cita anche altri dipinti attribuiti
a Leonardo, ed è lecito chiedersi se Rubens ne abbia tratto ispirazione verso la fine degli anni venti del Seicento41. Nel 1640, al
momento della morte, Rubens possedeva “Vn pourtrait sur toile
apres Leonardo da Vinci”, elencato nell’inventario dei suoi dipinti42 e anche se si può escludere che si tratti di un’opera autografa
(Leonardo non dipingeva su tela), il fatto che egli possedesse un
tale dipinto conferma in generale il suo impegno di rappresentare
il maestro toscano nella propria collezione.
Anche Federico Zuccaro aveva potuto vedere di persona la
9. Peter Paul Rubens, Ritratto di donna, 1625-1630 circa.
Royal Collection Trust, inv. RCIN 400118
Digione, eseguito a penna e inchiostro con acquerellature sulla
base dell’Ultima cena danneggiata di Leonardo, è stato declassato
nell’attribuzione a un “artista fiammingo d’après Rubens”; sotto
la tovaglia la composizione è incompleta e al posto dei piedi degli apostoli vi sono soltanto scarabocchi49, inoltre sul verso sono
presenti note in olandese riguardanti il colore per gli abiti delle
figure. Nell’Abregé de la vie des peintres (Parigi 1699) Roger de Piles dice di aver tradotto in francese un taccuino di Rubens scritto
in latino, oggi perduto – afferma “dont l’Original est entre mes
mains”50 – che sembra contenesse un lungo brano con la descrizione e le sue reazioni al Cenacolo leonardiano. Secondo quanto
riferito da De Piles, Rubens riteneva che i superbi risultati raggiunti da Leonardo nell’Ultima Cena fossero impossibili da descrivere a parole e da imitare nell’arte: “Enfin par un effet de ses
profondes spéculations, il est arrivé à un tel degré de perfection,
qu’il me paroît comme impossible d’en parler assez dignement,
& encore plus de l’imiter”51.
Uno degli oggetti più interessanti di proprietà di Rubens – che
tuttavia non è stata analizzata in relazione alla sua ammirazione per
il Cenacolo – era un’edizione a stampa delle Novelle di Matteo Bandello (Lucca 1554), dove la novella 58 (l’ultima della prima parte)
contiene la celebre descrizione dei metodi di lavoro del vinciano.
Il racconto è dedicato a Ginevra Rangoni (1487-1540), la quale
sposò un Gonzaga del ramo cadetto della nobile famiglia che due
Gioconda durante il suo soggiorno in Francia nel 1573-1574,
ma non ne era rimasto particolarmente colpito. Secondo una
nota in una postilla alla sua copia della Vita di Leonardo di Vasari (nell’edizione del 1568), la Monna Lisa non solo era “secha e
di poco gusto e da fugirla e non dar fine mai a cosa alcuna come
fece il ditto Lionardo che se ne consumo la vita in sustanzie di
parole e giribizzi sufistichi e di poca utilita a se stesso e al arte”43.
Questa critica mette in prospettiva la fama di Leonardo, che
non era monolitica, soprattutto agli occhi di un pittore fiorentino tardo-manierista.
All’epoca di Rubens i dipinti murali di Leonardo non erano
più in condizioni del tutto identiche all’originale o erano scomparsi (fig. 11). Due mesi dopo la visita all’anziano maestro ad
Amboise, Antonio de Beatis riferisce nel suo diario dal 20 al 30
dicembre 1517 di aver visto a Milano l’Ultima Cena nel refettorio
10. Leonardo da Vinci, Gioconda, iniziata nel 1503. Parigi,
Musée du Louvre, Département des Peintures, inv. 779
11. Leonardo da Vinci, Ultima cena, 1493/1494-1498 circa.
Milano, Santa Maria delle Grazie, Refettorio
CARMEN C. BAMBACH
38
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
39
generazioni più tardi avrebbe ospitato Rubens a Mantova52. Bandello scrive che da ragazzo aveva visto Leonardo mentre dipingeva
il Cenacolo sull’impalcatura del refettorio di Santa Maria delle Grazie (fig. 11)53, infatti suo zio era don Vincenzo Bandello, il priore
della comunità monastica domenicana che nel 1493-1494 aveva
commissionato il lavoro, sotto il patrocinio di Ludovico Sforza
detto il Moro. Secondo le parole di Matteo Bandello, alcune volte Leonardo rimaneva tutto il giorno sul ponteggio per dipingere
furiosamente, “scordatosi il mangiare e il bere”, mentre altre volte
sostava soltanto per una o due ore “contemplava, considerava, ed
essaminando tra sé, le sue figure giudicava.” E continua: “L’ho anco
veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da
mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel
stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie
ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar
ad una di quelle figure, e di subito partirsi e andare altrove.”54 Il
brano coglie in modo vivido e coinvolgente due aspetti chiave del
processo creativo di Leonardo: lo studio e la riflessione silenziosa,
l’ispirazione e il lavoro frenetico.
Gli aneddoti su Leonardo apparentemente inoperoso sui ponteggi del Cenacolo, probabilmente più noti di quanto si pensi, ricordano l’episodio riferito a Rubens nella Inleyding tot de hooge schoole
der Schilderkonst di Samuel van Hoogstraten (Rotterdam 1678): a
chi gli rimproverava di aver trascorso tutto il soggiorno romano a
vagare, osservare e star seduto in silenzio invece di produrre copie
o disegni tratti dai dipinti degli antichi maestri, Rubens rispondeva
ridendo: “Sono molto più operoso quando mi vedi oziare” (“Ik ben
aldermeest beezich, als gy my leedigh ziet”)55.
All’inizio del Seicento, lo stile pittorico di Leonardo era conosciuto per lo più attraverso copie. Tuttavia le numerose imitazioni dei Leonardeschi (i seguaci lombardi) meno capaci – in
forma di dipinti e disegni, questi ultimi spesso eseguiti a punta
metallica su carta preparata grigio-bluastra – avevano contribuito
a far diminuire l’apprezzamento per l’arte del maestro56. Quelle
opere infatti esasperavano i dispositivi pittorici di Leonardo facendo un uso eccessivo del chiaroscuro o delle tonalità bluastre,
per indicare la prospettiva ricca di atmosfera nei paesaggi, e alterandone anche il vocabolario figurativo per i tratti del viso e per
i gesti. Leonardo aveva prodotto numerosi studi di teste maschili
e femminili dalla fisionomia grottesca, e anche questi furono replicati abbondantemente dai Leonardeschi, oltre che da artisti del
Seicento e del Settecento che realizzarono copie da copie a diversi
gradi di distanza dagli originali57. Uno dei primi studi di Rubens
ispirati a Leonardo è il profilo maschile del 1601-1605 circa disegnato a matita rossa con tratti vividi poi rielaborati a pennello
e acquerello rosso, con lumeggiature in gouache bianco-giallastra,
oggi alla Morgan Library and Museum di New York (fig. 12)58.
Qui il maestro fiammingo, impiegando la medesima matita rossa
usata per il ritratto, annotò erroneamente il foglio scrivendo sulla
sinistra “Niccolò da Uzzano”, il nome del gonfaloniere di giustizia
fiorentino morto nel 1431.
Prima di proseguire nella nostra analisi della risposta di Rubens a Leonardo con questioni teoriche di più vasta portata, dobbiamo notare che durante il Seicento e il primo Settecento si verificarono cambiamenti molto significativi nel gusto, nei metodi di
formazione degli artisti e nelle tendenze del collezionismo. Al di
là della semplice distanza temporale quindi, il tema del probabile
apprezzamento di Leonardo da parte di Rubens e la nostra comprensione della questione sono stati sicuramente offuscati da tali
mutamenti. La vita di Rubens (1577-1640) si svolse in anni in cui
il clima culturale nella storia della pittura era in continua evoluzione. Un’accelerazione nella trasmissione delle teorie leonardiane
sulla pittura (oltre i circoli di conoscenti e artisti in Italia) avvenne
soltanto dopo la stampa a Parigi nel 1651 delle due edizioni gemelle (in italiano e in francese) del suo trattato (fig. 13). Il testo
compendiato di queste edizioni rifletteva la complessa vicenda
della rielaborazione degli appunti originali di Leonardo, tuttavia
le due pubblicazioni ebbero il pregio di risvegliare l’attenzione sul
maestro e sulla sua opera, anche se attraverso la lente estetica del
gusto accademico francese.
Tra il 1481e il 1482, mentre dipingeva l’incompiuta pala
degli Uffizi con l’Adorazione dei Magi destinata ai monaci della
chiesa di San Donato a Scopeto a Firenze, e il 1519, anno della
sua morte ad Amboise, Leonardo aveva scritto numerosi appunti
frammentari per il suo incompiuto Libro di pittura. In questi scritti disordinati aveva esposto i principi fondamentali del disegno e
della pittura, completandoli con consigli pratici, utili a imparare
e perfezionare queste arti. Giovan Francesco Melzi (1491/14931567), il “gentiluomo milanese” che fu suo amato allievo ed erede
artistico, si adoperò per assistere il maestro nella redazione di queste note negli ultimi anni di vita59 e alla sua morte, il 2 maggio,
ereditò tutti i manoscritti e “ciaschaduno di libri che il dicto Testatore ha de presente et altri Instrumenti et Portracti circa l’arte
sua et industria de Pictore”60.
L’impresa più importante di Melzi, probabilmente compiuta negli anni trenta o quaranta del Cinquecento, fu quella di riunire e ordinare il caos di appunti sulla pittura sparsi nel labirinto
dei manoscritti del maestro, creando il testo compendiato oggi
noto come Libro di pittura del Codex Urbinas Latinus 127061.
In seguito, nella seconda metà del XVI secolo, ne circolarono
anche diverse altre copie con testi ancora più abbreviati, tuttavia
soltanto il Codex Urbinas Latinus 1270 di Melzi comprende la
sezione sul “Paragone delle arti”, mentre l’altro gruppo di copie
manoscritte del Libro di pittura (noto come Gruppo B) sembra
l’abbia omessa per vari motivi62. In ogni caso, anche se gli appunti di Leonardo sulla pittura erano rimasti inediti, nel Seicento
se ne aveva una conoscenza diffusa. Ad esempio, una breve allusione sardonica di Galileo nel suo Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo tolemaico e copernicano (Firenze 1632) conferma la padronanza da parte dell’autore delle teorie di Leonardo
sulla pittura: “altri posseggono tutti i precetti del Vinci, e non saprebber poi dipignere uno sgabello […] il dipignere s’impara col
continuo disegnare e dipingere”. Il Dialogo di Galileo sosteneva
la preminenza della pratica e dell’esperienza diretta, sulla teoria
e l’apprendimento libresco (una filosofia molto leonardiana), ed
era uno dei libri che Rubens teneva nella sua biblioteca63.
Nell’ottobre del 1651, le edizioni gemelle in francese e in
italiano degli scritti di Leonardo sulla pittura furono pubblicate
contemporaneamente a Parigi da Jacques Langlois con i rispettivi
titoli di Traitté [sic] de la peinture e Trattato della pittura64, corredate da nuove biografie di Leonardo e di Leon Battista Alberti a
cura di Raphaël Trichet du Fresne e da una versione del De statua
di Alberti. La traduzione francese dell’originale italiano era opera
di Roland Fréart de Chambray. La preparazione per la costosa
pubblicazione in folio, illustrata con 101 tavole incise, era iniziata
già nel 1640, ma gli eventi politici in Francia avevano contribuito
a ritardare la stampa di ben undici anni65. Il testo pubblicato si
basava sul manoscritto consegnato da Roma nell’agosto del 1640
da Cassiano dal Pozzo, a sua volta risultato, durante gli anni trenta del Seicento, delle scrupolose campagne di trascrizione, collazione e correzione dei contenuti provenienti da varie fonti manoscritte66. Nel 1638 Nicolas Poussin aveva realizzato i disegni delle
figure umane, mentre gli altri erano opera di Pierfrancesco Alberti
(1584-1638). Charles Errard aveva trasformato alcuni progetti in
disegni per l’incisione e, con grande disappunto di Poussin, le
acqueforti finali erano per lo più opera di René Lochon. L’esatta
attribuzione delle illustrazioni pubblicate nel Trattato nel 1651
continua a essere oggetto di discussione67.
Negli anni quaranta del Seicento, i preparativi per la pubblicazione del Trattato di Leonardo coincidevano con la fondazione
e con gli esordi dell’Académie royale de peinture et de sculpture,
un’istituzione che svilupperà il suo grande potere politico negli
anni sessanta del secolo68. La grande incisione di Pierfrancesco
Alberti realizzata intorno al 1600, l’anno in cui Rubens giunse
in Italia, ritraeva invece l’Accademia di San Luca a Roma, dove
i giovani artisti svolgevano molte delle attività raccomandate nei
precetti di Leonardo (fig. 14)69.
Le prime biografie di Rubens – Giovanni Baglione (1642),
Giovanni Pietro Bellori (1672), Joachim von Sandrart (1675) e Roger de Piles (1681) – furono compilate in un contesto culturale il
cui gusto estetico era largamente sfavorevole ai principi dello stile
pittorico di Leonardo. De Piles, convinto sostenitore del maestro
fiammingo, aveva pubblicato anche un’importante biografia di Leonardo nel suo Abregé de la vie des peintres, avec des reflexions sur
leurs ouvrages, et un Traité du peintre parfait (Parigi 1699)70. Pur
basandosi in parte sulla Vita vasariana, il critico francese aveva
commentato in modo ponderato e sofisticato l’opera di quel genio
difficile, impiegando il termine “génie” (senza la nostra moderna
ansia per questa parola) come parte del proprio vocabolario critico
per descriverlo71. De Piles godeva del vantaggio di aver assimilato
a fondo i precetti della teoria artistica leonardiana pubblicati nelle
edizioni parigine del 1651, e utilizzò questa conoscenza per descrivere i dipinti di Rubens, pur non riconoscendo l’artista toscano
come fonte d’ispirazione72. Al contrario, il più prosaico Sandrart,
che aveva brevemente incontrato Rubens di persona nel 1627, spiegava che il fiammingo aveva studiato le lodevoli sculture antiche e le
opere di Michelangelo, Leonardo e Raffaello a Roma, ma avvertiva:
“ha delle riserve nel seguirle interamente, poiché la summenzionata
maniera veneziana gli è più congeniale” (“jedoch gänzlich zu folgen
Bedenken gehabt / indem ihm vorgemeldte Venetianische Manier
mehr angestanden”)73.
12. Peter Paul Rubens, Testa maschile di profilo (erroneamente
annotata come Niccolò da Uzzano), 1600-1605 circa. New York,
Morgan Library & Museum, inv. I.234
CARMEN C. BAMBACH
40
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
41
A mio avviso la risposta di Rubens a Leonardo è stata influenzata in modo significativo da un fattore, probabilmente più
astratto: Leonardo era l’exemplum del pittore colto e dagli interessi enciclopedici, cosa che sicuramente non era sfuggita all’attenzione del fiammingo. Presumibilmente dal 1600 la dimensione
della fama di Leonardo esercitò una precoce influenza formativa
sulla vita intellettuale di Rubens, che era ambizioso e prodigiosamente creativo.
Sarebbe difficile contestare l’affermazione di Julius Held,
eminente storico dell’arte e massima autorità accademica sul nostro fiammingo, che definì Rubens probabilmente “l’artista più
colto mai vissuto” e vorace lettore. Il numero di libri presenti
nella sua biblioteca personale o citati nella sua corrispondenza
poteva eguagliare o superare i trecento volumi74. Le prove più
recenti (la biblioteca, le citazioni, i libri a lui dedicati, i registri
dei suoi acquisti e simili) confermano che verso la fine della vita
Rubens aveva a portata di mano un’enorme varietà di ‘classici’ e
‘moderni’ su una vasta gamma di argomenti e nelle loro lingue
originali75. In particolare i suoi libri confermano la venerazione
per gli autori classici e tardo antichi, mentre il gran numero e la
varietà dei disegni da sculture antiche rivelano l’attento studio di
queste opere per scopi artistici oltre all’osservazione meticolosa e
precisa volta a soddisfare i suoi interessi antiquari76.
