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La forma della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio

a cura di Alessia Cervini e Michele Guerra Nel tuo libro Emozione e coscienza hai utilizzato la metafora del "filmnel-cervello" (movie-in-the-brain) per introdurre il lettore al problema della coscienza. Per chi si occupa di cinema, in quella metafora riecheggiano alcune idee dello psicologo di Harvard Hugo Münsterberg, secondo il quale il cinema, oltre a parlare lo stesso linguaggio della mente umana, trasfigurava la realtà esterna fino a darle la forma della nostra coscienza. Come ti è venuta in mente l'immagine del "film-nel-cervello"?

La forma della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio a cura di Alessia Cervini e Michele Guerra Nel tuo libro Emozione e coscienza hai utilizzato la metafora del “filmnel-cervello” (movie-in-the-brain) per introdurre il lettore al problema della coscienza. Per chi si occupa di cinema, in quella metafora riecheggiano alcune idee dello psicologo di Harvard Hugo Münsterberg, secondo il quale il cinema, oltre a parlare lo stesso linguaggio della mente umana, trasfigurava la realtà esterna fino a darle la forma della nostra coscienza. Come ti è venuta in mente l’immagine del “film-nel-cervello”? L’idea del “film-nel-cervello” viene dal fatto che negli individui dotati di vista, i contenuti dei processi mentali sono spesso caratterizzati da sequenze di immagini animate e da una traccia di accompagnamento sonoro. Questi contenuti sono caratterizzati da uno specifico punto di vista, sia che essi facciano riferimento all’effettiva realtà che ci circonda, sia che facciano invece riferimento a quella realtà come viene richiamata nella nostra immaginazione. Il punto di vista del “film-nel-cervello” è quello del Sé, del soggetto che esperisce quei contenuti mentali. Noi vediamo il mondo, le persone e le cose attraverso i nostri occhi e li sentiamo a partire dalla posizione spaziale che assumiamo rispetto ad essi; oppure vediamo/sentiamo ciò che ci immaginiamo altri vedano/sentano da un altro specifico e situato punto di vista. Anche il film naturalmente ha un punto di vista visivo e sonoro, che è quello della macchina da presa e del suo microfono (o dei microfoni posti in scena nelle sue vicinanze), necessari a catturare le immagini e i suoni che strutturano l’inquadratura. Se da una parte il “film-nel-cervello” è una metafora pratica e funzionale per caratterizzare la coscienza, dall’altra essa consente di mettere in luce anche uno dei maggiori problemi relativi alla concettualizzazione dei fenomeni ad essa legati. Infatti, se non fosse per la predominanza, nella teoria della coscienza, di operazioni percettive altamente evolute come la vista e l’udito, sarebbe stato semplice per i filosofi, gli scienziati cognitivi e i neuFATA MORGANA 9 Alessia Cervini e Michele Guerra roscienziati rilevare che il “film-nel-cervello” rappresenta uno stadio molto avanzato nella catena di processi che sta dietro il formarsi della coscienza, e che non comprende affatto il sistema di fenomeni di base che rendono possibili quei processi. Pertanto, se per certi versi la metafora è produttiva e applicabile, per altri potrebbe apparire deviante, laddove non si consideri l’insieme di sensazioni su cui, per come la vedo oggi, si basa criticamente l’intero processo della formazione della coscienza. Pensi che il cinema possa, meglio di altre forme d’arte, simulare la nostra esperienza cosciente? Non è semplice rispondere a questa domanda, anche se sarei portato, di primo acchito, a dare una risposta affermativa. Si può dire che nessun’altra arte raggiunge nulla di paragonabile a ciò che raggiunge il cinema, se pensiamo agli effetti che questa forma di espressione ha su milioni di spettatori, e potremmo aggiungere che nessun’altra arte dipende da elementi paragonabili a quelli da cui dipende il cinema. La pittura, ad esempio, è priva di movimento, anche se aperta a prospettive e forme di visione che appaiono più libere rispetto alle forme di visione che ci sono proprie, come peraltro ha dimostrato più volte David Hockney nei suoi lavori che riflettono su pittura e fotografia. Nemmeno la musica è paragonabile, dal momento che ogni tipo di narrazione musicale ha un basso grado di referenzialità nei confronti di oggetti o di azioni e si tratta di una