La forma della coscienza.
Conversazione con Antonio Damasio
a cura di Alessia Cervini e Michele Guerra
Nel tuo libro Emozione e coscienza hai utilizzato la metafora del “filmnel-cervello” (movie-in-the-brain) per introdurre il lettore al problema
della coscienza. Per chi si occupa di cinema, in quella metafora riecheggiano alcune idee dello psicologo di Harvard Hugo Münsterberg, secondo
il quale il cinema, oltre a parlare lo stesso linguaggio della mente umana,
trasfigurava la realtà esterna fino a darle la forma della nostra coscienza.
Come ti è venuta in mente l’immagine del “film-nel-cervello”?
L’idea del “film-nel-cervello” viene dal fatto che negli individui dotati
di vista, i contenuti dei processi mentali sono spesso caratterizzati da sequenze di immagini animate e da una traccia di accompagnamento sonoro.
Questi contenuti sono caratterizzati da uno specifico punto di vista, sia che
essi facciano riferimento all’effettiva realtà che ci circonda, sia che facciano invece riferimento a quella realtà come viene richiamata nella nostra
immaginazione.
Il punto di vista del “film-nel-cervello” è quello del Sé, del soggetto
che esperisce quei contenuti mentali. Noi vediamo il mondo, le persone e
le cose attraverso i nostri occhi e li sentiamo a partire dalla posizione spaziale che assumiamo rispetto ad essi; oppure vediamo/sentiamo ciò che ci
immaginiamo altri vedano/sentano da un altro specifico e situato punto di
vista. Anche il film naturalmente ha un punto di vista visivo e sonoro, che
è quello della macchina da presa e del suo microfono (o dei microfoni posti
in scena nelle sue vicinanze), necessari a catturare le immagini e i suoni che
strutturano l’inquadratura.
Se da una parte il “film-nel-cervello” è una metafora pratica e funzionale
per caratterizzare la coscienza, dall’altra essa consente di mettere in luce
anche uno dei maggiori problemi relativi alla concettualizzazione dei fenomeni ad essa legati. Infatti, se non fosse per la predominanza, nella teoria
della coscienza, di operazioni percettive altamente evolute come la vista e
l’udito, sarebbe stato semplice per i filosofi, gli scienziati cognitivi e i neuFATA MORGANA
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roscienziati rilevare che il “film-nel-cervello” rappresenta uno stadio molto
avanzato nella catena di processi che sta dietro il formarsi della coscienza,
e che non comprende affatto il sistema di fenomeni di base che rendono
possibili quei processi. Pertanto, se per certi versi la metafora è produttiva
e applicabile, per altri potrebbe apparire deviante, laddove non si consideri
l’insieme di sensazioni su cui, per come la vedo oggi, si basa criticamente
l’intero processo della formazione della coscienza.
Pensi che il cinema possa, meglio di altre forme d’arte, simulare la
nostra esperienza cosciente?
Non è semplice rispondere a questa domanda, anche se sarei portato, di
primo acchito, a dare una risposta affermativa. Si può dire che nessun’altra
arte raggiunge nulla di paragonabile a ciò che raggiunge il cinema, se pensiamo agli effetti che questa forma di espressione ha su milioni di spettatori,
e potremmo aggiungere che nessun’altra arte dipende da elementi paragonabili a quelli da cui dipende il cinema. La pittura, ad esempio, è priva di
movimento, anche se aperta a prospettive e forme di visione che appaiono
più libere rispetto alle forme di visione che ci sono proprie, come peraltro ha
dimostrato più volte David Hockney nei suoi lavori che riflettono su pittura
e fotografia. Nemmeno la musica è paragonabile, dal momento che ogni
tipo di narrazione musicale ha un basso grado di referenzialità nei confronti
di oggetti o di azioni e si tratta di una referenzialità che è in gran parte suggerita o implicita, ma non possiede alcuna specificità analogica. Il teatro si
avvicina di più, ma anche in questo caso i nostri occhi possono spostarsi e il
nostro sguardo vagare per la scena con una libertà molto maggiore rispetto
a quella che ci concede l’occhio della macchina da presa. Infine, neanche
la letteratura e la poesia arrivano a ottenere effetti paragonabili a quelli del
cinema, dal momento che sono arti fondate sul linguaggio, vale a dire su un
codice che traduce il mondo primo degli oggetti e delle azioni, senza poter
rappresentare né i primi né le seconde analogicamente.