Considerate le notizie relative alla sua considerevole erudizione, si potrebbe sottovalutare quanto Rubens desiderasse inserirsi nell’ampia tradizione del pittore colto – il pictor doctus77 o
pictor studiosus78 – che, come egli ben sapeva, si era evoluta in
un sofisticato topos a partire dal Rinascimento e fino ai suoi tempi. Anche Leonardo aveva curato con attenzione la propria fama
e la creazione del proprio ‘personaggio’ reinventandosi in modo
analogo, e il contenuto della sua biblioteca personale intorno al
1503-1505 conferma le sue ambizioni intellettuali in questo senso79. Tra i suoi manoscritti troviamo anche numerosi promemoria sulla ricerca di opere di autori che abitavano a Milano (dove
viveva) o in città che visitava (come Vigevano o Urbino), oppure
di volumi entrati in possesso di colleghi ed eredi degli autori defunti. Intorno al 1503-1505 Leonardo possedeva circa 116 libri,
molti dei quali probabilmente acquistati intorno al 1500 a Venezia, all’epoca capitale dell’editoria nel Nord Italia80. L’inventario
dei suoi volumi (Codex Madrid II, fol. 3r-2v) suggerisce una biblioteca eccezionale per un artista del suo tempo e della sua classe
sociale.
Scorrendo i 116 titoli dell’elenco si nota che la varietà di
argomenti riecheggia la ricchezza multidisciplinare della biblioteca di Rubens, oltre un secolo dopo. Tuttavia nel tracciare questi paralleli bisogna ovviamente fare molte distinzioni. I libri di
Leonardo erano per lo più prime edizioni italiane a stampa, ad
esempio la Bibbia, il trattato enciclopedico di Giorgio Valla De
expetendis et fugiendis rebus, e varie opere di teologia; Aristotele,
Plinio, Alberto Magno e altri autori di filosofia naturale; Euclide,
Luca Pacioli per la matematica; gli autori arabi sull’astronomia,
l’ottica e la geometria; Vegezio e Valturio per la tecnologia militare; Ketham per la medicina e alcuni volumi sulla salute degli
equini; oltre a una quantità di opere di storia, letteratura e poesia81. Nel corso del secolo in cui visse Rubens la produzione di
libri in tutta Europa aumentò in modo esponenziale. Leonardo
invece era vissuto all’inizio dell’era del libro a stampa, nell’epoca
del sapere aristotelico semplificato e reso accessibile a tutti, delle
inesatte traduzioni in volgare e di modesti estratti da libri famosi, per citare solo alcune caratteristiche degli incunabola da lui
collezionati.
Possiamo riportare qui un esempio fra i tanti. All’inizio della
sua carriera di autore, Leonardo possedeva una piccola edizione a
stampa del Dell’Immortalità de l’anima elegantissimo dialogo vulgare ornamentissimo di Giacomo Campora da Genova, opera citata
nei suoi inventari del 1493-1495 e del 1503-150582. Questo trattato di un chierico domenicano vissuto all’inizio del Quattrocento, più volte ristampato tra il 1470 e il 1500, combinava truismi
teologici con una dubbia comprensione di Aristotele e descriveva
le “passioni mentali”, le “passioni dell’anima”, oltre alle più basse
“passioni corporali” con il linguaggio goffo di un modesto libro
popolare. È chiaro, tuttavia, che il volumetto fornì a Leonardo
uno stimolo e un punto di partenza per la straordinaria ricerca
sul gesto e l’espressione negli anni ottanta e novanta del Quattrocento83. Leonardo studiava e scriveva di scienza molto prima
delle scoperte scientifiche e dei progressi tecnologici del Seicento,
e viveva in un’epoca in cui stavano appena iniziando a uscire edizioni più rigorose e filologicamente curate di testi letterari, classici e di medicina. Per qualificarsi ulteriormente – a differenza di
Rubens, che aveva ricevuto un’educazione classica nelle lettere,
prima dal padre Jan (avvocato e politico) e poi dalla scuola latina
del Capitolo della cattedrale di Nostra Signora ad Anversa (tra le
altre) – il vinciano, figlio illegittimo e con una scarsa istruzione
formale oltre l’abaco, aveva studiato da autodidatta avvalendosi
dell’aiuto di una rete personale di studiosi ed esperti di tecnologia. Per tutta la vita adulta si sforzò di imparare il latino, ma non
lo padroneggiò mai.
Eppure, l’autodidatta toscano nutriva l’ambizione di scrivere
libri su numerosi argomenti e arricchiva le sue trattazioni con
splendidi disegni, soprattutto quando sentiva che le parole non
erano sufficienti, tanto che lasciò ai posteri più di 4000 fogli con
disegni e manoscritti. Com’è noto, in un celebre testo del 14901492 (Codex Atlanticus, fol. 327v), inteso come proemio a un
suo trattato mai venuto alla luce, Leonardo si definì “homo sanza
lettere”. Tuttavia descrivere sé stesso in questo modo era un espediente retorico per difendersi dalle critiche degli intellettuali colti
della corte degli Sforza e serviva a sottolineare che la sua autorità
intellettuale derivava dall’esperienza (“la sperientia maestra”), più
che dai libri e dalla conoscenza del latino84.
Nei passi sul Paragone delle arti – la sezione presente soltanto nella compilazione di Melzi, nel Codex Urbinas Latinus 1270
– Leonardo sostiene con veemenza la superiorità e la nobiltà della
pittura rispetto alla poesia, alla musica e alla scultura85. Sottolinea
la rapidità e la simultaneità con cui un dipinto comunica informazioni visive, a differenza della parola scritta, e sostiene che a
un pittore professionista è richiesto un sapere universale. Il suo
essere “scienzia” o “discorso mentale” eleva la pittura al rango di
arte liberale. Il pittore ha il dono unico di imitare perfettamente
la natura, sia nella rappresentazione della figura umana sia del
paesaggio, e può farlo usando il colore, la prospettiva e la luce; la
sua capacità di ritrarre la figura umana richiede una comprensione dei “concetti dell’anima” e delle possibilità fisiche del corpo di
compiere gesti e movimenti, nonché una profonda conoscenza
dell’anatomia e delle proporzioni di uomini, donne e bambini86.
I precetti della seconda parte del Codex Urbinas Latinus 1270
insistono ripetutamente sulla “universalità” del pittore: “quello
non fia universale che non ama ugualmente tutte le cose che si
contengono nella pittura”87, un attributo che determina la definizione di eccellenza artistica: “com’il pittore non è laudabile s’egli
non è universale”88.
Radicato nelle numerose citazioni obbligate di testi antichi
e nei molteplici paragoni fra le arti, il topos complesso e raffinato
del pittore colto e nobile emergerà una generazione più tardi nella
disinvolta eleganza letteraria, o “sprezzatura”, del Libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione (il manoscritto è stato iniziato
verso il 1508; prima stampa a Venezia nel 1528). Castiglione era
nato nel 1478 nei dintorni di Mantova, non lontano dalla corte
presso la quale Rubens si stabilì tra il 1600 e il 1608. Il Cortegiano sarà un libro fondamentale per la costruzione dell’immagine
di Rubens come pittore gentiluomo, ricercato e squisitamente
erudito, infatti l’artista fiammingo ne possedeva un esemplare in
italiano, lingua che padroneggiava e che si dilettava a usare per la
corrispondenza89. Inoltre probabilmente intorno al 1632, come
è stato suggerito, Rubens dipinse un olio su tavola con l’accurata
copia a grandezza naturale del celebre Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello90.
Già nei primi dialoghi del Cortegiano si parla della nobiltà della pittura (fondata sulla padronanza del disegno) e del suo
status di arte liberale come di fatti ormai acquisiti. Il libro I introduce l’esempio di Gaio Fabio (Gaius Fabius Pictor), pittore
romano membro dell’influente gens Fabia, fratello di un console
e lui stesso console della Repubblica, che ebbe anche una progenie intellettualmente dotata91. Si dice che Gaius Fabius Pictor,
molto versato in letteratura, diritto e oratoria, avesse dipinto le
pareti del tempio della Salute sul Quirinale, poi andato distrutto,
firmando l’opera intorno al 304 a.C. Il caso riportato da Castiglione, arricchito da commenti ‘antichi’ e ‘moderni’, deriva dal
libro della Naturalis historia di Plinio il Vecchio (XXXV, cap. 7)
dedicato alla pittura92. “Penso che dal nostro Cortegiano”, continua Castiglione, “[una cosa] per alcun modo non debba esser
lasciata addietro: e questo è il saper disegnare ed aver cognizion
dell’arte propria del dipingere”93. Nell’ambito di un discorso più
ampio sugli stili poetici, sulla musica e sulla questione dell’imitazione in rapporto alla maniera individuale, il libro elogia Leonardo, insieme a Mantegna, Raffaello, Michelangelo e Giorgione
(in quest’ordine). I cinque “eccellentissimi nella pittura”, ognuno
diverso dall’altro ma superbi nel loro stile individuale, sono – al
13 Roland Fréart de Chambray (a cura di), Traitté de la peinture
de Léonard de Vinci (Paris 1651), pp. 76-77. Leonardo sui muscoli
umani in azione e sull’esercizio della forza. Incisione di Charles
Errard da Nicolas Poussin. Washington, DC, National Gallery of Art,
inv. N44.L58 A5314 1651
CARMEN C. BAMBACH
42
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
14. Pierfrancesco Alberti, L’Accademia de’ pittori (L’Accademia
di San Luca), 1600 circa. New York, Metropolitan Museum of Art,
inv. 49.95.12
43
pari degli autori letterari – distintamente riconoscibili grazie alla
“maniera” della loro arte94. Mantegna, Leonardo, Michelangelo,
Raffaello e Giorgione riflettono appieno i gusti artistici del primo
Cinquecento, diffusi quando Castiglione era attivo alle corti di
Urbino e Mantova.
Due colti personaggi del Cortegiano discutono anche sulla superiorità della pittura o della scultura, basandosi sulle idee e sul linguaggio concettuale del Paragone delle arti di Leonardo (ma senza
citarlo esplicitamente)95. Tra gli interlocutori di questo paragone
ci sono il Conte (lo stesso Castiglione), che ha una predilezione
per Raffaello, e il dotto scultore di corte Gian Cristoforo Romano
(Giovanni Cristoforo Ganti, 1460 circa - 1512), il quale è invece
amico di Leonardo (quest’ultimo lo indica come attore nel foglio
conservato al Metropolitan Museum of Art con gli appunti e gli
schizzi per la messa in scena di La comedia di Danae di Baldassarre
Taccone96, una “festa” che fu rappresentata il 31 gennaio 1496 in
casa del conte Giovan Francesco Sanseverino a Milano).
La fonte antica più accreditata era naturalmente la Naturalis historia di Plinio, ben nota sia a Leonardo sia a Rubens, che
ne possedevano edizioni a stampa nelle rispettive biblioteche97.
Il libro XXXV di Plinio (cap. 34) presenta Apelle come il più
grande e colto pittore dell’antichità, anche autore di trattati sulla
dottrina della pittura: picturae plura solus prope quam ceteri omnes
contulit, voluminibus etiam editis, quae doctrinam eam continent.
Da allora, come ha dimostrato Sarah McHam, molti pittori del
Rinascimento saranno proclamati i “nuovi Apelle” del loro tempo, e Leonardo (così denominato dai poeti della corte sforzesca)
non faceva eccezione98. Anche l’epitaffio latino composto da Jan
Caspar Gevaerts per la cappella funeraria di Rubens nella Sint-Jacobskerk di Anversa paragona l’artista ad Apelle.
Tra gli autori rinascimentali vissuti due generazioni prima di
Leonardo, Leon Battista Alberti (1404-1472), raffinato umanista ed eclettico erudito, aveva sostenuto l’idea del pictor studiosus.
Nel libro III del suo trattato bilingue, Della pittura / De pictura
(ms., 1435-1436), Alberti sottolineava infatti l’importanza dell’educazione letteraria del pittore, al di là della sua arte: “Pertanto
consiglio a ciascuno pittore molto si faccia famigliare ad i poeti,
retorici e agli altri simili dotti di lettere”99. Il retaggio delle fonti
“antiche” e “moderne” non sfuggiva a Leonardo, il quale aveva
letto e reagito al testo formativo dell’Alberti sulla pittura, e spesso
si affidava a Plinio come riferimento per i suoi scritti: non leggeva
il latino, ma possedeva la Historia naturale nella traduzione in
volgare eseguita da Cristoforo Landino negli ultimi decenni del
Quattrocento100. Inoltre, sappiamo che verso il 1503-1505 aveva
almeno due, se non tre, altri trattati dell’Alberti101. Anche Rubens
del resto possedeva la traduzione italiana del De re aedificatoria di
Alberti, probabilmente nella celebre edizione pubblicata da Cosimo Bartoli a Firenze nel 1550102. Se Leonardo può rappresentare
un caso estremo, numerosi altri artisti curarono con attenzione
la propria immagine di individui colti. Ricordiamo tra questi il
Gian Cristoforo Romano citato nel Cortegiano, per non parlare di
Michelangelo negli anni della maturità103.
Nel tardo Cinquecento il nome di Leonardo era citato continuamente, tuttavia, salvo poche eccezioni, delle sue opere si discuteva poco e spesso lo si faceva usando le parole di autori precedenti. All’estero, i dettagli della sua carriera erano noti grazie a
Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori di Vasari, la cui
seconda edizione (Giunti, Firenze 1568) comprendeva una lunga biografia, ampiamente rivista, del grande maestro toscano104.
Qui il biografo aveva definito Leonardo il massimo esponente
del Terzo Stile o “maniera moderna”, lodandone la “gagliardezza
e bravezza del disegno” e il senso di “disegno perfetto e grazia
divina”105 e aveva raccontato (come nel caso di molti altri artisti)
vari aneddoti sulla sua bravura, proprio come Plinio aveva fatto
con gli “antichi”. A differenza dell’edizione delle Vite del 1550,
che presentava molti errori, la Giuntina pubblicava nuovi fatti su
Leonardo, poiché nel maggio del 1566, durante il suo soggiorno a Milano, il biografo aretino aveva incontrato personalmente
Giovan Francesco Melzi, il quale gli aveva mostrato i disegni e i
manoscritti originali del maestro106.
Anche gli scritti di Giovanni Paolo Lomazzo contengono informazioni biografiche sparse ma piuttosto ricche su Leonardo e
sulla sua teoria artistica, tuttavia i trattati dell’autore lombardo
non erano molto conosciuti fuori dal Nord Italia. La sua Idea del
tempio della pittura (Milano 1590) cita diversi esempi dell’opera
del vinciano107, mentre il Trattato dell’arte della pittura, scoltura et
architettura (Milano 1584) allude al manoscritto di Leonardo sul
paragone tra pittura e scultura che Lomazzo aveva consultato, e
nel libro II analizza ampiamente le teorie leonardiane sui “moti
mentali”, le “passioni dell’anima”, il movimento fisico, i gesti e
la varietà delle espressioni108. Lomazzo possedeva alcuni disegni
e appunti di Leonardo e, grazie ai contatti personali con Melzi,
era a conoscenza di molte informazioni dirette sul grande artista
toscano, come lui stesso riferiva109. Durante i suoi anni in Italia, Rubens lesse quasi certamente Vasari, almeno alcune parti, e
potrebbe aver conosciuto anche solo superficialmente gli scritti
di Lomazzo. In ogni caso, nel 1635 Jan Caspar Gevaerts donò a
Rubens un esemplare a stampa dell’edizione del 1568 delle Vite di
Vasari per la sua vasta e multidisciplinare biblioteca personale110.