referenzialità che è in gran parte suggerita o implicita, ma non possiede alcuna specificità analogica. Il teatro si avvicina di più, ma anche in questo caso i nostri occhi possono spostarsi e il nostro sguardo vagare per la scena con una libertà molto maggiore rispetto a quella che ci concede l’occhio della macchina da presa. Infine, neanche la letteratura e la poesia arrivano a ottenere effetti paragonabili a quelli del cinema, dal momento che sono arti fondate sul linguaggio, vale a dire su un codice che traduce il mondo primo degli oggetti e delle azioni, senza poter rappresentare né i primi né le seconde analogicamente. Quel che dici del rapporto tra la metafora del “film-nel-cervello” e il Sé porta quasi a pensare che il cinema (e forse l’arte in generale) possa essere considerato come una sorta di costruzione protesica del nostro Sé. Che ne pensi? Il cinema è protesico nel senso che può surrogare o accrescere ed estendere qualcosa di naturale, e più precisamente gli abituali contenuti della nostra mente e le sue funzioni in rapporto alla soggettività. Ogni arte è protesica per molti versi. A mio avviso, però, il cinema, come le altre arti, ha anche 10 FATA MORGANA La forma della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio un aspetto “terapeutico”, nel senso che l’attività della nostra immaginazione è in larga parte il risultato di una carenza omeostatica che necessita di essere compensata, e l’opera d’arte svolge questa funzione sia per l’autore che per lo spettatore... Vari teorici del cinema, di provenienza e metodologie spesso anche distanti, hanno ripreso a interrogarsi in anni recenti sulle ragioni della capacità dello spettatore cinematografico di muoversi con disinvoltura tra lo spazio reale della sala e quello immaginario dello schermo. C’è chi ha parlato di uno sdoppiamento di coscienza: da una parte la coscienza che realizza la concreta materialità del dispositivo cinematografico e la base reale della nostra esperienza, dall’altra la coscienza che si proietta, con potenza immaginifica, nel mondo del film. Qual è la tua posizione al riguardo? Penso che non ci siano dubbi sul fatto che sia possibile equiparare (e in certi casi anche sovrapporre) l’esperienza che facciamo delle immagini sullo schermo con il resto delle nostre esperienze reali. Tanto per cominciare, bisogna osservare che gli elementi visivi e sonori di un film tendono a spiazzare le componenti visive e sonore della nostra esperienza reale. Uno dei motivi per cui ci sarebbe ancora molto da dire sul sistema classico di proiezione (in una sala buia e con un raffinato sistema di relazione tra la superficie dello schermo e lo spettatore), è che questa situazione che definiamo classica serve in primo luogo a mascherare e dissimulare alcuni elementi dell’intorno caratteristico dello spettatore e, così facendo, favorisce il primato e il predominio dei materiali che appaiono sullo schermo. Tale predominio, o ancora meglio, tale prevalenza, è favorita anche dal grado di engagement personale con cui lo spettatore si relaziona a ciò che accade sullo schermo: alcune esperienze cinematografiche sono così immersive e coinvolgenti che lasciano poco spazio perché altri elementi o fattori esterni possano raggiungere il centro della nostra coscienza. Eppure c’è una palese eccezione a questa forma di rimozione dell’esperienza ordinaria causata dai film: la percezione dello stato del nostro corpo. Come accade in molte altre situazioni nelle quali il nostro interesse e il nostro livello di coinvolgimento rispetto a materiali percettivi esterni è molto alto, le informazioni relative allo stato del nostro corpo sono decisamente attenuate (ciò è vero perfino in casi di dolore o malattia). Tuttavia, è altrettanto vero che non a tutte le sensazioni che riguardano lo stato del nostro corpo è concesso di svanire o di attenuarsi. Altrove ho osservato, infatti, che se ciò accadesse, tutti i nostri processi coscienti sarebbero sospesi: non solo non avremmo coscienza del nostro corpo, ma saremmo anche impossibilitati a percepire il mondo circostante, nel nostro caso ciò che appare sullo schermo insieme a qualsiasi FATA MORGANA 11 Alessia Cervini e Michele Guerra altra questione o materia cognitiva che viene richiamata dal nostro continuo processare i contenuti del film. Così, quando ci si domanda se il cinema (soprattutto quello