Quel che dici del rapporto tra la metafora del “film-nel-cervello” e il
Sé porta quasi a pensare che il cinema (e forse l’arte in generale) possa
essere considerato come una sorta di costruzione protesica del nostro Sé.
Che ne pensi?
Il cinema è protesico nel senso che può surrogare o accrescere ed estendere qualcosa di naturale, e più precisamente gli abituali contenuti della nostra
mente e le sue funzioni in rapporto alla soggettività. Ogni arte è protesica
per molti versi. A mio avviso, però, il cinema, come le altre arti, ha anche
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un aspetto “terapeutico”, nel senso che l’attività della nostra immaginazione è in larga parte il risultato di una carenza omeostatica che necessita di
essere compensata, e l’opera d’arte svolge questa funzione sia per l’autore
che per lo spettatore...
Vari teorici del cinema, di provenienza e metodologie spesso anche
distanti, hanno ripreso a interrogarsi in anni recenti sulle ragioni della
capacità dello spettatore cinematografico di muoversi con disinvoltura tra
lo spazio reale della sala e quello immaginario dello schermo. C’è chi ha
parlato di uno sdoppiamento di coscienza: da una parte la coscienza che
realizza la concreta materialità del dispositivo cinematografico e la base
reale della nostra esperienza, dall’altra la coscienza che si proietta, con potenza immaginifica, nel mondo del film. Qual è la tua posizione al riguardo?
Penso che non ci siano dubbi sul fatto che sia possibile equiparare (e
in certi casi anche sovrapporre) l’esperienza che facciamo delle immagini
sullo schermo con il resto delle nostre esperienze reali. Tanto per cominciare, bisogna osservare che gli elementi visivi e sonori di un film tendono
a spiazzare le componenti visive e sonore della nostra esperienza reale.
Uno dei motivi per cui ci sarebbe ancora molto da dire sul sistema classico
di proiezione (in una sala buia e con un raffinato sistema di relazione tra
la superficie dello schermo e lo spettatore), è che questa situazione che
definiamo classica serve in primo luogo a mascherare e dissimulare alcuni
elementi dell’intorno caratteristico dello spettatore e, così facendo, favorisce
il primato e il predominio dei materiali che appaiono sullo schermo. Tale
predominio, o ancora meglio, tale prevalenza, è favorita anche dal grado
di engagement personale con cui lo spettatore si relaziona a ciò che accade
sullo schermo: alcune esperienze cinematografiche sono così immersive e
coinvolgenti che lasciano poco spazio perché altri elementi o fattori esterni
possano raggiungere il centro della nostra coscienza. Eppure c’è una palese
eccezione a questa forma di rimozione dell’esperienza ordinaria causata dai
film: la percezione dello stato del nostro corpo. Come accade in molte altre
situazioni nelle quali il nostro interesse e il nostro livello di coinvolgimento
rispetto a materiali percettivi esterni è molto alto, le informazioni relative
allo stato del nostro corpo sono decisamente attenuate (ciò è vero perfino
in casi di dolore o malattia). Tuttavia, è altrettanto vero che non a tutte le
sensazioni che riguardano lo stato del nostro corpo è concesso di svanire o
di attenuarsi. Altrove ho osservato, infatti, che se ciò accadesse, tutti i nostri
processi coscienti sarebbero sospesi: non solo non avremmo coscienza del
nostro corpo, ma saremmo anche impossibilitati a percepire il mondo circostante, nel nostro caso ciò che appare sullo schermo insieme a qualsiasi
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altra questione o materia cognitiva che viene richiamata dal nostro continuo
processare i contenuti del film.
Così, quando ci si domanda se il cinema (soprattutto quello mainstream)
può “re-incarnare” la nostra esperienza in modi simili a quelli della vita reale,
la risposta dev’essere sia sì che no. Da un certo punto di vista è sì, perché
il flusso di immagini e suoni sullo schermo nel suo incontro con il flusso
sensoriale del nostro corpo forma una totalità di esperienza che per molti
versi è simile alla normale disposizione di momenti coscienti. La risposta
però deve essere negativa quando consideriamo che l’esperienza filmica
richiede alla nostra mente di darle senso, di completarla, per meglio dire,
laddove la nostra esperienza di ogni giorno è già completa e autonoma. Le
migliori e le più ricche esperienze filmiche si appoggiano al nostro sistema
sensoriale e un film può arrivare a costruire un affascinante simulacro di
un’esperienza reale e complessa, un simulacro che scava nei nostri processi
mentali e che va ad inserirsi nel cratere lasciato da quello scavo, sostituendo
alla realtà la finzione.