Tra il 1600 e il 1608, durante la sua permanenza in Italia
(con la parentesi in Spagna nel 1603-1604), Rubens iniziò a comprendere meglio la statura di Leonardo come artista e teorico della
pittura – quindi molto prima che in Europa si diffondesse una conoscenza più ampia e concreta dei contributi del genio vinciano.
Per tutto il Cinquecento e il Seicento, gli artisti e i collezionisti
lombardi avevano tenuto viva la fiamma dell’arte di Leonardo. Il
duca Vincenzo I Gonzaga, mecenate di Rubens a Mantova, era il
pronipote di Isabella d’Este e Francesco II Gonzaga. Definita “la
prima donna del mondo” dal poeta Niccolò da Correggio, Isabella d’Este Gonzaga (1474-1519) era stata una figura leggendaria
per la sua conoscenza dei classici, la sua biblioteca, le collezioni di
arte e antichità che conservava nelle “grotte” dei suoi palazzi e anche come mecenate di artisti, musicisti, umanisti e letterati – uno
dei quali era Baldassarre Castiglione111. Nel 1500-1503, ospitato
a Mantova, Leonardo l’aveva ritratta (fig. 15) probabilmente due
volte, anche se uno dei due disegni è andato perduto112. Dal 1501
fino almeno al 1506 – come si apprende dalla corrispondenza tra
il segretario di Isabella alla corte dei Gonzaga e Pietro da Novellara, il vicario generale dell’ordine dei Carmelitani, che si trovava a Firenze – la marchesa di Mantova sollecitò con insistenza
Leonardo per ottenere un dipinto di sua mano, e chiese anche
un “Christo giovenetto”113. Nel 1620-1625 Lucas Vorsterman, allievo e poi collaboratore di Rubens, incise per il fiammingo una
copia del Ritratto di Isabella d’Este di Tiziano oggi conservato al
Kunsthistorisches Museum di Vienna (fig. 16)114.
Leonardo era un formidabile aemulus. La sua fama leggendaria come artista di grande cultura può aver ispirato Rubens a
esplorare le opportunità di reinventarsi seguendo quel modello
nella sua vita intellettuale, a proprio modo e secondo il proprio
talento. Tuttavia è altrettanto noto che la reputazione di Leonardo era piuttosto altalenante. Inizialmente Bartolomeo Cerretani
(1475-1524), storico e cronista fiorentino, lo aveva elogiato con
entusiasmo e nel 1505, quando l’artista aveva iniziato a dipingere la Battaglia di Anghiari, lo aveva definito “maestro grandissimo”. Nell’ottobre del 1509, tuttavia, Cerretani aveva perso la
pazienza, perché Leonardo aveva trascorso la maggior parte dei
due anni precedenti al servizio dei francesi a Milano, mentre nella sua nuova posizione tra i Dodici Buonomini del governo repubblicano di Piero Soderini, Cerretani si aspettava che Leonardo avrebbe completato l’importante commissione pubblica per
la Signoria fiorentina. Nel 1509 le sue laconiche dichiarazioni
sull’artista erano: “stava col re di Francia a Milano […] lavorava
poco”115. Nell’edizione delle Vite del 1568, Vasari definirà il maestro toscano “vario et instabile”116. La sua incapacità di portare
a termine i progetti è stata sottolineata da quasi tutti gli autori
cinquecenteschi che hanno scritto di lui, e alcuni lo hanno criticato aspramente per questo, cosa che Rubens indubbiamente sapeva117. Come ci ricorda Virgilio nel libro IV dell’Eneide: “Fama,
malum qua non aliud velocius ullum, / mobilitate viget, virisque
adquirit eundo”118: la fortuna e la fama agiscono rapidamente ma
non sempre per il bene, né con un riconoscimento proporzionale
ai risultati raggiunti. Lo stesso Rubens non aveva risparmiato un
commento sprezzante su uno scienziato contemporaneo: nella
lunga lettera scritta in italiano il 9 agosto 1629 da Londra a Ni-
colas-Claude Fabri de Peiresc, il fiammingo raccontava di aver
incontrato brevemente “il famosissimo filosofo Drebbel” – si
trattava del talentuoso Cornelis Drebbel (1572–1633), ingegnere e inventore olandese – e scherzosamente aggiungeva: “come
dice Machiavelli, di lontano nella opinione degli huomini paiono maggiori che d’appresso”119.
Alcuni autori cinquecenteschi, di cui Rubens possedeva i libri, avevano duramente biasimato Leonardo per il suo “filosofare”, per le invenzioni meccaniche e le imprese scientifiche che lo
distoglievano dalla pittura. Nel Cortegiano di Castiglione è senza
dubbio Leonardo il pittore di cui l’autore non fa il nome: “un altro
de’ primi pittori del mondo sprezza quell’arte dove è rarissimo ed
èssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha così strani concetti e
nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle”120. L’erudito giurista, matematico e medico Fazio Cardano
(1444-1524), amico di Leonardo a Milano e suo consigliere per il
latino121, aveva un figlio, Gerolamo (1501-1576), anch’egli medico e studioso poliedrico, il quale aveva avuto modo di conoscere
15. Leonardo da Vinci, cartone (disegno a grandezza naturale)
utilizzato per un ritratto di Isabella d’Este, 1500-1503 circa. Parigi,
Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. MI 753
CARMEN C. BAMBACH
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RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
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Teorizzando l’ideale del pittore universale, Leonardo non
soltanto considerava le possibilità illimitate dello scibile umano,
ma parlava anche di sé stesso, costruendo così per i posteri il
proprio personaggio. Negli anni milanesi si era trovato a suo
agio nell’eleganza della corte di Ludovico Sforza detto il Moro,
occupandosi della messa in scena delle feste, disegnando costumi, inventando prodigi meccanici e anche partecipando a eventi
intellettuali, come il “laudabile scientifico duello” del 9 febbraio
1498 citato da Fra Luca Pacioli nel suo Divina proportione126.
Come ricorda Lomazzo nel Trattato del 1584, il maestro scrisse
il perduto manoscritto sul Paragone tra pittura e scultura con
la mano sinistra (“egli scrisse di mano stanca”), su preghiera di
Ludovico il Moro127, e con quello negli anni novanta del Quattrocento gettò le basi per la formazione dell’ideale del pittore di
corte. A suo avviso solo le “fatiche di mente” stimolano il pittore
a dipingere, e questo lo eleva, mentre egli lavora nell’ambiente
elegante del suo studio:
“Con grand’aggio [il pittore] siede dinanzi alla sua opera ben vestito, e move il levissimo pennello con li vaghi colori, et ornato di vestimenti come a lui piace, e l’abitazione
sua piena di vaghe pitture, et pulita, et accompagnata spesse
volte di musiche, o lettori di varie e belle opere, la quale,
senza strepito di martelli od altri rumori misto, sono con
gran piacer udite”128.
direttamente i manoscritti del vinciano probabilmente attraverso
il padre122. Gerolamo (un’edizione del De subtilitate, Norimberga
1550, era presente nella biblioteca di Rubens)123 aveva parafrasato
alcuni passi degli appunti di Leonardo sulla pittura e lo elogiava
come pittore, tuttavia ne rifiutava il contributo all’anatomia e alla
filosofia naturale: “erat enim purus pictor, non medicus nec philosophus”. Inoltre nel De subtilitate alludeva in modo sgradevole
ai falliti esperimenti del maestro toscano con le macchine volanti, mentre riconosceva la sua eccellenza come pittore: “volandi
inventum, quod nuper tentatum a duobus, illis pessime cessit:
Vincius, de quo supra diximus, tentavit et frustra, hic pictor fuit
egregius”. Nell’edizione delle Vite del 1568 Vasari parla in termini
assolutamente negativi del periodo romano di Leonardo alle dipendenze di Giuliano de’ Medici, tra il 1513 e il 1516: “attendeva
molto a cose filosofiche e massimamente alla alchimia […] Fece
infinite di queste pazzie, et attese alli specchi”124. Abbiamo già
accennato alle acide critiche di Federico Zuccaro all’artista e alla
sua Gioconda negli anni settanta del Cinquecento125.
Leonardo aggiunge con enfasi: “Il pittore ha dieci varii discorsi, con li quali esso conduce al fine le sue opere, cioè luce,
tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto
e quiete.” In netto contrasto, lo scultore lavora con enorme “faticha di corpo” in un laboratorio disordinato, mentre scolpisce il
marmo “per forza di braccio […] con essercitio meccanichissimo,
accompagnato spesse volte da gran sudore”129.
Le Vite di Vasari nell’edizione del 1568, così come Lomazzo e altre fonti biografiche, ricordavano a Rubens l’illustre carriera di Leonardo come artista di corte dei potenti. Aveva servito
Ludovico il Moro a Milano dal 1487 circa fino all’autunno del
1499, quando le armate francesi di Luigi XII conquistarono la
città130. Giuliano de’ Medici lo aveva assunto e retribuito dal
1513 al 1516, e l’artista era entrato a far parte della cerchia degli
“uomini ingegnosi” (pittori, scultori, architetti, scrittori, alchimisti, specialisti di tecniche minerarie) che il fratello di Lorenzo
il Magnifico sosteneva con liberalità, se possiamo fidarci della
testimonianza personale di Francesco Vettori131. Lo stesso Giuliano gli aveva messo a disposizione un’abitazione e uno studio,
e nel dicembre 1513 aveva fatto ristrutturare per lui dall’architetto romano Giuliano Leno degli alloggi nella Villa del Belvedere in Vaticano132. L’impiego di Leonardo presso i reali francesi
era cominciato tra il 1501 e il 1512 con Luigi XII e terminato
con Francesco I e la regina madre, Luisa di Savoia, tra il 1516
e il 1519133. Secondo Benvenuto Cellini, che fu al servizio di
Francesco I nel 1537 e poi dal 1540 al 1545, il re francese “non
credeva mai che altro homo fusse nato al mondo che sapesse
tanto come Lionardo, non tanto di scultura, pittura et architettura, quanto che egli era grandissimo filosofo”134. Sia Vasari sia
Lomazzo raccontarono erroneamente che Leonardo morì tra le
braccia di Francesco I, tuttavia la “falsità” da loro ampiamente
diffusa non fece che accrescere la fama e l’ascesa del maestro al
rango nobiliare135. Nella biografia di De Piles del 1699 si presume infatti che fosse di estrazione aristocratica, “etoit d’une
noble Famille de la Toscane” e si ripete la versione di Vasari sulla
sua dipartita136. La leggenda della morte dell’artista tra le braccia
del re venne sfatata soltanto quando Giovanni Battista Venturi
notò che nel maggio del 1519 Francesco I si trovava nel palazzo
di Saint-Germain-en-Laye (Essai, Parigi 1797)137. Rubens probabilmente ricordava anche l’aneddoto un po’ confuso narrato
da Vasari, secondo il quale nel 1482 Lorenzo il Magnifico aveva
inviato Leonardo in missione diplomatica presso Ludovico il
Moro a Milano con in dono una lira d’argento da lui fabbricata
“in forma d’un teschio di cavallo”138.
Uno dei contributi più rivoluzionari di Leonardo è l’idea che
le “passioni dell’anima” e i “concetti della mente” governino la
capacità di espressione, la gestualità e i movimenti della figura
umana139. Nei suoi appunti frammentari, scritti nel corso di oltre
due decenni, li chiama anche “moti mentali”, “accidenti mentali”
o in altri modi (senza un vocabolario unificato), ma il principio è
sempre lo stesso:
“Come il bono pittore ha da depingere due cose, l’omo
e la sua mente. / Il bono pittore ha a dipingere due cose
principali, cioè l’omo e il concetto della mente sua. Il primo
è facile, il secondo difficile, perché s’ha a figurare con gesti e
mouimenti delle membra; e questo è da essere imparato dalli
mutti, che meglio li fanno che alcun’altra sorte de omini”140.
Leonardo cercava di creare una potente connessione psicologica tra l’osservatore dell’opera d’arte (il “risguardatore” o “contemplatore”, per usare le sue parole) e le figure e le azioni drammatiche rappresentate nella “istoria”. Solo una piccola parte di un
discorso più ampio, databile al 1490-1500, è oggi conservata nel
Codex Urbinas Latinus 1270 di Melzi:
“Delli componimenti delle istorie. / Li componimenti
delle istorie depinte debbono movere li risguardatori e contemplatori di quelle a quello medesimo effetto, che è quello
per il quale tale istoria è figurata”141.
L’attenzione di Leonardo alla rappresentazione dello stato
psicologico delle figure attraverso i loro gesti crea nelle sue composizioni una dimensione spirituale dello spazio, come nel Cenacolo (fig. 11), tanto ammirata da Rubens, e che Roger de Piles
nell’Abregé lodò per la “beauté éxquise” della composizione142. Il
maestro vinciano descriveva i “moti” (composti da un “moto spirituale” e da un “moto accidentale”) come di diversa natura, sulla
base delle definizioni della fisica e della filosofia naturale medievale-aristotelica – un quadro filosofico che sosteneva le sue idee sul
gesto e sull’espressione, di fondamentale importanza nei ritratti e
nelle composizioni figurative. Nei primi egli costruisce un’intensità psicologica che emerge quasi esclusivamente dallo sguardo dei
personaggi e dalle sottili tensioni dinamiche amplificate da pose
e gesti – come nel Ritratto di Ginevra de’ Benci (Washington, National Gallery of Art), nella cosiddetta “Belle Ferronnière” (quasi
certamente Lucrezia Crivelli; Parigi, Musée du Louvre) e nella
Gioconda (fig. 10). Ma le sue teorie sulle “passioni dell’anima” si
cristallizzano in modo più drammatico nel dipinto incompiuto
con San Girolamo (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca), cominciato nel 1483 circa, e nell’Ultima Cena (fig. 11), iniziata attorno al 1493-1499, composizioni religiose in cui i potenti
“moti” della mente e dell’anima, esternati attraverso gesti fisici
energici, generano un profondo impatto spirituale anche attraverso la disposizione delle figure.
L’idea leonardiana dei “moti” e delle “passioni dell’anima” raggiunse un pubblico più vasto con la pubblicazione del Libro di pittura, a Parigi nel 1651. De Piles, che era pienamente addentro a questo
nuovo linguaggio, commentò nell’Abregé de la vie des peintres:
“Il étoit sur tout fort attaché à l’éxpression des passions
de l’âme, comme un chose qu’il croyoit des plus nécessaires à
sa Profession, & sur tout pour attirer l’approbation des gens
d’Esprit”143.
Per descrivere la forza dei personaggi di Rubens, il critico francese adottò subito il concetto leonardiano di “passions
de l’âme”, ma senza menzionare il maestro toscano. Nelle sue
Réflexions, che nell’Abregé seguono la biografia di Leonardo, De
Piles ipotizzò tuttavia che il silenzio di Rubens indicasse un tacito
disaccordo con l’approccio del grande maestro toscano al colore
e allo stile pittorico:
“S’il m’est permis d’ajoûter quelque chose aux paroles
de Rubens, je diray qu’il n’a pas parlé du Coloris de Léonard
de Vinci ; parce que n’ayant fait ses remarques que des choses
qui luy pouvoient être utiles par rapport à sa Profession, &
n’ayant trouvé rien de bon dans le Coloris de Léonard, il a
passé cette partie de la Peinture sous silence”144.
16. Lucas Vorsterman I da Rubens, dal Ritratto di Isabella d’Este
di Tiziano, 1620-1625. New York, The Metropolitan Museum of Art,
inv. 51.501.7599
CARMEN C. BAMBACH
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RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
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Più probabilmente, il giudizio rifletteva le opinioni e i gusti
personali dello stesso De Piles, il quale scriveva molto dopo la
morte di Rubens, in un periodo di fervide dispute intellettuali.