mainstream) può “re-incarnare” la nostra esperienza in modi simili a quelli della vita reale, la risposta dev’essere sia sì che no. Da un certo punto di vista è sì, perché il flusso di immagini e suoni sullo schermo nel suo incontro con il flusso sensoriale del nostro corpo forma una totalità di esperienza che per molti versi è simile alla normale disposizione di momenti coscienti. La risposta però deve essere negativa quando consideriamo che l’esperienza filmica richiede alla nostra mente di darle senso, di completarla, per meglio dire, laddove la nostra esperienza di ogni giorno è già completa e autonoma. Le migliori e le più ricche esperienze filmiche si appoggiano al nostro sistema sensoriale e un film può arrivare a costruire un affascinante simulacro di un’esperienza reale e complessa, un simulacro che scava nei nostri processi mentali e che va ad inserirsi nel cratere lasciato da quello scavo, sostituendo alla realtà la finzione. Questa idea del “cratere”, dove la finzione sostituisce la realtà, è intrigante. Dal momento che il cinema sta passando attraverso trasformazioni tecnologiche e sociali molto forti e si parla da tempo delle forme di “rilocazione” che lo investono, ritieni che la tua idea sia applicabile solo all’esperienza della sala o anche ad altre forme di esperienza, magari legate alla visione di film su altri dispositivi? Detto altrimenti, quando parli di cinema ti riferisci al film in quanto tale o a un’esperienza specifica e situata? Questa domanda è molto puntuale e importante: quando parlo di cinema mi riferisco a un’esperienza specifica e situata, non a un film visto su un tablet e nemmeno su un moderno televisore. Ora cerco di spiegare il perché. Primo: quali sono le condizioni di una tale esperienza situata? Alcune sono molto ovvie: ad esempio, un punto critico è rappresentato dalle forme di presentazione dell’immagine. L’ambiente circostante non dovrebbe mai entrare in competizione con le immagini sullo schermo e in ciò aiuta uno spazio oscurato e neutrale dal punto di vista acustico. I suoni udibili dovrebbero essere unicamente quelli della colonna sonora. L’esperienza filmica è fondata sulla capacità del film di “occupare” la mente dello spettatore, visivamente e acusticamente, senza interferenze. Un’altra condizione è la relazione tra lo spettatore e lo schermo e ha a che fare con la distanza tra essi e con le dimensioni dello schermo. Se si intende riprodurre qualcosa di simile all’esperienza filmica su piccoli schermi, sono necessari una maggior prossimità di visione e una sorta di neutralizzazione dell’ambiente circostante (almeno per me). 12 FATA MORGANA La forma della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio Secondo: che cosa vuole offrire allo spettatore una situazione cinematografica? Anche in questo caso la risposta è chiara: la possibilità di concentrarsi su ciò che vede e sente (gli elementi visivi e sonori del film), di avere accesso a quel mondo, di immergersi nell’universo del film e di abbandonarsi, in certi momenti, ad esso. Come dicevo prima, quando ci immergiamo nell’universo di un romanzo, otteniamo qualcosa di simile seppur in una forma attenuata e in circostanze molto diverse: leggendo delle parole ci figuriamo delle immagini e ne comprendiamo il significato, anche se non possiamo né vedere, né ascoltare direttamente. La nostra è, in questo caso, una condizione di “co-creatori” di tutto ciò che si presenta alle nostre menti, dal momento che il mondo dello scrittore è filtrato dal codice linguistico e noi dobbiamo tradurlo nel nostro unico e multisensoriale “mentalese”. Lo possiamo fare al ritmo che preferiamo: ci possiamo fermare, tornare indietro, rileggere, mentre al cinema abbiamo bisogno di tutto l’aiuto necessario per stare al passo con un mondo già bell’e pronto in cui dobbiamo entrare (essendovi trasportati) nel modo più convincente possibile. Devo confessare che non ho mai guardato un intero film di finzione su un tablet o un dispositivo simile, mentre vi ho guardato brevi sequenze di film, qualche documentario di interviste, o delle lezioni. Ho sempre pensato questo tipo di esperienza come assimilabile alla lettura di un giornale, ma non credo che possa funzionare con la finzione narrativa. Sono disposto a riconoscere che, in piccola parte, questo può anche essere un tema generazionale: per le generazioni che sono