Questa idea del “cratere”, dove la finzione sostituisce la realtà, è intrigante. Dal momento che il cinema sta passando attraverso trasformazioni tecnologiche e sociali molto forti e si parla da tempo delle forme di
“rilocazione” che lo investono, ritieni che la tua idea sia applicabile solo
all’esperienza della sala o anche ad altre forme di esperienza, magari legate
alla visione di film su altri dispositivi? Detto altrimenti, quando parli di
cinema ti riferisci al film in quanto tale o a un’esperienza specifica e situata?
Questa domanda è molto puntuale e importante: quando parlo di cinema
mi riferisco a un’esperienza specifica e situata, non a un film visto su un
tablet e nemmeno su un moderno televisore. Ora cerco di spiegare il perché.
Primo: quali sono le condizioni di una tale esperienza situata? Alcune
sono molto ovvie: ad esempio, un punto critico è rappresentato dalle forme
di presentazione dell’immagine. L’ambiente circostante non dovrebbe mai
entrare in competizione con le immagini sullo schermo e in ciò aiuta uno
spazio oscurato e neutrale dal punto di vista acustico. I suoni udibili dovrebbero essere unicamente quelli della colonna sonora. L’esperienza filmica
è fondata sulla capacità del film di “occupare” la mente dello spettatore,
visivamente e acusticamente, senza interferenze. Un’altra condizione è la
relazione tra lo spettatore e lo schermo e ha a che fare con la distanza tra
essi e con le dimensioni dello schermo. Se si intende riprodurre qualcosa
di simile all’esperienza filmica su piccoli schermi, sono necessari una
maggior prossimità di visione e una sorta di neutralizzazione dell’ambiente
circostante (almeno per me).
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Secondo: che cosa vuole offrire allo spettatore una situazione cinematografica? Anche in questo caso la risposta è chiara: la possibilità di
concentrarsi su ciò che vede e sente (gli elementi visivi e sonori del film),
di avere accesso a quel mondo, di immergersi nell’universo del film e di
abbandonarsi, in certi momenti, ad esso. Come dicevo prima, quando ci immergiamo nell’universo di un romanzo, otteniamo qualcosa di simile seppur
in una forma attenuata e in circostanze molto diverse: leggendo delle parole
ci figuriamo delle immagini e ne comprendiamo il significato, anche se non
possiamo né vedere, né ascoltare direttamente. La nostra è, in questo caso,
una condizione di “co-creatori” di tutto ciò che si presenta alle nostre menti,
dal momento che il mondo dello scrittore è filtrato dal codice linguistico e
noi dobbiamo tradurlo nel nostro unico e multisensoriale “mentalese”. Lo
possiamo fare al ritmo che preferiamo: ci possiamo fermare, tornare indietro, rileggere, mentre al cinema abbiamo bisogno di tutto l’aiuto necessario
per stare al passo con un mondo già bell’e pronto in cui dobbiamo entrare
(essendovi trasportati) nel modo più convincente possibile.
Devo confessare che non ho mai guardato un intero film di finzione su un
tablet o un dispositivo simile, mentre vi ho guardato brevi sequenze di film,
qualche documentario di interviste, o delle lezioni. Ho sempre pensato questo
tipo di esperienza come assimilabile alla lettura di un giornale, ma non credo
che possa funzionare con la finzione narrativa. Sono disposto a riconoscere
che, in piccola parte, questo può anche essere un tema generazionale: per le
generazioni che sono cresciute in piena padronanza dei dispositivi mobili
e digitali e che hanno avuto meno occasioni di fare esperienze filmiche in
sale tradizionali, la perdita di cui parlo è forse meno avvertibile, ma ciò non
toglie che si tratti di una perdita.