Nella querelle des anciens et des modernes i teorici dell’arte avevano diviso la storia della pittura italiana in due correnti, con
Tiziano e Veronese da una parte e Raffaello e i Carracci dall’altra. De Piles aveva scelto di difendere Rubens e il “pittorico” (“il
moderno”), rispetto a Poussin e al “classico” (“l’antico”), tuttavia, nonostante le riserve, nell’Abregé riconosceva la “grande
variété de connoissance” di Leonardo e il dono per i posteri
costituito dalle sue note teoriche sulla pittura. E aggiungeva:
“Il étoit occupé sans cesse de Réflexions sur son Art”145, per poi
elogiare i suoi disegni: “Son Dessein est d’une grande correction
& d’un grand Goût, quoy qu’il paroisse avoir été formé sur le
Naturel plutôt que sur l’Antique”146.
Inoltre quando Damon, uno degli interlocutori della Seconde Conversation di De Piles (Parigi 1677) che parteggia per
Rubens, enumera le varie discipline che i pittori dovrebbero conoscere, il modello è essenzialmente quello del “pittore universale” di Leonardo:
“Il me semble, continua-t’il, que la Peinture enferme tant
des connoissances, qu’il est necessaire qu’un Peintre sçache
la Philosophie, la Geometrie, la Perspective, l’Architecture,
l’Anatomie, l’Histoire, la Fable & quelque chose mesme de la
Theologie: qu’il sçache les devoirs de la vie civile, & qu’il ait
une grande pratique du Dessein, & du Coloris”147.
E Philarque, l’altro interlocutore, descrive (sempre in termini leonardiani) la varietà delle “‘passions de l’âme’ che Rubens
sapeva ormai padroneggiare”148. Insomma Leonardo aveva inventato un vocabolario nuovo e audace per parlare della creatività
artistica, anche se nelle edizioni del Libro di pittura pubblicate
a Parigi nel 1651 le parti relative a questi argomenti erano state
soppresse. Il maestro toscano riteneva che le fonti di ispirazione del pittore dovessero essere colte con “libera potestà” e la sua
idea del carattere soprannaturale della forza creativa non sarebbe
piaciuta alle autorità religiose e politiche dei Paesi cattolici: “la
deità ch’ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si
trasmuta in una similitudine di mente divina”149. Per Leonardo,
filosofo naturale dai primi anni novanta del Quattrocento in poi,
così come per i seguaci del pensiero aristotelico-medievale del suo
tempo, il “motore primo” di tutte le cose – animate e inanimate
– è il “moto spirituale”, l’invisibile forza vitale che opera secondo
un insieme di leggi universali e dà impulso a ogni azione fisica, o
“moto materiale”. A suo avviso il disegno è una forza di ispirazione divina, che trascende i poteri della Natura. Una nota perduta
del 1492 circa per il Libro di pittura, conservata solo nel Codex
Urbinas Latinus 1270 di Melzi, comunica le convinzioni di Leonardo in termini straordinariamente concisi:
“Due sono le parti principali nelle quali si divide la
pittura, cioè lineamenti, che circondano le figure de’ corpi
finti, li quali lineamenti si dimanda disegno. La seconda è
detta ombra. Ma questo disegno è di tanta eccellenzia, che
non solo ricerca l’opere di natura, ma infinite più che quelle
che fa natura. Questo commanda allo scultore terminare con
scienza li suoi simulacri, et a tutte l’arti manuali, ancora che
fussino infinite, insegna il loro perfetto fine. E per questo
concluderemo non solamente esser scienzia, ma una deità
essere con debito nome ricordata, la qual deità ripete tutte
l’opere evidenti fatte dal sommo iddio”150.
Sono proprio questi i concetti che Vasari tratterà più ampiamente nel celebre discorso sul disegno nell’edizione delle Vite del
1568, e l’importanza del disegno divenne centrale nei dibattiti
accademici del Seicento151.
Le idee di Leonardo sul ruolo degli schizzi nella fase di progettazione di un’opera furono un altro dei suoi contributi rivoluzionari, fondamentale per Rubens e per gli artisti secenteschi. Tra
il 1490 e il 1510 il genio vinciano dedicò almeno sette frammenti
all’uso dei quaderni di schizzi (“piccioli libretti”) e all’importanza
di un’esecuzione rapida (“il bozzare pronto”, per usare una sua
espressione), il che rivela il suo costante interesse per l’argomento152. I piccoli taccuini portatili impiegati per abbozzare con tratti
brevi (“con brevi segni”) le figure intente alle attività quotidiane
potevano servire in seguito come repertorio di idee per pose e gesti153. Inoltre lavorando sui quaderni di schizzi i pittori imparavano a creare figure ben integrate in una “storia”: l’autore consigliava
di abbozzare rapidamente le composizioni (“il bozzare delle storie
sia pronto”), con sintetici accenni alle figure e alle loro membra
(“il membrificare non sia troppo finito”)154; e metteva in guardia
contro le composizioni troppo elaborate, infatti a suo parere molti pittori rovinano i disegni rimaneggiando le figure e le membra
con una finitura eccessiva155. Il Codex Urbinas Latinus 1270 di
Melzi conserva una nota originale oggi perduta del 1505-1510,
in cui Leonardo spiega le sue idee sull’abbozzare proprio all’epoca del lavoro sul cartone della Battaglia di Anghiari156: qui egli
consiglia ai pittori di studiare i “piegamenti e distendimenti” dei
corpi dei soldati in azione, e nei disegni di questo periodo esplora anche l’anatomia fisio-meccanica del corpo maschile in movimento, per creare contenuti da inserire nel Libro di pittura157. Un
antico copista, molto probabilmente lo stesso Melzi, ha emendato
l’intestazione del precetto con un’aggiunta in caratteri minuscoli,
per chiarirne il contenuto (qui sottolineato): “Del compore delle
storie in p.[rim]a bozza”158. Il vocabolario di Leonardo relativo
alla creazione di schizzi era ormai cambiato e la sua formulazione,
probabilmente incompleta, risultava ambigua:
“Lo studio de’ componitori delle istorie debbe essere
de porre le figure disgrossatamente, cioè bozzate, e prima
saperle ben fare per tutti li versi e piegamenti e distendimenti
delle lor membra”159.
Il Codex Urbinas Latinus 1270 registra anche un altro
testo significativo del 1505-1510, in cui Leonardo esorta i pittori a esplorare le idee per le composizioni pittoriche cominciando col tracciare “componimenti inculti” (schizzi approssimativi) per analogia con il metodo dei poeti, che nella stesura
dei versi scrivono le prime idee in modo disordinato e i testi
sono pieni di cancellature160. Tuttavia il passaggio più celebre
si trova nel ms. A di Parigi, ed è del 1490-1492 circa: Leonardo interpreta l’invenzione di soggetti e schizzi veloci in relazione alla fantasia creativa161 suggerendo che le forme accidentali
– ad esempio muri imbrattati di macchie o le miscele di pietre
miste – possono far nascere nell’occhio e nella mente del pittore nuove idee per composizioni figurative. Quando Melzi trascrisse questa porzione di testo, ora nel Codex Urbinas Latinus
1270, aggiunse il contenuto di altri appunti perduti del maestro, in cui si dice che anche le forme suggestive della cenere,
delle nuvole e del fango possono destare l’ingegno del pittore
a nuove invenzioni162. In pratica, però, Leonardo si aspettava
che i pittori andassero ben oltre queste iniziali fantasticherie
quasi oniriche sulle forme, e studiassero con attenzione le figure e i dettagli dalla natura.
In un mondo pre-freudiano, Leonardo aveva provato quindi a verbalizzare il ruolo svolto nell’impulso artistico dallo stato
mentale conscio, inconscio e semi conscio, e aveva preso atto del
potere dell’immaginazione umana. Infatti allude alla creatività
che può svilupparsi in uno stato di semi-coscienza: “Dello studiare insino quando ti desti, o nanzi tu te adormenti nel letto
allo scuro”163 e nel Codex Arundel del 1504-1505 circa riflette:
“e certa la cosa / p[er]che vede piv certa la cosa lochio ne sognj
/ che colla imaginatione sta[n]do dessto”164. Leonardo adotta
i principi della suggestione come metodo artistico, perché ha
capito che abbozzare rapidamente con la penna, lo stilo o la matita può generare un’esplosione di idee sulla carta165. Nel flusso
spontaneo del “bozzare pronto” o del “porre le figure disgrossatamente”, l’artista può cercare e inventare i movimenti e i gesti
realistici per comunicare gli “atti mentali” delle figure all’interno della storia. Facendo eco a Leonardo, anche se con un vocabolario diverso, l’edizione del 1568 delle Vite di Vasari definisce
tali schizzi compositivi come “una prima sorte di disegni che si
17. Lucas Vorsterman I da Leonardo da Vinci, Profilo di uomo
anziano con barba, 1627-1630 circa. Londra, British Museum,
inv. A,06.4/SL,5227.4. Copia di un disegno autografo di Leonardo
da Vinci (Windsor, Royal Library, inv. RCIN 912499r)
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RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
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fanno per trovare il modo delle attitudini et il primo componimento dell’opra; e sono fatti in forma di una macchia”166.
Nel percorso di formazione artistica previsto da Leonardo, i
giovani pittori dovevano ritrarre il modello dal vero (“ritrarre di
naturale”) e i panneggi da calchi tridimensionali, con grande diligenza. Poi, sulla base di tali studi, potevano adattare e rielaborare
le figure per la “istoria” secondo lo scopo richiesto, “levando e
ponendo, tanto, che tu ti satisfaccia”167.
Nelle Réflexions, De Piles elogia la competenza di Leonardo
in anatomia e conferma che Rubens ebbe accesso e poté studiare
i disegni del grande artista toscano appartenenti alla collezione di
Pompeo Leoni (1530/1533 circa - 1608).
“Rubens s’étend ensuite sur le degré auquel Leonard de
Vinci possédoit l’Anatomie. Il rapporte en détail toutes les
Etudes & tous les Desseins que Leonard avoit faits, & que
Rubens avoit vûs parmi les curiositez d’un nommé Pompé
Leoni, qui étoit d’Arezzo. Il continuë par l’Anatomie des
Chevaux, & par les Observations que Leonard avoit faites
sur la Phisionomie, dont Rubens, avoit vû pareillement les
Desseins ; & il finit par la méthode dont ce Peintre mesuroit
le corps humain”168.
Gli studi anatomici di Leonardo in possesso di Pompeo Leoni facevano parte dell’album Windsor Leoni (ora smembrato)
conservato presso la Royal Library del castello di Windsor, che
comprendeva anche gli studi sull’anatomia del cavallo, nonché
sulla fisionomia e sulle proporzioni del corpo umano. Alcune
informazioni del critico francese sono imprecise, ad esempio non
era Pompeo Leoni ma il padre Leone (1509-1590), il celebre
scultore, collezionista di Arezzo amico di Michelangelo. Inoltre
De Piles non specifica quando e dove Rubens abbia visto i disegni della collezione Leoni, anche se si tratta di informazioni
importanti.
In base alle date dei numerosi viaggi di Rubens possiamo
ricostruire dove l’artista potrebbe aver avuto l’opportunità di vedere dipinti, disegni e manoscritti di Leonardo. Come ho già avuto occasione di affermare, sembra che abbia visto la Gioconda a
Fontainebleau intorno al 1625, in base all’allusione nel diario di
Cassiano dal Pozzo. A mio avviso, però, è più che probabile che
le occasioni di osservare le opere del genio vinciano siano state
molteplici e durante un lungo arco di tempo (di sfuggita o con
tutta calma), non solo in Italia e in Francia, ma anche altrove in
Europa. Anche a Madrid e a Londra esistevano importanti collezioni di disegni e manoscritti di Leonardo. La seguente sintesi
del complesso corpus di documenti e testimonianze archeologiche
visive può aiutare a chiarire quando, tra il 1600 e il 1640, l’artista
fiammingo potrebbe aver visto questi disegni e manoscritti169.
Tra le collezioni di opere leonardiane su carta presenti nel
tardo Cinquecento e nel Seicento a Firenze, in Lombardia, Piemonte, Savoia, Roma, Inghilterra e Francia, nel 1600 nessuna
era all’altezza di quella di Pompeo Leoni170. A Milano, i suoi
principali concorrenti nella raccolta di disegni e manoscritti del
genio vinciano erano i fratelli Mazenta: Giovanni Ambrogio
(1565-1635) e i meno importanti Guido (1564 circa - 1613) e
Alessandro (1566-1630). Le tendenziose Memorie di Giovanni
Ambrogio Mazenta (ms. 1631-1635) registrano episodi di furti e recuperi di manoscritti e accusano indebitamente Pompeo
Leoni di essere un collezionista “distruttivo”171. Fino al 1590, le
collezioni d’arte di Pompeo Leoni erano probabilmente divise
tra la Casa degli Omenoni a Milano (ereditata dal padre Leone) e la casa di Calle de San Francisco a Madrid, acquistata nel
1574. Il 9 ottobre 1608 Pompeo dettò a Madrid, poco prima di
morirvi, un testamento redatto con cura, poiché la sua complicata famiglia comprendeva una moglie, due amanti e le rispettive progenie172. Al momento del decesso, tuttavia, la collezione
d’arte, compresi i disegni e i manoscritti di Leonardo, si trovava
nella casa di Calle de San Francisco a Madrid, come sappiamo
da due inventari, entrambi redatti in loco dallo stesso notaio che
si era occupato del testamento: una tasación (stima) del 1609
dei beni di Pompeo subito dopo la sua morte e un altro inventario senza valutazioni del 1613173. Come ho proposto, il lettore
specialista di Leonardo e “perito” che guidò le prime valutazioni dei taçadores madrileni fu Vicente Carducho (1576/15781638), pittore fiorentino quasi esattamente contemporaneo di
Rubens. Carducho (con i suoi aiutanti copisti) annotò in uno
spagnolo italianizzato l’album Windsor Leoni e altri manoscritti
di Leonardo (ad esempio, il ms. B di Parigi, inv. 2173 e 2184; il
Codice sul volo degli uccelli di Torino e il Codex Madrid I, inv.
8937)174. I Diálogos de la pintura di Carducho (Madrid 1633)
rivelano la sua conoscenza dei disegni e della teoria artistica di
Leonardo e l’autore elogia anche Rubens per la “grandeza y valentía” (grandezza e valore) che aveva portato in patria attraverso
le sue opere.
Poco dopo il marzo 1609 si svolse a Madrid una almoneda
(asta) durante la quale Juan de Espina y Velasco (1568-1642)
acquistò due manoscritti di Leonardo (Codex Madrid I e II),
e forse anche altro175. Carducho, che conosceva le eccentriche
collezioni di Espina, affermò in due occasioni distinte che sia
il principe di Galles (il futuro Carlo I) durante la sua visita in
Spagna nel 1623, sia Thomas Howard, XIV conte di Arundel,
avevano tentato di acquistare i volumi madrileni176. Inoltre tra
il 1628 e il 1637, Arundel probabilmente cercò anche altro materiale leonardiano177. Ciò che non era stato venduto nell’almoneda del 1609 fu ereditato dal figlio di Pompeo, Miguel Ángel
(“Micael Angel”, Michelangelo), che lasciò Madrid per Milano
poco dopo il 24 agosto 1609 e qui morì il 2 giugno 1611 senza
lasciare alcun testamento. La significativa quantità di opere di
Leonardo rimaste in suo possesso passò quindi al fratello León
Bautista (detto anche soltanto Bautista, e nei documenti italiani
Leon Battista), il quale nel 1615 morì senza figli a Milano. Ciò
che non fu venduto del suo patrimonio finì nelle mani dell’avido
cognato Polidoro Calchi, che vendette parte di questa eredità al
conte Galeazzo Maria Arconati (1580-1649). Tuttavia dai documenti risulta chiaro che nel 1613-1614 era presente del materiale leonardiano sia nella casa della famiglia Leoni a Madrid (registrato nell’Inventario redatto nei mesi di giugno-agosto 1613),
sia, nell’ottobre 1614, nella Casa degli Omenoni a Milano (“in
Casa il Leoni Aretino in Milano”178).