cresciute in piena padronanza dei dispositivi mobili e digitali e che hanno avuto meno occasioni di fare esperienze filmiche in sale tradizionali, la perdita di cui parlo è forse meno avvertibile, ma ciò non toglie che si tratti di una perdita. Billy Wilder, un autore piuttosto perspicace, dà conto di questa condizione nel dialogo che scrive per Norma Desmond, il personaggio interpretato da Gloria Swanson in Viale del tramonto: «Nothing else! Just us, the cameras, and those wonderful people out there in the dark». Possiamo essere trasportati al meglio nel mondo del film se, come la gente meravigliosa di cui parla Norma, ci troviamo là fuori, nel buio. C’è poi un’altra battuta, sempre pronunciata da Norma Desmond, in cui Wilder in effetti sembra anticipare ciò che vediamo succedere oggi: «I am big, it’s the pictures that got small». In un tuo precedente articolo sul cinema, parli di sogno e ipnosi come modelli spesso utilizzati per descrivere l’esperienza filmica. Che relazione vedi tra questi modelli e i temi legati alla coscienza? L’idea del sogno e dell’ipnosi non mi soddisfa del tutto per descrivere un tipo di spettatorialità cinematografica immersiva. Certo, ognuno afferra FATA MORGANA 13 Alessia Cervini e Michele Guerra il concetto che si vuole esprimere attraverso questi modelli, ma nessuno dei due stati corrisponde all’esperienza del film e dunque occorre utilizzarli con cautela. Perché dico questo? Anche durante le più profonde e immersive esperienze filmiche, noi non abbandoniamo mai il nostro Sé; molto più semplicemente, spostiamo per un certo tempo il centro delle nostre preoccupazioni mentali. Il piacere che proviamo è ancora pienamente nostro così come nostre rimangono la conoscenza pratica o la saggezza che mettiamo in gioco durante la visione nel film, nonché gli insegnamenti che possiamo trarre da quell’esperienza. Detto altrimenti, manteniamo uno stato di coscienza regolare, con un’indubbia stabilità propriocettiva, una prospettiva “noi-centrica”, per quanto, nella sostanza, occupata da un universo narrativo che non abbiamo mai vissuto e che stiamo vivendo in forma vicaria. Né i sogni, né l’ipnosi sono stati di coscienza regolari. I primi sono stati che possono dirsi di coscienza “paradossale”: per certi versi siamo consci, nel senso che le esperienze oniriche sono ancora nostre e sono esperite dal nostro punto di vista. Tuttavia, il contenuto del sogno (anche nei cosiddetti “sogni lucidi”) non è imbastito da un’altra mente, non è strutturato secondo il proposito narrativo che, molto chiaramente, un cineasta ha nei nostri confronti. Lo stesso discorso vale per l’ipnosi, che si ha quando la mente viene liberata per far spazio a idee e azioni suggerite dall’esterno. Le esperienze filmiche più profonde possono essere ipnotiche solo in senso metaforico: noi non potremmo mai entrare in un film, mischiarci con i personaggi o partecipare delle loro situazioni, non più di quanto il protagonista del film di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo possa abbandonare lo schermo e unirsi a noi. Hai scritto che chi ha perfezionato, in breve tempo, lo stile cinematografico deve aver pensato, più o meno consciamente, al funzionamento del cervello umano. Quando l’ho scritto, pensavo a due aspetti in particolare. Il più semplice dei due ha a che fare con la prospettiva visuale: nella realtà, noi “inquadriamo” le scene in modo diverso sulla base della posizione in cui ci troviamo rispetto alle altre persone e agli oggetti che osserviamo. I pionieri del cinema, quelli che hanno pensato a campi lunghi e primi piani, al campo-controcampo, a plongées e contre-plongées, o alla carrellata, sono riusciti a catturare questo aspetto elementare ma decisivo della nostra relazione con la realtà in modo rapido ed efficiente, con immediatezza ed economia espressiva. Il secondo aspetto, quello più complesso, riguarda il montaggio. Chi vi ha lavorato, rendendolo sempre più articolato e funzionale, fino a farne 14 FATA MORGANA La forma della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio l’elemento più tipico dell’arte cinematografica, doveva aver presente, non so appunto quanto consciamente, il ritmo e il passaggio delle immagini che, in continuo, ha luogo nelle nostre menti e che ci mette nelle condizioni di costruirci da una parte una narrazione del mondo in cui viviamo e che