Billy Wilder, un autore piuttosto perspicace, dà conto di questa condizione
nel dialogo che scrive per Norma Desmond, il personaggio interpretato da
Gloria Swanson in Viale del tramonto: «Nothing else! Just us, the cameras,
and those wonderful people out there in the dark». Possiamo essere trasportati al meglio nel mondo del film se, come la gente meravigliosa di cui
parla Norma, ci troviamo là fuori, nel buio. C’è poi un’altra battuta, sempre
pronunciata da Norma Desmond, in cui Wilder in effetti sembra anticipare
ciò che vediamo succedere oggi: «I am big, it’s the pictures that got small».
In un tuo precedente articolo sul cinema, parli di sogno e ipnosi come
modelli spesso utilizzati per descrivere l’esperienza filmica. Che relazione
vedi tra questi modelli e i temi legati alla coscienza?
L’idea del sogno e dell’ipnosi non mi soddisfa del tutto per descrivere
un tipo di spettatorialità cinematografica immersiva. Certo, ognuno afferra
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il concetto che si vuole esprimere attraverso questi modelli, ma nessuno dei
due stati corrisponde all’esperienza del film e dunque occorre utilizzarli con
cautela. Perché dico questo? Anche durante le più profonde e immersive
esperienze filmiche, noi non abbandoniamo mai il nostro Sé; molto più
semplicemente, spostiamo per un certo tempo il centro delle nostre preoccupazioni mentali. Il piacere che proviamo è ancora pienamente nostro così
come nostre rimangono la conoscenza pratica o la saggezza che mettiamo
in gioco durante la visione nel film, nonché gli insegnamenti che possiamo
trarre da quell’esperienza. Detto altrimenti, manteniamo uno stato di coscienza regolare, con un’indubbia stabilità propriocettiva, una prospettiva
“noi-centrica”, per quanto, nella sostanza, occupata da un universo narrativo
che non abbiamo mai vissuto e che stiamo vivendo in forma vicaria.
Né i sogni, né l’ipnosi sono stati di coscienza regolari. I primi sono stati
che possono dirsi di coscienza “paradossale”: per certi versi siamo consci,
nel senso che le esperienze oniriche sono ancora nostre e sono esperite dal
nostro punto di vista. Tuttavia, il contenuto del sogno (anche nei cosiddetti
“sogni lucidi”) non è imbastito da un’altra mente, non è strutturato secondo il proposito narrativo che, molto chiaramente, un cineasta ha nei nostri
confronti.
Lo stesso discorso vale per l’ipnosi, che si ha quando la mente viene
liberata per far spazio a idee e azioni suggerite dall’esterno. Le esperienze
filmiche più profonde possono essere ipnotiche solo in senso metaforico:
noi non potremmo mai entrare in un film, mischiarci con i personaggi o
partecipare delle loro situazioni, non più di quanto il protagonista del film
di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo possa abbandonare lo schermo
e unirsi a noi.
Hai scritto che chi ha perfezionato, in breve tempo, lo stile cinematografico deve aver pensato, più o meno consciamente, al funzionamento del
cervello umano.
Quando l’ho scritto, pensavo a due aspetti in particolare. Il più semplice
dei due ha a che fare con la prospettiva visuale: nella realtà, noi “inquadriamo” le scene in modo diverso sulla base della posizione in cui ci troviamo
rispetto alle altre persone e agli oggetti che osserviamo. I pionieri del cinema,
quelli che hanno pensato a campi lunghi e primi piani, al campo-controcampo, a plongées e contre-plongées, o alla carrellata, sono riusciti a catturare
questo aspetto elementare ma decisivo della nostra relazione con la realtà
in modo rapido ed efficiente, con immediatezza ed economia espressiva.
Il secondo aspetto, quello più complesso, riguarda il montaggio. Chi
vi ha lavorato, rendendolo sempre più articolato e funzionale, fino a farne
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l’elemento più tipico dell’arte cinematografica, doveva aver presente, non
so appunto quanto consciamente, il ritmo e il passaggio delle immagini
che, in continuo, ha luogo nelle nostre menti e che ci mette nelle condizioni di costruirci da una parte una narrazione del mondo in cui viviamo e
che esperiamo ogni giorno, e dall’altra una narrazione dei nostri ricordi. Il
colpo di genio è stato quello di riprodurre, nella sostanza, un tale processo
e utilizzarlo per raccontare le vite degli altri, dando forma al cinema così
come lo conosciamo.