Nel 1613 l’album Windsor Leoni si trovava ancora a Madrid, ma tra il 1613-1618 e il 1623 si verificò il suo passaggio
in mani inglesi, infatti dalla metà degli anni venti del Seicento
esistono prove visive attendibili del fatto che i disegni di quell’album venissero copiati in Inghilterra179. Nel 1613-1614 la vendita al granduca Cosimo II de’ Medici del monumentale Codex
Atlanticus proveniente dalla residenza milanese di Leon Battista
Leoni non andò in porto180. Tra gli anni venti e i primi anni quaranta del Seicento, l’album Windsor Leoni fu per qualche tempo
di proprietà di Thomas Howard, XIV conte di Arundel (15851646), e di sua moglie Aletheia Talbot (1585-1654), contessa
di Shrewsbury, dal momento che Lucas Vorsterman I nel 1627
(fig. 17) e Wenceslaus Hollar dopo il 1636 realizzarono delle
esatte repliche dei disegni di Windsor per i due collezionisti181.
Gli Arundel possedevano anche il codice leonardiano oggi conservato alla British Library (ms. Arundel 263), tuttavia la loro
collezione cominciò a essere smembrata mentre la coppia era ancora in vita a causa delle loro difficoltà finanziarie182. Il ritratto di
gruppo di Rubens conservato a Monaco raffigura Aletheia Talbot nel 1620 in un’ambientazione principesca, seduta a fianco di
un uomo che potrebbe essere sir Dudley Carleton, ambasciatore
britannico all’Aia, o l’accompagnatore di lei, Francesco Vercellini (fig. 18). Nel 1629, durante un’altra visita a Londra, Rubens
ebbe modo di vedere varie collezioni d’arte, tra cui quella presso
la Arundel House183.
Il gruppo dei primi studi écorchés di Rubens – alcuni dei
quali sono venuti alla luce nel 1987 e che sono stati catalogati
con precisione da Michael Kwakkelstein – in generale conferma le
affermazioni di De Piles secondo cui il maestro fiammingo aveva
visto i disegni anatomici di Leonardo184. Consideriamo ad esempio lo studio audace ed espressivo a penna e inchiostro conservato
al Metropolitan Museum of Art (fig. 19; cat. III.2), in cui Rubens
raffigura un avambraccio sinistro in due posizioni e un avambraccio destro, e mettiamolo a confronto con il disegno di Leonardo
conservato a Windsor (Anatomical ms. A, fol. 14v, inv. RCIN
91913v; fig. 20), del 1510-1511 circa, in cui l’artista rimuove gli
strati di pelle per esporre più chiaramente la rete sottostante di
muscoli e legamenti del braccio e della spalla in movimento185.
I magnifici disegni dell’Anatomical ms. A di Windsor, spesso
estremamente accurati, sono stati eseguiti sulla base di autentiche
dissezioni (e non su calchi), e probabilmente sono “belle copie”
derivate da schizzi preliminari eseguiti in loco in una fase iniziale186. In questi fogli, Leonardo esprime la necessità di disegnare le forme anatomiche da più punti di vista, per comunicare la
complessità del corpo e delle sue membra. Di solito per le forme
sceglie tre o quattro angolazioni diverse, ma nel caso degli arti
in movimento adotta otto punti di vista. Il disegno di Rubens
(fig. 19), ispirato ai modelli tridimensionali realizzati da Willem
van Tetrode ed eseguito per scopi completamente diversi, è una
risposta a Leonardo solo in senso lato. Gli autori hanno datato gli
écorchés di Rubens agli anni tra il 1600 e il 1605, cioè al periodo
italiano, ipotizzando che Rubens avesse visto le anatomie leonardiane della collezione di Pompeo Leoni a Milano; inoltre quei
disegni sono realizzati su una carta associata alla corte mantovana187. Come sappiamo, però, la permanenza di Rubens a Mantova
fu interrotta nel 1603-1604 da un viaggio diplomatico a Madrid
(per conto del duca Vincenzo Gonzaga), confermato anche dalla
sua corrispondenza188. Come abbiamo visto, negli anni della visita di Rubens in Spagna la collezione di Pompeo Leoni, compresi
i fogli anatomici dell’album Windsor-Leoni, si trovava a Madrid.
18. Peter Paul Rubens, Ritratto di gruppo con Aletheia Talbot, 1620.
Monaco di Baviera, Alte Pinakothek, inv. 352. Ritratto di gruppo
con Aletheia Talbot, contessa di Shrewsbury, accanto a un uomo che
potrebbe essere Sir Dudley Carleton, ambasciatore britannico all’Aia,
oppure l’accompagnatore di lei, Francesco Vercellini
CARMEN C. BAMBACH
50
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
51
È possibile quindi che gli studi écorchés di Rubens risalgano a un
periodo successivo al suo breve soggiorno spagnolo.
Come l’ambizioso Leonardo, anche Rubens aveva sperato di
produrre libri su una varietà di argomenti, tuttavia, a parte la
pubblicazione di Palazzi di Genova (Anversa 1622), sembra che
questi suoi progetti siano rimasti irrealizzati. Gli schizzi e le bozze
di testo nei taccuini e nei quaderni di lavoro perduti di Rubens
avrebbero potuto gettare una luce importante sui suoi obiettivi di
artista-autore. La prima fonte scritta a farlo, la biografia dell’anversano composta da Giovan Pietro Bellori in Le Vite de’ pittori,
scultori e architetti moderni (Roma 1672) si riferiva all’esistenza
concreta di un suo scritto teorico, in cui il contenuto multidisciplinare testimonia la sua erudizione di pittore:
“essendosi veduto un libro di sua mano, in cui si contengono osservazioni di ottica, simmetria, proporzioni, anato19. Peter Paul Rubens, Studi anatomici: avambraccio sinistro
in due posizioni e avambraccio destro, 1603-1604 circa. New York,
Metropolitan Museum of Art, Rogers Fund (1996), inv. 1996.75
mia, architettura, ed una ricerca de’ principali affetti ed azioni
cavati da descrizzioni di poeti, con le dimostrazioni de’ pittori.
Vi sono battaglie, naufragi, giuochi, amori ed altre passioni
ed avvenimenti, trascritti alcuni versi di Virgilio e d’altri, con
rincontri principalmente di Rafaelle ed dell’antico”189.
Come abbiamo visto, anche l’Abregé de la vie des peintres
di Roger de Piles alludeva a un taccuino perduto che il critico
francese conosceva di prima mano. La perdita degli scritti teorici
del maestro fiammingo, dei suoi quaderni di lavoro e dei disegni,
tuttavia, ha inevitabilmente ridotto la possibilità di comprendere
le sue intenzioni come autore, distinte dal suo impiego più pratico dei quaderni di schizzi e degli studi preliminari per scopi artistici190. L’evidenza visiva sembra essere chiarissima nel caso dei
suoi disegni anatomici, che a quanto pare a un certo punto costituivano un “libro”, come suggeriscono le note e le copie del suo
devoto assistente Willem Panneels (1600/1605 circa - 1634)191.
Un Taccuino teorico perduto, composto forse di 250 fogli il più
grande dei quali misurava circa 20,2 × 15,9 cm e corrispondeva
a un formato in-quarto (se dovessimo fare un paragone con i
manoscritti di Leonardo), non poteva quindi essere un taccuino
tascabile, ma più probabilmente serviva come libro di studio per
la consultazione192. Il taccuino perduto di Rubens, che conteneva
un importante nucleo del suo materiale teorico, purtroppo fu
distrutto da un incendio nel 1720, quando era in possesso di André-Charles Boulle193. La minuziosa ricostruzione del Taccuino è
un’impresa complessa e ancora in corso, che impegna molti studiosi194. Attualmente ne esistono tre fogli sciolti autografi, conservati alla Courtauld Gallery di Londra, al Kupferstichkabinett
di Berlino e in una collezione privata (vendita di Sotheby’s del
2021)195. Copie parziali del contenuto si trovano nel ms. Chatsworth, nel ms. Bordes del Prado, nel ms. Johnson della Courtauld Gallery e nel ms. de Ganay del Rubenshuis di Anversa.
Arnout Balis (2001) ha sottolineato che le questioni relative a
questo materiale rubensiano sono estremamente complesse, con
molte lacune da colmare rispetto alle prove esistenti.
Forse tra le strade percorribili si potrebbe tener conto del
fatto che Rubens vide quasi certamente i manoscritti di Leonardo
rilegati. Pompeo Leoni e i suoi eredi possedevano taccuini rilegati
(fig. 21); e, senza passare per le mani dei Leoni, alcuni volumi
tascabili in legatura originale con copertine in cartonnage erano
finiti in possesso del conte Galeazzo Maria Arconati. Esistevano
anche assemblaggi di collezionisti realizzati rilegando direttamente i fogli di vari quaderni di Leonardo per formare oggetti come
il Codex Arundel 263 della British Library, che è un formato in
folio. Leonardo aveva impiegato diverse tecniche per compilare i
suoi appunti e disegni: non utilizzava soltanto quaderni tascabili
già comprati in legatura, ma lavorava anche su fogli sciolti, mescolando e accostando bifogli per creare un “racolto sanza ordine”
(secondo le sue parole nel ms. Arundel 263, fol. 1r), che successivamente poteva decidere di riordinare e rilegare.
Per molti aspetti, l’enorme corpus di disegni e manoscritti
autografi di Leonardo offre una prova più chiara delle sue intenzioni, dal momento che venti dei suoi manoscritti sono ancora
rilegati e risalgono al periodo compreso tra il 1487 e il 1514196.
Questi venti manoscritti rilegati sono in quattro formati standard
(in folio, in-quarto, in-ottavo e in-sedicesimo), una tipologia descrittiva che è servita a catalogare i manoscritti di Leonardo nel
documento del 1637 chiamato Istrumento della donazione, redatto per conto del conte Galeazzo Maria Arconati in occasione
della sua donazione alla Biblioteca Ambrosiana di Milano197. Le
descrizioni di Arconati sono sorprendentemente precise, soprattutto nel caso dei manoscritti ora a Parigi presso la Bibliothèque
de l’Institut de France. I manoscritti parigini di Leonardo succes-
20. Leonardo da Vinci, Studi anatomici: strutture di muscoli
e legamenti della spalla e del braccio in movimento con strati rimossi;
struttura scheletrica del piede, con annotazioni, Anatomical ms.
A, fol. 14v, 1510-1511 circa. Castello di Windsor, Royal Library,
inv. RCIN 919013v
sivi al 1495 si sono conservati nelle stesse condizioni in cui erano
quando lui era in vita.
Leonardo era un incorreggibile “accumulatore seriale” di carte e fogli, e fu il devoto Giovan Francesco Melzi a mettere ordine
con straordinaria pazienza tra i suoi taccuini, i brogliacci caotici, i
manoscritti rilegati con testi in bozza in vari stati di avanzamento,
le innumerevoli pagine separate e probabilmente interi fascicoli di
fogli sciolti198. Eppure, anche se sono sopravvissute oltre 4000 pagine con disegni e appunti, un’enorme quantità di opere su carta
è andata perduta. Antonio de Beatis, nella descrizione della sua
visita alla residenza di Le Clos-Lucé ad Amboise del 10 ottobre
1517, riferisce di aver visto “una infinità de volumi, et tucti in
lingua vulgare, quali si vengono in luce saranno profigui et molto
delectevoli”199.
In ogni caso i disegni e i manoscritti di Leonardo ci hanno fornito una chiave d’accesso alla sua mente, ed è soprattutto grazie alla loro profonda ricchezza e alla varietà dei contenuti
che oggi possiamo definire “genio” il loro autore. Per una serie di
ragioni, tuttavia, i suoi manoscritti rimangono opere particolarmente complesse da inquadrare all’interno del suo corpus eclettico. Come affermava lo stesso Leonardo, e Rubens avrebbe sicuramente concordato: “Pochi pittori fanno professione di lettere,
perché la lor vita non basta ad intendere quella”200.
21. Tre taccuini tascabili di Leonardo da Vinci del 1493-1505 circa,
di proprietà di Pompeo Leoni e rilegati in pergamena durante
la sua vita o poco dopo la sua morte nel 1608: a sinistra, Codex
Forster II (fronte 10,2 × 7,4 cm); al centro, Codex Forster III (fronte
9,5 × 6,8 cm); a destra, Codex Forster I (fronte 14,4 × 10,2 cm).
Londra, Victoria and Albert Museum, National Art Library
CARMEN C. BAMBACH
52
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
53
Nota dell’autrice: Desidero ringraziare
Jeremy Wood, che durante la stesura di questo
saggio ha gentilmente letto diverse bozze,
mi ha offerto commenti preziosi e mi ha
segnalato testi pertinenti. Sono grata anche
a Juliana Barone, Cristiana Romalli, Mark
Evans, Robert Johnson, Silvio Leydi, Rossana
Sacchi e al personale della Thomas J. Watson
Library del Metropolitan Museum of Art di
New York. Ringrazio Alina Payne, direttrice
de I Tatti – l’Harvard University Center for
Italian Renaissance Studies a Firenze e il
consiglio dell’Università di Harvard per la
nomina a Visiting Professor (autunno 2023),
che mi ha permesso di completare questo
articolo.
1 Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto
dei Disegni e delle Stampe, inv. 236 recto;
Bambach 2019, II, pp. 410-415, IV, pp. 284,
note 305, 306, 414, nota 331.
2 Come ho spiegato, all’epoca della
Battaglia di Anghiari, quando eseguì nella
parte inferiore del foglio gli studi di soldati
e cavalli in sanguigna databili al 15031505, Leonardo rimaneggiò lo studio delle
proporzioni del viso dell’uomo raffigurato
di profilo fino al busto (nella parte superiore
del foglio), databile al 1490-1495 circa. Il
medium impiegato nei disegni sul foglio di
Venezia è complesso: penna e due tonalità
di inchiostro bruno (quello più chiaro fu
ripassato con inchiostro nero-bruno alcuni
anni dopo), oltre a tracce di stilo, matita
nera morbida, matita rossa, 28 × 22,4 cm.
Sono presenti precisi fori tracciati con un
compasso per la costruzione di una griglia
sopra la grande figura maschile di profilo;
anche i contorni della testa presentano
ulteriori tracciature probabilmente eseguite
per facilitare la calibrazione delle misurazioni
in proporzione. Il disegno di Leonardo con
il tronco di uomo di profilo con schema
di proporzione, completo delle note di
accompagnamento presenti sul foglio
di Venezia fu copiato nel 1560-1580 da
Carlo Urbino nel Codice Huygens, fol. 54r
(New York, Pierpont Morgan Library and
Museum).
3 Vasari (1966-1987), IV (testo), p. 32.
4 La data del 24 ottobre 1503 è quella in cui
a Leonardo vengono consegnate le chiavi della
Sala del Papa, perché possa iniziare il cartone
della Battaglia di Anghiari (Firenze, Archivio
di Stato [ASFi], Signori e colleghi, deliberazioni
in forza di ordinaria autorità, 1501-1504, filza
105, fol. 106r). Bambach 2019, II, pp. 346347 e IV, pp. 268-269, note 56-69.
5 Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France,
ms. A, inv. 2185, fol. 31r-30v. Il passaggio su
“come si debbe figurar una battaglia” fu anche
copiato da Melzi nella Parte secunda del Codex
Urbinas Latinus 1270, fol. 53r-v, 85r-v, Città
del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana
(BAV); Vecce 1995, pp. 207-208, n. 148
(trascrizione critica).