esperiamo ogni giorno, e dall’altra una narrazione dei nostri ricordi. Il colpo di genio è stato quello di riprodurre, nella sostanza, un tale processo e utilizzarlo per raccontare le vite degli altri, dando forma al cinema così come lo conosciamo. Ci sono diversi tipi di montaggio, che presuppongono forme di relazione diverse tra lo spettatore e il film, idee di cinema spesso lontane e che naturalmente hanno un impatto differente sui nostri sensi e sulla nostra capacità di processare le informazioni offerte dal film. Walter Murch ritiene sorprendente che gli spettatori, così abituati a esperire la realtà in continuità, si siano immediatamente adattati al montaggio e all’illusoria trasparenza e continuità che crea. Che effetti può avere sullo spettatore un tipo di montaggio fortemente espressivo che ricerca esplicitamente la discontinuità? Per quanto sorprendente possa apparire, forme di montaggio come quelle proposte ad esempio da Ejzenštejn, penso al cosiddetto “montaggio intellettuale”, sono molto facilmente accettate dalla nostra mente in quanto forme narrative. Sebbene certe costanti e aspettative siano violate o contraddette da questi tipi di montaggio, la logica narrativa viene colta tranquillamente. Anzi, direi che la nostra mente lavora in modo più simile a quello che potremmo definire un “montaggio intellettuale” che non a forme di montaggio classico o continuo. Penso che alcuni tra i primi film di Alain Resnais siano molto significativi da questo punto di vista. Davvero si può dire che il montaggio, comunque lo si intenda, ha qualcosa del funzionamento della nostra mente. Se dovessi fare il nome di un autore che incarna, in qualche modo, le tue idee su cognizione ed emozione cinematografiche, chi diresti? Questa è la domanda più difficile e con molta fatica potrei individuare alcuni registi, il cui lavoro corrisponde molto spesso a ciò che penso della relazione tra le nostre menti, il nostro cervello e il cinema. Ad essere onesti, devo dire che in più di un’occasione penso che il loro lavoro abbia ispirato certe mie idee sulla coscienza e non possa esserne dunque considerato solo una semplice illustrazione. Inoltre, questi sono gli autori le cui opere mi hanno sempre coinvolto e affascinato anche al di là dei loro difetti o di certi limiti. In ordine cronologico, questi registi sono anzitutto Alfred Hitchcock, Orson Welles e Woody Allen. Sento però di dover aggiungere Alain Resnais, FATA MORGANA 15 Alessia Cervini e Michele Guerra perlomeno con alcuni dei suoi primi film, ma sto lasciando fuori così tanti autori e film che ammiro che la cosa diventa imbarazzante... Il linguaggio cinematografico di Hitchcock è diretto ed economico e teso ad un unico obiettivo: portare la mente dello spettatore a risuonare con una situazione emozionalmente forte. Hitchcock è un amabile sadico e crea situazioni in cui il personaggio soffre e lo spettatore, come posseduto da una vera Schadenfreude, soffre e gode di quelle situazioni. Le emozioni chiave per Hitchcock sono la paura e il senso di colpa, cui corrisponde poi il sollievo. La situazione in sé non è così importante: quasi tutto può andare, purché funzioni. L’inquadratura può mostrarci che cosa vede un personaggio, o come i volti degli altri personaggi reagiscono a ciò che vede quel personaggio, oppure in che cosa consiste una visione da una prospettiva impossibile. Il suo primo obiettivo è la chiarezza del messaggio (con la sola eccezione di alcune scene che contengono significati sessuali, su cui Hitchcock può permettersi di indugiare quando ha interpreti come Ingrid Bergman, Grace Kelly, Eva Marie Saint e naturalmente Cary Grant; sono scene molto audaci e in anticipo sui tempi, soprattutto se le si considera ad una seconda o terza visione). Ciò che colpisce, però, è come questa esigenza di chiarezza comunicativa, questa tendenza al “comunicato” breve e diretto, non solo non riduca per lo spettatore la qualità dell’atmosfera tipica dei suoi film, ma addirittura ne aumenti il livello e l’efficacia narrativa. Nonostante il suo stile sia più ricercato, anche Welles appare ugualmente attento all’economia della narrazione, per quanto la sua prima preoccupazione sembri essere quella di mettere lo spettatore nella condizione di giudicare i personaggi, le loro azioni e di arrivare a conclusioni di rilievo sociale, politico, etico. Sono obiettivi