Ci sono diversi tipi di montaggio, che presuppongono forme di relazione
diverse tra lo spettatore e il film, idee di cinema spesso lontane e che naturalmente hanno un impatto differente sui nostri sensi e sulla nostra capacità
di processare le informazioni offerte dal film. Walter Murch ritiene sorprendente che gli spettatori, così abituati a esperire la realtà in continuità, si
siano immediatamente adattati al montaggio e all’illusoria trasparenza e
continuità che crea. Che effetti può avere sullo spettatore un tipo di montaggio fortemente espressivo che ricerca esplicitamente la discontinuità?
Per quanto sorprendente possa apparire, forme di montaggio come quelle
proposte ad esempio da Ejzenštejn, penso al cosiddetto “montaggio intellettuale”, sono molto facilmente accettate dalla nostra mente in quanto forme
narrative. Sebbene certe costanti e aspettative siano violate o contraddette da
questi tipi di montaggio, la logica narrativa viene colta tranquillamente. Anzi,
direi che la nostra mente lavora in modo più simile a quello che potremmo
definire un “montaggio intellettuale” che non a forme di montaggio classico
o continuo. Penso che alcuni tra i primi film di Alain Resnais siano molto
significativi da questo punto di vista. Davvero si può dire che il montaggio,
comunque lo si intenda, ha qualcosa del funzionamento della nostra mente.
Se dovessi fare il nome di un autore che incarna, in qualche modo, le tue
idee su cognizione ed emozione cinematografiche, chi diresti?
Questa è la domanda più difficile e con molta fatica potrei individuare
alcuni registi, il cui lavoro corrisponde molto spesso a ciò che penso della
relazione tra le nostre menti, il nostro cervello e il cinema. Ad essere onesti,
devo dire che in più di un’occasione penso che il loro lavoro abbia ispirato
certe mie idee sulla coscienza e non possa esserne dunque considerato solo
una semplice illustrazione. Inoltre, questi sono gli autori le cui opere mi
hanno sempre coinvolto e affascinato anche al di là dei loro difetti o di certi
limiti. In ordine cronologico, questi registi sono anzitutto Alfred Hitchcock,
Orson Welles e Woody Allen. Sento però di dover aggiungere Alain Resnais,
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perlomeno con alcuni dei suoi primi film, ma sto lasciando fuori così tanti
autori e film che ammiro che la cosa diventa imbarazzante... Il linguaggio
cinematografico di Hitchcock è diretto ed economico e teso ad un unico
obiettivo: portare la mente dello spettatore a risuonare con una situazione
emozionalmente forte. Hitchcock è un amabile sadico e crea situazioni
in cui il personaggio soffre e lo spettatore, come posseduto da una vera
Schadenfreude, soffre e gode di quelle situazioni. Le emozioni chiave per
Hitchcock sono la paura e il senso di colpa, cui corrisponde poi il sollievo.
La situazione in sé non è così importante: quasi tutto può andare, purché
funzioni. L’inquadratura può mostrarci che cosa vede un personaggio, o
come i volti degli altri personaggi reagiscono a ciò che vede quel personaggio, oppure in che cosa consiste una visione da una prospettiva impossibile.
Il suo primo obiettivo è la chiarezza del messaggio (con la sola eccezione
di alcune scene che contengono significati sessuali, su cui Hitchcock può
permettersi di indugiare quando ha interpreti come Ingrid Bergman, Grace
Kelly, Eva Marie Saint e naturalmente Cary Grant; sono scene molto audaci e in anticipo sui tempi, soprattutto se le si considera ad una seconda o
terza visione). Ciò che colpisce, però, è come questa esigenza di chiarezza
comunicativa, questa tendenza al “comunicato” breve e diretto, non solo
non riduca per lo spettatore la qualità dell’atmosfera tipica dei suoi film,
ma addirittura ne aumenti il livello e l’efficacia narrativa.
Nonostante il suo stile sia più ricercato, anche Welles appare ugualmente
attento all’economia della narrazione, per quanto la sua prima preoccupazione sembri essere quella di mettere lo spettatore nella condizione di
giudicare i personaggi, le loro azioni e di arrivare a conclusioni di rilievo
sociale, politico, etico. Sono obiettivi che spesso raggiunge, in alcuni casi
con veri e propri trucchi da illusionista (quale in fondo era), talora temperati
dall’influenza culturale di uno dei suoi grandi modelli, William Shakespeare.