6 La nota nell’originale leonardiano è andata
perduta. BAV, Francesco Melzi (da Leonardo
da Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
59v; Vecce 1995, p. 218, n. 177 (trascrizione
critica): “Del comporre le istorie. / … et
massime nelle battaglie, dove per nescessità
accade infiniti storciamenti e piegamenti delli
componitori di tale discordia, o vo’ dire pazzia
bestialissima.”
7 Londra, British Museum, inv.
1895.0915.1044. Per la datazione precoce
e la trascrizione dell’annotazione di Rubens
si rimanda a Wood [CR XXVI.3] 2011, I,
pp. 98-102, n. 167.
8 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
53r-v, 85r; Vecce 1995, pp. 207-208, n. 148
(trascrizione critica).
9 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
53r; Vecce 1995, p. 207, n. 148 (trascrizione
critica).
10 Il disegno conservato alle National
Galleries of Scotland di Edimburgo, inv.
D4936, mi è stato segnalato da Jeremy Wood.
Mc Grath [CR XI] 1997, II, pp. 326-327
attribuisce questo disegno allo stesso Rubens,
mentre Bert Schepers in McGrath, Gregory,
Healy, Schepers, Van de Velde [CR XI.1]
2016, I, pp. 140-146, n. 7a, lo analizza come
una copia accurata di un disegno perduto del
maestro.
11 Come trascritto da Bert Schepers in
McGrath, Gregory, Healy, Schepers, Van de
Velde [CR XI.1] 2016, I, p. 140, n. 7a.
12 Mc Grath [CR XI] 1997, II, pp. 326327, 329-330, nota 34, n. 58, ha parlato
della risposta artistica di Rubens alla teoria
leonardiana degli effetti che si mescolano
durante la battaglia – fumo, polvere e luce –
parlando dello schizzo a olio con la Battaglia
di Tunisi del 1630 (Berlino, Staatliche
Museen, Gemäldegalerie, inv. 798G).
13 Barone 2007b, pp. 348-364; Kopecky
(2008), su disegni e iscrizioni.
14 Castello di Windsor, Royal Library, inv.
RCIN 912570. Bambach 2019, II, pp. 421429, su questo progetto. Matita nera e
carboncino, 25,2 × 38,9 cm. Vasari (19661987), IV (testo), p. 23, sul perduto disegno
di presentazione per Antonio Segni.
15 Bambach 2019, III, pp. 585-634,
sull’ubicazione delle collezioni di Leonardo nel
Cinquecento e nel Seicento.
16 De Piles 1699, p. 168.
17 Barone 2015; Steinitz 1958, pp. 45-70,
sulle prime copie manoscritte del Libro
di pittura di Leonardo circolanti in Italia
settentrionale, a Firenze e a Roma.
18 Parigi, Musée du Louvre, Département des
Arts graphiques, inv. 20271. Si veda la scheda
dettagliata di Wood [CR XXVI.3] 2011, I,
pp. 78-93, n. 1 (con bibliografia precedente).
19 Riassunti in Wood [CR XXVI.3] 2011, I,
pp. 78-88.
20 Wood [CR XXVI.3] 2011, I, pp. 87-88,
propone una sequenza di quattro fasi di
lavoro sul disegno del Louvre e una quinta
costituita dalla campagna di restauro di inizio
Ottocento. La composizione del Louvre
comprende anche piccoli ritocchi eseguiti a
guazzo, matita nera ricostruita e pittura a olio
da artisti-restauratori successivi.
21 Wood [CR XXVI.3] 2011, I, p. 78,
fornisce la più affidabile descrizione tecnica
del medium usato.
22 Bambach 1999, pp. 107-108, nota
5; Bambach 2019, II, pp. 348-350, dove
si appoggia l’ipotesi della parete est. In
questo saggio si esaminano nuovamente
alcuni aspetti della Battaglia di Anghiari di
Leonardo, offrendo piccole modifiche alle
consuete descrizioni presenti nella letteratura
rubensiana.
23 Bambach 2017, pp. 73-81, dove si
analizza il cartone della Battaglia di Cascina
di Michelangelo e il fatto che quest’ultimo
non iniziò mai a dipingere il suo affresco.
Si veda anche Bambach 1999, pp. 107-108,
nota 5; Bambach 2019, II, pp. 348-350.
24 Bambach 2017, pp. 71, 77-80, 293, n. 39,
sulla copia dipinta da Bastiano (Aristotile) da
Sangallo conservata presso la Holkham Hall.
25 In precedenza nel Koninklijk Huisarchief,
L’Aia; collezione privata, asta Sotheby’s, New
York, 30 gennaio 2019, lotto 10 (scuola
italiana, XVI secolo), con bibliografia e storia
delle esposizioni. Ringrazio Cristiana Romalli
per la fotografia https://www.sothebys.com/
en/auctions/ecatalogue/2018/old-masterdrawings-n10006/lot.10.html?locale=en
[consultato il 21-09-2023]. Analizzato
e illustrato in Wood [CR XXVI.3] 2011, I,
pp. 86-87, II, fig. 2 (come collezione privata).
26 Bambach 2019, II, pp. 329-429, sulla
commissione, la progettazione, la tecnica
pittorica fallimentare e i progressi del lavoro di
Leonardo per la Battaglia di Anghiari.
27 Bambach 2019, II, pp. 363-368, figg. da
8.22 a 8.25.
28 Muller 1982, pp. 229-247, analizza
con acume gli eruditi concetti di Rubens
sull’imitazione artistica, che, come sottolinea
in modo persuasivo, non possono essere
rigidamente classificati (ivi, p. 244). La
“furia del pennello”, citata nelle Vite de’
pittori, scultori et architetti moderni (1672) di
Giovanni Pietro Bellori, è discussa ivi, p. 244,
nota 101.
29 A questo proposito, la meticolosa analisi
delle questioni di attribuzione e delle evidenze
archeologiche presente nelle pubblicazioni
di Juliana Barone (2007b; 2009) e di Jeremy
Wood [CR XXVI.3] 2011 ha portato a
risultati di fondamentale importanza.
30 Wood [CR XXVI.2] 2010, I, pp. 25-49,
sulla risposta di Rubens all’arte veneziana e sul
confronto tra Rubens e Tiziano.
31 Wood [CR XXVI.3] 2011, I, pp. 29-31,
47-55, 129-241, nn. 172-201, sulle copie da
Michelangelo eseguite da Rubens e dalla sua
cerchia.
32 Logan, Belkin 2021-2023, I/1, pp. 119120, n. 80.
33 Bambach 2017, pp. 15-30, 199-213,
232-265, per un quadro più ampio sulla
ricezione, le critiche e il declino del gusto
per le opere di Michelangelo nel Seicento
– se si escludono i collezionisti dei suoi
disegni e Rubens come artista (cfr. ivi,
pp. 263-264, fig. 101). La maggior parte
delle controversie riguardava gli affreschi
tardi di Michelangelo e Pietro Aretino fu
il più crudele tra i critici. Nella sua Vita
di Michelangelo (1568), Vasari, che era stato
‘amico professionale’ dell’Aretino, fu molto
cauto nell’analisi del Giudizio universale alla
sua inaugurazione il 25 dicembre 1541. Le
lettere del 1541 di Nino Sernini, agente del
cardinale Ercole Gonzaga, e quelle nel 1545
di don Miniato Pitti, amico intimo di Vasari,
riportano critiche meno aperte all’affresco di
Michelangelo.
34 Wood [CR XXVI.1] 2010, I, pp. 27-127,
sul contesto, e si vedano i nn. 1-102, per le
copie autografe di Rubens.
35 Wood [CR XXVI.3] 2011, I, pp. 75-129,
nn. 165-171, sulle copie da Leonardo e dalla
sua cerchia.
36 White 2007, pp. 206-214, n. 62 (seconda
metà degli anni venti del Seicento); Van der
Stighelen, Vlieghe [CR XIX.3] 2021, pp. 181191, n. 199, data il dipinto più precisamente
al 1626 circa. Nella letteratura su Rubens il
collegamento con la Gioconda di Leonardo
non è stato rilevato.
37 Rotterdam, Museum Boijmans van
Beuningen, inv. VdV 70 (in prestito dalla
Willem van der Vorm Foundation). Van der
Stighelen, Vlieghe [CR XIX.3] 2021, pp. 189191, n. 203, figg. 115, 119-120. Questo
dipinto mi è stato segnalato da Jeremy Wood.
38 A quanto ne so, questo riferimento a
Rubens da parte di Cassiano dal Pozzo
non è segnalato nella letteratura sull’artista
fiammingo. Napoli, Biblioteca Nazionale
Vittorio Emanuele III, ms. X, E.54: Legatione
del signore cardinal Barberino in Francia,
descritta dal commend.re Cassiano del Pozzo;
trascritta in Müntz e Molinier 1886, pp. 1718. Si tratta di uno dei due manoscritti di
Cassiano dal Pozzo che riportano i suoi viaggi
in Francia. L’altro è BAV, ms. Barb. Lat. 5688,
Legatione del Sig.re Cardinale Barberino in
Francia descritta dal Commend. Cassiano dal
Pozzo, 24 giugno 1625. Dalla corrispondenza
di Rubens sappiamo che arrivò a Parigi nel
1625, poiché è menzionato nelle lettere del
22 gennaio e del 17 febbraio; CDR 1900, III,
pp. 327-335, nn. CCLXVIII, CCCLXX. A
quanto pare, Rubens conosceva Cassiano dal
Pozzo fin dal 1623, ed è menzionato nel 1625;
ivi, pp. 361-368.
39 BNNa Vittorio Emanuele III, ms.
X.F.28, Itinerario di Monsignor R.mo et Ill.mo
Cardinale de Aragonia per me dom. Antonio
de Beatis (diario del 10-11 ottobre 1517), fol.
76v-77r. L. Frank in La Sainte Anne 2012,
pp. 198-199, n. 58; Bambach 2019, III,
pp. 397-399 e IV, pp. 372-373, note 1-3.
40 Parigi, Archives nationales, J 910, fasc. 6,
p. 87; scoperto da Bernard Jestaz. L. Frank in
La Sainte Anne 2012, p. 204, n. 65; Bambach
2019, II, p. 270 e III, pp. 510-518. Secondo
la voce di spesa del ducato di Milano per
l’anno 1518, la corona francese aveva pagato
a Salaj 2604 lire, 3 soldi e 4 denari, per alcuni
dipinti di cui non erano specificati né il
soggetto né l’autore (“pour quelques tables de
paincture”), ma che presumibilmente erano
originali di Leonardo.
41 Legatione del signore cardinal Barberino
in Francia, descritta dal commend.re Cassiano
del Pozzo; trascritta in Müntz e Molinier
1886, pp. 17-18: la “Vergine con il Bambino
e San Giovanni (forse la Vergine delle Rocce?
o la Vergine con il Bambino e sant’Anna?), la
Leda e il Cigno distrutti, il Ratto di Proserpina
(ignoto) e San Giovanni nel deserto.”
42 Come trascritto in Muller 1989, p. 116,
n. 109; segnalatomi da Jeremy Wood.
43 Hochman 1988; Acidini 1998-1999, II,
pp. 273-274; Bambach 2019, I, p. 1, IV,
p. 37, nota 3.
44 Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio
Emanuele III, ms. X.F.28, Itinerario di
Monsignor R.mo et Ill.mo Cardinale de
Aragonia per me dom. Antonio de Beatis (diario
del 20-30 dicembre 1517), fol. 136r: “fo visto
nel refectorio de frati, chi sonno del ordine
di san Domenico de observantia, una cena
picta al muro da messer Lunardo Vinci, qual
troviamo in Amboys, che e excellentissima,
benche incomincia ad guastarse non so si per
la humidita che rende il muro o per altra [in]
advertentia”. Bambach 2019, I, p. 4 (cit.),
e pp. 412-481, sul processo ideativo, la
tecnica pittorica e lo sviluppo del Cenacolo di
Leonardo.
45 Armenini 1587, p. 172; analizzato in
Bambach 2019, I, p. 4 e IV, p. 39, nota 24.
46 Bakewell, The Duke of Devonshire and the
Chatsworth Settlement Trustees, inv. 1007;
e Los Angeles, J. Paul Getty Museum, inv.
84.GA.959. Analizzato e illustrato in Logan,
CARMEN C. BAMBACH
54
Belkin 2021-2023, I/1, pp. 99-105, nn. 66,
67, figg. 109-112.
47 Trascritto in Logan, Belkin 2021-2023,
I/1, p. 102, n. 67, fig. 112.
48 Wood [CR XXVI.3] 2011, I, p. 107.
49 Jaffé 1977, p. 29, tav. 53 (come Rubens);
Wood [CR XXVI.3] 2011, I, pp. 108-109, fig.
12 (come artista fiammingo d’après Rubens).
50 De Piles 1699, pp. 166-168, per il testo.
Balis 2001, pp. 14-16, riassume le ipotesi sul
modo in cui De Piles possa aver acquisito
questo taccuino. Si veda anche Wood [CR
XXVI.3] 2011, I, p. 107.
51 De Piles 1699, pp. 167-168.
52 Nel 1519, a Mantova, Ginevra Rangoni
sposò in seconde nozze il “condottiero” Aloisio
Gonzaga (1494-1549).
53 Arents 2001, p. 364, Catalogus librorum
1658, p. 26, colonna 2: Le novelle del Bandello.
Bambach 2019, I, pp. 416-417, IV, 175, note
432-436, per l’analisi della descrizione di
Leonardo al lavoro. Bandello (1978), pp. 395400, per il testo citato.
54 Bandello (1978), pp. 395-396.
55 Citato e analizzato in Muller 1982,
pp. 245 e note 108, 109.
56 Bambach 2022, pp. 18-78.
57 Bambach 2019, I, pp. 59-63, 457-472 e
IV, 494, 514, 523-533.
58 New York, Morgan Library and Museum,
inv. I.234. Wood [CR XXVI.3] 2011, I,
pp. 114-120, n. 169, attribuisce in modo a
mio avviso convincente il disegno a Rubens.
Logan, Belkin 2021-2023, I/1, p. 184, nota 3,
lo considera un disegno ritoccato da Rubens.
59 Morigia 1619; Bambach 2019, III,
pp. 94-96, 519-533, 586-594. Sacchi 2017,
per la revisione della data di morte di Giovan
Francesco Melzi e delle sue ultime volontà.
60 Il testamento originale di Leonardo
è perduto, ma è noto attraverso le copie.
Bambach 2019, III, pp. 484-489, IV, pp. 387394, note 270-310, per una ricostruzione dei
testi basata sulle prime trascrizioni. Citazione
mia, ivi IV, p. 389, nota 278 (la copia
seicentesca un tempo negli archivi francesi).
61 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270; per
le citazioni del testo si veda Vecce 1995
(trascrizioni critiche modernizzate). Farago,
Bell, Vecce 2018, 2 voll., sulla storia del Libro
di pittura di Leonardo.
62 Come suggerisce Claire Farago, la sezione
sui paragoni è stata omessa e sono state
apportate altre modifiche al Libro di pittura
abbreviato, per renderlo un “testo della
Controriforma”. Farago, Bell, Vecce 2018, I,
pp. 229-237, 510, note 102-111.
63 Arents 2001, p. 347, Catalogus librorum,
1658, p. 9, colonna 2: Dialogo di Galileo
Galilei dei Sistemi del Mondo. Rubens
possedeva anche le Dimostrationi Matimatiche
del Galileo; Arents 2001, p. 364, Catalogus
librorum 1658, p. 26, colonna 2.