che spesso raggiunge, in alcuni casi con veri e propri trucchi da illusionista (quale in fondo era), talora temperati dall’influenza culturale di uno dei suoi grandi modelli, William Shakespeare. Se dovessi fare qualche titolo che serva a dare l’idea del perché ho scelto Orson Welles, direi Quarto potere, L’infernale Quinlan e Falstaff. Il cinema di Welles poi mi ha sempre interessato per l’uso particolare che vi si fa del montaggio e per la capacità di questo autore (piuttosto privo di disciplina e spesso costretto a fronteggiare limitazioni tecniche ed economiche) di costruire storie e personaggi al tavolo di montaggio. Nelle sue rappresentazioni dell’umano flusso di coscienza, Alain Resnais si avvicina alla realtà come nessun altro nell’arte del cinema. Da questo punto di vista, probabilmente L’anno scorso a Marienbad è il suo risultato migliore, insieme a Hiroshima mon amour e a Muriel. Che questo tipo di poetica e questa idea di rappresentazione siano da riconoscere interamente a Resnais è dimostrato dal fatto che i tre film hanno sceneggiatori diversi. Woody Allen, infine, lo considero come un autentico scrittore che ha 16 FATA MORGANA La forma della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio avuto il coraggio di misurarsi con un medium visivo, fatto di immagini, e che pure ha saputo portare a livelli vicini alla perfezione. Allen è un esperto degli “a parte” e delle interpellazioni dirette allo spettatore, vecchie trovate teatrali che pochi registi cinematografici sanno usare con efficacia. D’altro canto gli “a parte” e certe forme di interpellazione sono elementi centrali nelle nostre personali forme interiori di narrativa. In questi ultimi anni, i rapporti tra cinema e neuroscienze si sono molto intensificati: diversi neuroscienziati, a cominciare da un “pioniere” come Uri Hasson, hanno cominciato a lavorare regolarmente sul cinema, e la teoria del film è stata disposta ad accogliere spunti di riflessione che provenivano da dati e scoperte neuroscientifiche. Abbiamo assistito alla nascita di neologismi come “neurocinematics”, “psychocinematics”, “neurofilmology”. Che cosa pensi di questo filone di studi? I film non penso che abbiano bisogno dell’aiuto delle neuroscienze per essere quello che sono, ma gli studi sul cinema possono senza dubbio servirsi delle neuroscienze e trarre qualche vantaggio dal loro utilizzo. C’è molto da imparare sull’esperienza umana da studi come quelli che avete citato di Uri Hasson, che peraltro sono in relazione con ricerche che anche il nostro gruppo di ricerca porta avanti da qualche tempo. Per molti anni abbiamo provato a comprendere aspetti rilevanti per questi problemi, studiando, ad esempio, come la visione e il suono sono integrati nel cervello umano, in lavori dedicati all’integrazione di informazioni tra le aree uditive, visive, somatosensoriali e motorie, sul tipo di integrazione che interviene nella rappresentazione degli oggetti, sulla correlazione tra il vedere stimoli tattili e l’attività della corteccia somatosensoriale primaria, su come l’osservazione di stimoli visivi muti, ma che sottendono un suono, abbiano effetto sull’attività della corteccia uditiva, su come il nostro cervello rappresenta la realtà esterna così da poterla rendere percepibile nella forma di immagine mentale. Si tratta di un dialogo complesso e cominciato da poco, ma che vale la pena protrarre per vedere che cosa ci può portare. Testi citati durante la conversazione DAMASIO A., Emozione e coscienza, tr. it., Adelphi, Milano 2000; ID., Cinéma, esprit, émotion: la perspective du cerveau, in “Trafic”, n. 67 (2008); ID., Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, tr. it., Adelphi, Milano 2012; HASSON U., LANDESMAN O., KNAPPMEyER B., VALLINES I., RUBIN N., HEEGER D.J., Neurocinematics: the Neuroscience of Film, in “Projections”, n. 1 (2008); MURCH W., In un batter FATA MORGANA 17 Alessia Cervini e Michele Guerra d’occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale, tr. it., Lindau, Torino 2000. Film citati durante la conversazione Quarto potere (Welles, 1941); Viale del tramonto (Wilder, 1950); L’infernale Quinlan (Welles, 1958); Hiroshima mon amour (Resnais, 1959); L’anno scorso a Marienbad (Resnais, 1961); Muriel, il tempo di un ritorno (Resnais, 1963); Falstaff (Welles, 1965); La rosa purpurea del Cairo (Allen, 1985). 18 FATA MORGANA