Se dovessi fare qualche titolo che serva a dare l’idea del perché ho scelto
Orson Welles, direi Quarto potere, L’infernale Quinlan e Falstaff. Il cinema
di Welles poi mi ha sempre interessato per l’uso particolare che vi si fa del
montaggio e per la capacità di questo autore (piuttosto privo di disciplina
e spesso costretto a fronteggiare limitazioni tecniche ed economiche) di
costruire storie e personaggi al tavolo di montaggio.
Nelle sue rappresentazioni dell’umano flusso di coscienza, Alain Resnais
si avvicina alla realtà come nessun altro nell’arte del cinema. Da questo
punto di vista, probabilmente L’anno scorso a Marienbad è il suo risultato
migliore, insieme a Hiroshima mon amour e a Muriel. Che questo tipo di
poetica e questa idea di rappresentazione siano da riconoscere interamente
a Resnais è dimostrato dal fatto che i tre film hanno sceneggiatori diversi.
Woody Allen, infine, lo considero come un autentico scrittore che ha
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avuto il coraggio di misurarsi con un medium visivo, fatto di immagini, e
che pure ha saputo portare a livelli vicini alla perfezione. Allen è un esperto
degli “a parte” e delle interpellazioni dirette allo spettatore, vecchie trovate
teatrali che pochi registi cinematografici sanno usare con efficacia. D’altro
canto gli “a parte” e certe forme di interpellazione sono elementi centrali
nelle nostre personali forme interiori di narrativa.
In questi ultimi anni, i rapporti tra cinema e neuroscienze si sono molto
intensificati: diversi neuroscienziati, a cominciare da un “pioniere” come
Uri Hasson, hanno cominciato a lavorare regolarmente sul cinema, e la
teoria del film è stata disposta ad accogliere spunti di riflessione che provenivano da dati e scoperte neuroscientifiche. Abbiamo assistito alla nascita
di neologismi come “neurocinematics”, “psychocinematics”, “neurofilmology”. Che cosa pensi di questo filone di studi?
I film non penso che abbiano bisogno dell’aiuto delle neuroscienze per
essere quello che sono, ma gli studi sul cinema possono senza dubbio servirsi
delle neuroscienze e trarre qualche vantaggio dal loro utilizzo. C’è molto
da imparare sull’esperienza umana da studi come quelli che avete citato di
Uri Hasson, che peraltro sono in relazione con ricerche che anche il nostro
gruppo di ricerca porta avanti da qualche tempo. Per molti anni abbiamo
provato a comprendere aspetti rilevanti per questi problemi, studiando, ad
esempio, come la visione e il suono sono integrati nel cervello umano, in
lavori dedicati all’integrazione di informazioni tra le aree uditive, visive,
somatosensoriali e motorie, sul tipo di integrazione che interviene nella
rappresentazione degli oggetti, sulla correlazione tra il vedere stimoli tattili
e l’attività della corteccia somatosensoriale primaria, su come l’osservazione di stimoli visivi muti, ma che sottendono un suono, abbiano effetto
sull’attività della corteccia uditiva, su come il nostro cervello rappresenta la
realtà esterna così da poterla rendere percepibile nella forma di immagine
mentale. Si tratta di un dialogo complesso e cominciato da poco, ma che
vale la pena protrarre per vedere che cosa ci può portare.
Testi citati durante la conversazione
DAMASIO A., Emozione e coscienza, tr. it., Adelphi, Milano 2000; ID.,
Cinéma, esprit, émotion: la perspective du cerveau, in “Trafic”, n. 67 (2008);
ID., Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, tr. it.,
Adelphi, Milano 2012; HASSON U., LANDESMAN O., KNAPPMEyER
B., VALLINES I., RUBIN N., HEEGER D.J., Neurocinematics: the Neuroscience of Film, in “Projections”, n. 1 (2008); MURCH W., In un batter
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d’occhi. Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale,
tr. it., Lindau, Torino 2000.
Film citati durante la conversazione
Quarto potere (Welles, 1941); Viale del tramonto (Wilder, 1950); L’infernale Quinlan (Welles, 1958); Hiroshima mon amour (Resnais, 1959); L’anno
scorso a Marienbad (Resnais, 1961); Muriel, il tempo di un ritorno (Resnais,
1963); Falstaff (Welles, 1965); La rosa purpurea del Cairo (Allen, 1985).
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