64 Farago, Bell, Vecce 2018, il principale
studio recente sulla pre-storia e la
pubblicazione del Libro di pittura di Leonardo
a Parigi nel 1651. I titoli completi delle
edizioni del 1651 erano: Traitté de la Peintvre
de Leonard de Vinci donné av pvblic et tradvit
d’Italien en François e Trattato della Pittvra di
Lionardo da Vinci, nouamente dato in luce, con
la vita dell’istesso autore, scritta da Raffaelle dv
Fresne. Si sono giunti i tre libri della pittura & il
trattato della statua di Leon Battista Alberti, con
la vita del medesimo.
65 C. Farago in Farago, Bell, Vecce 2018, I,
pp. 1-70.
66 Barone 2011; Barone 2018, pp. 263-299,
sulle trasformazioni redazionali per produrre
un testo pubblicabile e sul manoscritto finale
consegnato da Cassiano dal Pozzo ai fratelli
Fréart nell’agosto del 1640, conservato al
Museo Statale Ermitage (ms. OR-11706;
abbreviato anche come “si: Hermitage”).
Questo manoscritto dell’Ermitage deriva
da quello conservato a Milano, Biblioteca
Pinacoteca Ambrosiana, ms. H 228 Inf. che
a sua volta era stato corretto rispetto a diverse
altre copie manoscritte.
67 Sparti 2003; Barone 2007; Barone 2011;
Barone 2018, pp. 263-299; Janice Bell in
Farago, Bell, Vecce 2018, I, pp. 332-369,
in particolare sulle complesse questioni
riguardanti i contributi di Nicolas Poussin e
Charles Errard.
68 C. Farago in Farago, Bell, Vecce 2018, I,
pp. 34-37, 61-70.
69 New York, Metropolitan Museum of
Art, inv. 49.95.12. Pierfrancesco Alberti,
Accademia de’ pittori (l’Accademia di San Luca),
incisione, 41,2 x 52,2 cm.
70 De Piles 1699, pp. 162-169.
71 Ivi, p. 162. Vasari (1966-1987), IV (testo),
pp. 14-38, “Vita di Lionardo da Vinci.”
72 De Piles 1699, p. 163: “c’est-la qu’il ecrivit
le Livre de Peinture, que l’on imprimé a Paris
en 1651. & dont le Poussin a fait les Figures”.
73 Anche Wood 2019, pp. 17, 38 (inglese);
TA 1675, II, p. 291 (testo originale online:
http://ta.sandrart.net/-text-514).
74 Held 1982, p. 167.
75 Arents 2001 fornisce una classificazione
magistrale dei libri collegati a Rubens
(suddivisi in diciannove categorie, da A a S),
con le rispettive voci di catalogo, e con un
facsimile allegato del raro catalogo di vendita
della biblioteca di Albert Rubens, il figlio
maggiore del pittore, Catalogus librorum
bibliothecae clarissimi viri D. Alberti Rubens
(Bruxelles, 1658), pp. 339-366. È noto che
Albert Rubens ereditò i libri del padre.
76 Si veda il facsimile del Catalogus librorum
bibliothecae clarissimi viri D. Alberti Rubens
(Bruxelles, 1658), riprodotto in Arents 2001,
pp. 339-366. Van der Meulen [CR XXIII]
1994-1995, I, pp. 25-153, su Rubens e i suoi
studi dall’antico.
77 L’appellativo di “pictor doctus” corrisponde
alla descrizione del maestro fiammingo
contenuta in una lettera di Franciscus Sweerts
del 1° giugno 1616, come discusso da Frans
Baudouin in Arents 2001, pp. 47-80.
78 L’epressione “pictor studiosus” è citata dal
De pictura di Leon Battista Alberti; Alberti
(2006), p. 249.
79 Madrid, Biblioteca Nacional de España
(BNE), Codex Madrid II, ms. 8936, fol. 3r2v (è la direzione in cui Leonardo ha scritto
l’inventario del libro). Bambach 2019, II,
pp. 1-59 e IV, pp. 13-28 (appendice IV, nn. 8,
9; per una ricostruzione dei libri presenti in
questo inventario).
80 BNE, Codex Madrid II, ms. 8936, fol.
3r-2v.
81 Bambach 2019, IV, pp. 13-28.
82 Milano, Biblioteca Pinacoteca Ambrosiana,
Codex Atlanticus, fol. 559r: “deimortalita
danjma”; e BNE, Codex Madrid II, ms.
8936, fol. 2v: “della imortalita dellanima.”
Un’edizione a stampa di questo trattato in
volgare era stata pubblicata per la prima volta
a Roma da Giovanni Filippo de Lignamine nel
1472 e a Milano da Antonius Zarotus il 20
marzo 1475. Altre edizioni furono stampate
nel 1477, 1478, 1494, 1497 e 1498. Bambach
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
2019, IV, pp. 11, 16, 17, 25 (appendice
IV, sezione 8, n. 37, sezione 9, n. 94); ivi,
II, pp. 3-5 e IV, pp. 198-199, nota 8, sulla
risoluzione della controversia riguardante
l’identificazione di quest’opera negli inventari
dei libri di Leonardo.
83 Bambach 2019, I, pp. 322-334, 426-429,
439-443 e II, pp. 55-59.
84 Ivi, III, pp. 3-59, sulla prefazione di
Leonardo e sulla sua identità di autore
autodidatta.
85 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
1r-28v, “parte prima”; Vecce 1995, pp. 131168, nn. 1-46 (trascrizione critica).
86 Bambach 2019, I, pp. 8-13, 412-501, II,
pp. 227-235 e III, pp. 136-160.
87 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
33v; Vecce 1995, p. 174, n. 60 (trascrizione
critica).
88 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
37v; Vecce 1995, p. 181, n. 73 (trascrizione
critica).
89 Arents 2001, pp. 45, 365, Catalogus
librorum bibliothecae clarissimi viri D. Alberti
Rubens (Bruxelles 1658), p. 27, colonna 1: Il
Cortegiano del Conte Castiglione.
90 Londra, Courtauld Gallery, inv. 24.
Illustrato e analizzato in Wood [CR XXVI.1]
2010, I, pp. 292-299, n. 47, tav. 1.
91 Castiglione (1965), p. 80: “e da questa
trasse il cognome la casa nobilissima de’ Fabii,
ché il primo Fabio fu cognominato Pittore,
per esser in effetto eccellentissimo pittore e
tanto dedito alla pittura…”
92 Plinio, XXXV, cap. 7: apud romanos
quoque honos mature huic arti contigit,
siquidem cognomina ex ea pictorum traxerunt
fabii clarissimae gentis, princepsque eius
cognominis ipse aedem salutis pinxit anno urbis
conditae ccccl, quae pictura duravit ad nostram
memoriam, aede ea Claudii principatu exusta.
McHam 2013, pp. 106, 302-303, 318, n. 61,
331, elenca gli autori che nel Quattrocento e
del Cinquecento hanno scritto di arte, citando
l’aneddoto di Plinio su Fabius Pictor.
93 Castiglione (1965), p. 80.
94 Ivi, pp. 62-63: “Eccovi che nella pittura
sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il
Mantegna, Raffaello, Michel Angelo, Georgio
da Castel Franco; nientedimeno, tutti son tra
sé nel far dissimili, di modo che ad alcun di
loro non par che manchi cosa alcuna in quella
maniera, perché si conosce ciascun nel suo
stilo esser perfettissimo.”
95 Ivi, pp. 80-86.
96 New York, Metropolitan Museum of Art,
inv. 17.142.2; Bambach 2019, I, pp. 489491, sul disegno leonardiano per La Danae di
Taccone che riporta la partecipazione di Gian
Cristoforo. Ceriana 1999, su Gian Cristoforo
Romano.
97 Il Plinio di Leonardo è citato nel Codex
Trivulzianus (fol. 2), nel Codex Atlanticus
(fol. 559r) e nel Codex Madrid II (fol. 2v). Per
il Plinio di Rubens, a mio avviso esistono tre
possibilità. Si confronti Arents 2001, pp. 346347, Catalogus librorum 1658, p. 8, colonna
2: “Plinii Opera 12. 3 Voll. Lugd. Bat.” e p. 9,
colonna 1: “Plinius. Dalecampii.f. Genevae” e
sotto: “Edit Basiliensis. Idem Francof.”
98 McHam 2013; Bambach 2019, I, pp. 317319, 378-379, sulla poesia encomiastica di
Leonardo alla corte degli Sforza negli anni
novanta del Quattrocento.
99 Alberti (2006), p. 249. R. Sinisgalli ivi,
pp. 25-56 (“la falsa precedenza del latino”), ha
dimostrato che il trattato di Alberti in volgare
precede la produzione del testo latino.
100 A questo proposito possono bastare due
esempi per capire quanto Leonardo si affidasse
a Plinio: il suo gruppo di annotazioni sugli
animali nel ms. H di Parigi (fol. 12v-27v) che
deriva direttamente dalla Historia naturale, e il
suo adattamento di una tecnica sperimentale
di pittura murale a secco nel dipinto della
Battaglia di Anghiari (si veda l’analisi in
Bambach 2019, II, pp. 359-369).
101 Codex Madrid, fol. 3r-2v: “vn lib[r]
o damjsura dj b[attist]a albertj”; “lib[r]
o doue si taglia le corde da navi”; “batista
alberti in architettura.” Questi libri erano
probabilmente un manoscritto di Ex ludis
rerum mathematicarum; Liber navis (perduto)
e De re aedificatoria, di Leon Battista Alberti,
a cura di Bernardo Alberti, pubblicato a
Firenze da Nicolaus Laurentii Alamanus il 29
dicembre 1485.
102 A mio avviso si tratta senza dubbio di
L’architettura di Leonbattista Alberti. Tradotta
in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli, Firenze
1550. Si confronti Arents 2001, p. 364;
Catalogus librorum bibliothecae clarissimi viri
D. Alberti Rubens (Bruxelles 1658), p. 26,
colonna 2: “Architettura di Leon Battista
Alberti”.
103 Summers 1981, pp. 3-70; anche
Bambach 2017, pp. 15-19, 190-191, su alcuni
aspetti dell’auto costruzione dell’immagine da
parte di Michelangelo.
104 Vasari (1966-1987), IV (testo), pp. 1438, “Vita di Lionardo da Vinci.”
105 Ivi, p. 8.
106 Ivi, p. 28.
107 Lomazzo (1973-1975), I (Idea del
tempio), pp. 109, 119-120, 153, 249, 290,
345.
108 Ivi, II (Trattato), p. 138, sul paragone tra
pittura e scultura, pp. 95-163, sui moti e le
passioni.
109 Bambach 2019, III, pp. 566-572 (e
note), 594-596 (e note), su Lomazzo come
collezionista di Leonardo. Lomazzo 19731975, I (Idea del Tempio), p. 258; II (Trattato),
pp. 96, 291, 533, 564, per esempi di
riconoscimento di Melzi da parte di Lomazzo
come sua fonte su Leonardo; discusso in
Bambach 2019, I, pp. 21-26.
110 Arents 2001, pp. 104-105, n. B3, con
illustrazione della dedica a Rubens da parte di
Jan Caspar Gevaerts (“Casperius Gevartius”).
111 Prima donna del mondo 1994.
112 Bambach 2019, II, pp. 253-262.
113 Ivi, pp. 250-252, 278-291.
114 New York, The Metropolitan Museum of
Art, inv. 51.501.7599. Lucas Vorsterman I,
da Rubens, dal ritratto di Tiziano di Isabella
d’Este, incisione; secondo stato di due; foglio
(rifilato): 42,2 × 31,9 cm.
115 Cerretani, Ricordi, ms. Vat. Lat. 13661,
fol. 108r, BAV; Cerretani 1993, p. 212;
Bambach 2019, III, p. 92.
116 Vasari (1966-1987), IV (testo), p. 16.
117 Bambach 2016; Bambach 2019, I,
pp. 25-26, 334-337, II, pp. 282-291 e III,
pp. 1-3, sui vari aspetti dei dipinti incompiuti
di Leonardo e sul suo concetto artistico di
“opera in corso”.
118 Eneide IV: 174-175 (“La Fama, un male
di cui null’altro è più veloce; e come più va,
più cresce; e maggior forza acquista”); Virgilio
1978, I, pp. 406-407.
119 CDR, V, pp. 152-154, n. DCXVI;
Arents 2001, p. 246, n. H 76; in inglese con
55
commento in Magurn 1955, pp. 321-323,
493, n. 196.
120 Castiglione (1965), p. 144.
121 Bambach 2019, II, pp. 23-39, III,
pp. 206-207 e IV, p. 204, nota 111.
122 Ivi, II, pp. 36, 171 e III, p. 578.
123 Arents 2001, p. 346, Catalogus librorum
1658, p. 8, colonna 2: “Cardanus De
Subtilitate / -- De Rerum Varietate.”
124 Vasari (1966-1987), IV (testo), p. 34.
125 Hochmann 1988; Acidini 1998-1999,
II, pp. 273-274; Bambach 2019, I, p. 1 e IV,
p. 37, nota 3.
126 Luca Pacioli, Divina proportione, Venezia,
1509, fol. b-ir (ms., 1498 circa). Sulle attività
di Leonardo alla corte degli Sforza, Bambach
2019, I, pp. 489-501.
127 Lomazzo (1973-1975), II (Trattato),
p. 138. Bambach 2019, I, pp. 39-63,
sulla “stanca mano” di Leonardo, sul suo
“mancinismo” e sulle copie di altri artisti
che imitano il suo tratto da mancino.
128 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 20v;
Vecce 1995, pp. 158-159, n. 36 (trascrizione
critica).
129 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
20v; Vecce 1995, p. 158, n. 36 (trascrizione
critica).
130 Bambach 2019, I, pp. 313-501. Ho
analizzato diffusamente la difficoltà di
considerare Leonardo artista di corte di
Ludovico il Moro prima del 1487-1490,
sebbene fosse arrivato a Milano nel 1482.
131 Bambach 2016b, su Varchi, Vettori
e Giuliano de’ Medici; Bambach 2019, III,
pp. 309-395 (citato da Vettori, ivi, p. 323).
132 Bambach 2019, III, pp. 321-323.
133 Ivi, II, pp. 246, 272, nota che la lettera
di Pietro da Novellara a Isabella d’Este, del
14 aprile 1501, menziona già i rapporti
di Leonardo con il re francese (Luigi XII),
anche se non lo nomina. Bambach 2019,
III, pp. 397-489, sul servizio di Leonardo
a Francesco I e alla regina madre, Luisa di
Savoia.
134 Cellini 1857, p. 226, Dell’architettura;
Cellini 1968, p. 859; analizzato in Bambach
2019, III, pp. 397-398.
135 Vasari (1966-1987), IV (testo), p. 36; ad
esempio Lomazzo nel suo Libro de sogni e in
Idea del tempio della pittura; Lomazzo (19731975), I, pp. 109, 293. Bambach 2019, III,
pp. 487-489.
136 De Piles 1699, pp. 162, 164.
137 Bambach 2019, III, p. 487 e IV, p. 394,
nota 312, sulle evidenze testuali e le citazioni.
138 Vasari (1966-1987), IV (testo), pp. 16,
24.
139 Bambach 2019, I, pp. 323-28, 426-35
e II, pp. 17-18, 56-59, sull’idea leonardiana
di “passioni dell’anima” e “passioni mentali”,
compresa la probabile influenza di un’edizione
a stampa precedente al 1494 di De la
immortalità de l’anima elegantissimo dialogo
volgare ornamentissimo di Giacomo Canfora da
Genova, presente nella biblioteca di Leonardo.
140 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
60r; Vecce 1995, p. 219, n. 180 (trascrizione
critica).
141 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
61v; Vecce 1995, p. 221, n. 188 (trascrizione
critica).
142 De Piles 1699, p. 162 (“squisita
bellezza”).
143 Ivi, p. 163 (“Era soprattutto molto legato
all’espressione delle passioni dell’anima, come
qualcosa che riteneva più necessario per la
sua Professione, e soprattutto per attirarsi
l’approvazione delle persone di Spirito”).
144 Ivi, p. 168. Merle du Bourg 2004,
pp. 195-199, 219, nota 394, per un’ampia
analisi di questo passo citato (“Se posso
aggiungere qualcosa alle parole di Rubens,
direi che non ha menzionato i colori di
Leonardo da Vinci, perché avendo osservato
solo le cose che potevano essergli utili in
relazione alla sua professione, e non avendo
trovato nulla di buono nei colori di Leonardo,
ha passato sotto silenzio questa parte della
Pittura”).
145 Ivi, pp. 162, 163 (“Era costantemente
impegnato nelle riflessioni sulla sua arte”).
146 Ivi, p. 165 (“Il suo disegno è molto
corretto e di grande gusto, anche se sembra
basato sul Naturale piuttosto che sull’Antico”).
147 De Piles (1970), Conversation seconde,
p. 89 (“Mi sembra – continuò – che la pittura
comprenda così tante conoscenze, che è
necessario che un pittore conosca la filosofia,
la geometria, la prospettiva, l’architettura,
l’anatomia, la storia, la favola e persino
qualcosa di teologia; che conosca i doveri della
vita civile e che si eserciti molto nel disegno e
nel colore”).
148 Ivi, p. 268.
149 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
36r; Vecce 1995, p. 178, n. 68 (trascrizione
critica).
150 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
50r-v; Vecce 1995, p. 202, n. 133 (trascrizione
critica). Si veda Bambach 2019, I, p. 6;
Bambach 2022.
151 Vasari (1966-1987), I (testo), p. 111.
152 Bambach 2015; Bambach 2019, IV,
pp. 9-10, nn. 3 e 4, per le trascrizioni
diplomatiche complete del testo; Bambach
2022 (in relazione ai Leonardeschi). Tre
descrizioni di Leonardo si trovano nel ms. A
di Parigi, del 1490-1492 circa. Si veda Parigi,
Bibliothèque de l’Institut de France, ms. A,
inv. 2185, fol. 8v, 22v, 27v. Un’altra breve
menzione del 1490-1492 si trova a Milano,
Biblioteca Pinacoteca Ambrosiana, Codex
Atlanticus, fol. 430r. Due annotazioni
sembra siano presenti solo nel Codex Urbinas
Latinus 1270 di Melzi, sulla base di passi
perduti del maestro risalenti a dopo il 1500.
Si veda BAV, Codex Urbinas Latinus 1270,
fol. 60v, 61v-62r. Una settima annotazione
sugli schizzi rapidi è nel Codex Urbinas
Latinus 1270, ma combina accuratamente
testi scritti da Leonardo in due momenti
diversi: unisce il passo autografo più celebre
del ms. A di Parigi, del 1490-1492 circa, e
un’aggiunta, ormai perduta, molto più tarda,
con frasi di Leonardo probabilmente del
1505-1510 circa. Si veda Parigi, Bibliothèque
de l’Institut de France, ms. A, inv. 2185,
fol. 22v; BAV, Codex Urbinas Latinus 1270,
fol. 35v.
153 Parigi, Bibliothèque de l’Institut de
France, ms. A, inv. 2185, fol. 27v. La
trascrizione diplomatica completa di questo
testo è in Bambach 2019, IV, pp. 9-10, n. 4,
con bibliografia. Melzi ha trascritto questa
nota in modo abbastanza preciso in BAV,
Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 58v-59r;
Vecce 1995, pp. 216-217, n. 173 (trascrizione
critica).
154 Parigi, Bibliothèque de l’Institut de
France, ms. A, inv. 2185, fol. 8v.
155 Milano, Biblioteca Pinacoteca
Ambrosiana, Codex Atlanticus, fol. 430r:
“del co[n]pore storie / del no[n] riguardare. le
me[n]b[r]a. delle figure. nelle storie // come
moltj fano . che p[er] fare le figure . i[n]
tere guastano / i chonponjme[n]tj.” Si veda
Bambach 2015; Bambach 2019, I, pp. 429435 e II, pp. 389-391.
156 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 60v;
Vecce 1995, pp. 219-220, n. 181 (trascrizione
critica): “Lo studio de componitori delle
istorie debbe essere de porre / le figure
disgrossatamente cioe bozzate e prima saper/
le ben fare”. Si veda Bambach 2015; Bambach
2019, II, pp. 386-390.
157 Si veda ad esempio Parigi, Bibliothèque
de l’Institut de France, inv. 2181, fol.
101v-102r, 109v-110r, e i fogli anatomici
(Windsor, Royal Library, inv. RCIN 912623,
RCIN 912625, RCIN 912640, RCIN
912636r e RCIN 912639). Su questi disegni
si veda Bambach 2019, III, pp. 145-60, figg.
10.44-10.45, 10.50-10.51, 10.54-10.56.
158 Si veda nota 156.
159 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 60v;
Vecce 1995, pp. 219-220, n. 181 (trascrizione
critica).
160 BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 61:
“b. Precetti del componere / le istorie / A. /
[…] Pero tu, componitore delle istorie non
membrificare con terminati lineamenti le
membrificazioni d’esse istorie”, Vecce 1995,
pp. 221-222, n. 189 (trascrizione critica).
Bambach 2019, I, p. 435, sul “componimento
inculto”.
161 Parigi, Bibliothèque de l’Institut de
France, ms. A, inv. 2185, fol. 22v: “Modo
daume[n]tare e destare / lo [n]giegnjo a
varie i[n]ue[n]tionj / no[n] restero] p[e]ro dj
mettere i[n]fra questi p[re]ciettj 1a nova i[n]
ue[n]tione dj spechula/tione”.
162 Nel registrare il nuovo testo, tratto
da altri appunti di Leonardo, Melzi scrisse
un’enfatica “N” maiuscola (“nulla di pittura”)
per segnare il punto in cui il testo basato sul
ms. A di Parigi si interrompe e inizia quello
nuovo. BAV, Francesco Melzi (da Leonardo da
Vinci), Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 35v;
Vecce 1995, pp. 177-178, n. 66 (trascrizione
critica). Tuttavia la trascrizione diplomatica
si avvicina di più alla probabile ortografia di
Leonardo.
163 Parigi, Bibliothèque de l’Institut de
France, ms. A, inv. 2185, fol. 26r; BAV,
Francesco Melzi (da Leonardo da Vinci),
Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 35v; Vecce
1995, pp. 178, n. 67 (trascrizione critica).
164 Londra, British Library, ms. Arundel 263,
fol. 278v.
165 Leonardo realizzò degli schizzi “di getto”
per la figura inginocchiata di Leda e il cigno
e per la Vergine con il Bambino e Sant’Anna.
Per Leda e il cigno si veda Windsor, Royal
Library, inv. RCIN 912337; per la Vergine con
il Bambino e Sant’Anna si veda Los Angeles,
J. Paul Getty Museum, inv. 86.GG.725;
Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto
Disegni e Stampe, inv. 230; Parigi, Musée du
Louvre, Département des Arts graphiques,
inv. RF 460; e Londra, British Museum, inv.
1875.0612.17.
166 Vasari (1966-1987), I (testo), p. 117.
167 Parigi, Bibliothèque de l’Institut de
France, ms. A, inv. 2185, fol. 26r. BAV,
Francesco Melzi (da Leonardo da Vinci),
Codex Urbinas Latinus 1270, fol. 38v; Vecce
1995, p. 182, n. 76 (trascrizione critica).
168 De Piles 1699, p. 168.
169 Bambach 2019, III, pp. 585-634
(capitolo 14) e IV, pp. 29-34 (appendici
V e VI), 417-441. Ho avuto la fortuna di
consultare i documenti pertinenti in originale
negli archivi di Madrid, Archivo Histórico
de Protocolos (AHPM) e Firenze (ASFi). La
ricostruzione dei resti archeologici e visivi
presenti sui manoscritti e sui disegni di
Leonardo non era stata mai esplorata prima in
letteratura.
170 Ivi, pp. 588-602, per un riepilogo.
171 Ivi, pp. 589, 606-607, 609-618, 622-624,
parla della tendenziosità delle Memorie di
Mazenta e dei metodi usati da Pompeo Leoni
per tagliare e incollare i disegni e assemblare
il Codice Atlantico e gli album di Windsor. I
metodi di Pompeo Leoni non erano insoliti
tra i collezionisti di disegni del Cinquecento e
del Seicento.
172 AHPM, Protocolo inv. 2632.
173 AHPM, Protocolo inv. 2662, fol.
1338r-1384v (da gennaio a marzo 1609);
AHPM, Protocolo inv. 2661, fol. 617r-686v
(da giugno ad agosto 1613). Anche per questi
documenti il notaio era Francisco Testa di
Madrid.
174 Bambach 2019, III, pp. 624-628 e IV,
pp. 32-34 (appendice VI).
175 Ivi, III, pp. 628-630. Testamento con le
ultime volontà di Juan de Espina e documento
allegato, AHPM, Protocolo, inv. 7672, fol.
242r-247v.
176 Ivi, III, pp. 628-630 e IV, pp. 438439 (note 338-348); Carducho 1633,
fol. 155v-157r, sul materiale di Leonardo di
proprietà di Juan de Espina (fol. 156v).
177 Ibidem.
178 Citato dalla lista che accompagnava
un’offerta di vendita del Codex Atlanticus
al Granduca Cosimo II de’ Medici; ASFi,
Miscellanea Medicea, 109/I, “Nota delle
cose migliori che si trouano in Casa il Leoni
Aretino in Milano”, fol. 228r-v.
179 Bambach 2019, III, pp. 618-620.
180 Ivi, III, pp. 612-617 e IV, pp. 429-430
(note 169-174), per una sintesi di questo
episodio. Si veda ASFi, Miscellanea Medicea,
109/I, “Nota delle cose migliori che si trouano
in Casa il Leoni Aretino in Milano”, fol. 228rv. La corrispondenza relativa è, qui in ordine
cronologico, ASFi, Mediceo del principato,
3130 (fol. 456), 3140 (fol. 8), 1455 (fol. 503),
3140 (fol. 276), 1455 (non numerato [fol.
568r]).
181 Riepilogo basato su Bambach 2019, III,
pp. 590-591, 606, 612-620, 630-632.
182 Ivi, pp. 612, 630-632.
183 Wood [CR XXVI.2] 2010, I, p. 31.
184 Logan, Belkin 2021-2023, I/1, pp. 180202, nn. 126-151, li datano a circa il 16021605 a Mantova; Kwakkelstein [CR XX.1]
2022, pp. 13-65, per importanti criteri di
classificazione, cronologia e funzione.
185 Sul disegno di Rubens qui illustrato
(New York, Metropolitan Museum of Art,
inv. 1996.75), in relazione con due studi
anatomici di un braccio sinistro in una
collezione privata, si veda Logan, Plomp
2004, pp. 19, 27, 56, 98-100, n. 16; Bambach
2019, I, pp. 34-38, figg. 1.21, 1.22; Logan,
Belkin 2021-2023, I/1, 195-196, n. 141;
Kwakkelstein [CR XX.1] 2022, pp. 94-97,
n. 16, fig. 75.
186 Castello di Windsor, Royal Library, inv.
CARMEN C. BAMBACH
56
RCIN 919013v, da Anatomical ms. A, fol.
14v; Bambach 2019, III, pp. 211-249, sui
disegni leonardiani dell’Anatomical ms. A di
Windsor.
187 Logan, Plomp 2004, pp. 98-100, n. 16;
Logan, Belkin 2021-2023, I/1, p. 183;
Kwakkelstein [CR XX.1] 2022, pp. 94-97,
n. 16, fig. 75. La letteratura si riferisce spesso
a questo tipo di carta chiamandola “carta
mantovana” (filigrana simile a Briquet 7307),
il che richiede una precisazione, infatti la
filigrana indica l’uso a Mantova e non la
fabbricazione in quella città.
188 Wood [CR XXVI.2] 2010, I, p. 28.
Magurn 1955, p. 28.
189 Bellori (a cura di Evelina Borea), Turin,
1976, p. 266. Sparti 2012, pp. 85-102,
sull’affidabilità della biografia di Rubens di
Bellori.
190 Questo era uno dei caveat, giustamente
espresso in Balis 2001, pp. 11-16.
191 Soprattutto Kwakkelstein [CR XX.1]
2022, pp. 13-20.
192 Bambach 2019, II, pp. 61-235 e
IV, pp. 5-6 (appendice III, per formati e
dimensioni). I taccuini tascabili tipici di
Leonardo erano in formato in-ottavo (al
massimo 15 × 10 cm) e in-sedicesimo (al
massimo 10,5 × 8 cm). I suoi formati inquarto misuravano circa 23,2 × 16,9 cm.
193 Balis 2001; Balis 2011; Barone 2007b,
pp. 366-393; Barone 2009; Balis 2021;
Kwakkelstein [CR XX.1] 2022; Büttner,
McGrath, Schepers 2022. Nella loro precisa
catalogazione dei singoli fogli, Logan,
Belkin 2021-2023, I/1, pp. 56-59, 128-130,
nn. 21, 87, hanno fornito un utile stato della
questione, che mi ha permesso di proporre
le seguenti osservazioni e modifiche da
sottoporre ad analisi. Ringrazio Jeremy Wood
per i generosi commenti, mentre sviluppavo la
mia proposta.
194 Balis 2001; Balis 2011; Barone 2007b,
pp. 366-393; Barone 2009; Kwakkelstein
[CR XX.1] 2022; Balis 2021; Logan, Belkin
2021-2023, I/1, 56-59, 128-130, nn. 21, 87;
Büttner, McGrath, Schepers 2022.
195 Berlino, Kupferstichkabinett inv. KdZ
3240, con copie da Raffaello e Holbein,
in penna e inchiostro bruno, 20,2 × 15,9
cm (Logan, Belkin 2021-2023, I/1, n. 21);
Londra, Courtauld Gallery, inv. D1978.
PG.427, studi di costruzione geometrica
ispirati all’Ercole Farnese, penna e inchiostro
bruno, 19,8 × 15,6 cm (Logan, Belkin
2021-2023, I/1, n. 87). Il terzo foglio,
venduto da Sotheby’s Londra il 7 luglio
2021, lotto 26, con bibliografia e storia delle
attribuzioni (https://www.sothebys.com/en/
buy/auction/2021/a-fine-line-master-workson-paper-from-five-centuries/a-double-sidedpage-of-studies-recto-a-nymph [consultato
il 21-09-2023]), reca disegni sul recto (un
satiro femmina che afferra un’erma di Pan)
e sul verso (un soldato caduto a terra, senza
testa), a penna e inchiostro bruno, e misura
18,3 × 13,4 cm. Sia questo foglio sia il saggio
di Balis 2021 mi sono stati segnalati da
Jeremy Wood.
196 Bambach 2019, I, pp. 65-79, II, pp. 1-35
e III, pp. 83-307, 353-393.
197 Ivi, II, pp. 61-63, 74-76 e IV, pp. 1-6
(appendici da I a III).
198 Ivi, III, pp. 591-596.
199 Si veda nota 39.
200 BAV, Codex Urbinas Latinus 1270, fol.
20r; Vecce 1995, p. 158, n. 34 (trascrizione
critica).
RUBENS, PICTOR DOCTUS, E LA SUA RISPOSTA A LEONARDO
57
In copertina
Peter Paul Rubens, Agrippina e Germanico, particolare,
1614 circa, olio su tavola, 66,4 × 57 cm.
Washington, DC, National Gallery of Art,
inv. 1963.8.1
© Ministero della Cultura-Galleria Borghese
© 2023 Electa S.p.A., Milano
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presso Errestampa s.r.l., Orio al Serio (BG), nell’anno 2023