NUOVI ANNALI - 2010
Valentina Ferrari
La croce astile capitolare detta “di san Carlo”
custodita nel tesoro del Duomo di Milano
Analisi iconografica, stilistica, liturgica e conservativa
Appartenente alla tipologia descritta da san Carlo
Borromeo nelle sue “Instructionum Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae Libri Duo” 1, la croce2 detta
“di san Carlo” ha una forma pressochè quadrangolare3, con i bracci patenti terminanti ciascuno in
due volute laterali e una potenza quadrilobata al
centro (figg. 1-2).
Un recente restauro4 (2003) della Croce Capitolare
ha permesso di approfondire le conoscenze tecnicostrutturali di questo prezioso oggetto. L’anima lignea5
è completamente rivestita da lamine d’oro lavorate
con le tecniche dello sbalzo e del cesello che, unitamente all’utilizzo della brunitura – lucidatura con
pietra d’agata a diverse intensità –, denotano una
grande maestria e una ricercata raffinatezza dell’opera. Lungo i bordi delle lamine sono presenti
punzonature con ferro a forma di foglia6. Le figure
sono sbalzate, il Cristo è in fusione. Il nodo è realizzato in oro mentre l’asta – utilizzata nelle processioni solenni – è in argento e argento dorato.
Nella sua apparente semplicità ed eleganza, la croce
presenta un programma decorativo complesso e
meditato.
Le fasce che decorano i bordi laterali dell’oggetto presentano le medesime lavorazioni, segno inequivo-
(1) C. BORROMEO, Instructionum Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae Libri Duo, S. Della Torre, M. Marinelli, F. Adorni (a
cura di), Città del Vaticano, 2000, pp. 304-307; M. L. GATTI
PERER, Instructionum Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae
Libri Duo, parte seconda Regulae et instructiones de nitore et
munditia ecclesiarum, altarium, sacrorum locorum, et supellectilis ecclesiasticae, traduzione italiana a cura di Z. Grosselli,
Milano, 1983, pp. 113-115. Descrivendo la forma adatta a
questa immagine sacra San Carlo dà le seguenti indicazioni:
“La croce, che si collocherà o sopra l’altar maggiore, o sopra
il tabernacolo dell’Eucaristia, sarà di forma pressoché quadrangolare, con la parte inferiore un po’ più prolungata e terminante
con un’appendice tubolare, in modo da poter facilmente essere
rimossa dalla sua base in occasione delle processioni o di
altri uffici per cui ciò sia necessario. La grandezza della croce
sarà ben proporzionata alle dimensioni e al decoro dell’altare.
Nella Basilica Cattedrale e nella chiesa Collegiata la croce dell’altar maggiore sarà laminata d’oro o (in caso di minori disponibilità economiche) d’argento: questa sarà usata nelle solennità
e negli uffici; una seconda croce, di ottone dorato, convenientemente lavorata, si userà negli altri giorni. [ ...] La croce
capitolare o quella che si porta nelle processioni, nei funerali
e in altri riti e funzioni per tradizione, avrà un’asta ben solida
e convenientemente dipinta, su cui essa si innesti saldamente.”
In particolare il Santo vescovo prevede il mantenimento dell’uso di una piccola croce quadrata “alta e larga due cubiti o
poco più” con una corta impugnatura dove è tradizione come,
per esempio, nella Chiesa ambrosiana.
(2) La Croce astile Capitolare detta “di San Carlo” e la Croce
astile Stazionale dell’altare maggiore: due capolavori di oreficeria custoditi nel Duomo di Milano. Analisi iconografica,
liturgica, conservativa e storico-artistica. Tesi della Scuola
Specializzazione in Storia dell’Arte indirizzo in Storia dell’arte medievale e moderna discussa il 17 novembre 2010
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Relatore Chiar. ma Prof. ssa Annalisa Zanni – Correlatore
Chiar. mo Prof. Enrico Mazza. Questo saggio è un estratto
della tesi di Specializzazione in Storia dell’Arte che ha preso
in considerazione l’analisi iconografica, liturgica, storico-artistica e conservativa della Croce Astile Capitolare detta “di san
Carlo” e della Croce Astile Stazionale dell’altare maggiore
del Duomo di Milano. In questa sede si parlerà diffusamente
dell’oreficeria legata al Santo Arcivescovo riservando ad un successivo intervento lo studio dell’interessante Croce Stazionale.
La ricerca è iniziata con un’analisi approfondita da un punto
di vista dell’iconografia e dei materiali supportata da una campagna fotografica ricca di dettagli per consentire importanti confronti decorativi e stilistici.
(3) Misure: h. cm. 120 – con il puntale cm. 235 – x l. cm. 91
x p. cm. 4
(4) S. ANGELUCCI, Il Restauro della Croce Capitolare del Duomo
di Milano, relazione e scheda di restauro, Archivio Corrente
del Capitolo Metropolitano, Milano
(5) Il legno sagomato si presenta di varie essenze con lamelle
di piccole dimensioni unite ad incastro e fissate con colla
animale. I bracci sono uniti mediante due lastre di ferro avvitate.
Anche il puntale è fissato alla croce con il medesimo sistema
(S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro,
punto n. 16).
(6) S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro,
punto n. 14
143
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
Fig. 1.
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Fig. 2.
145
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
cabile dell’uniformità del lavoro del maestro. Al
centro è posta una treccia cui sono accostate ai lati
due bande lisce. All’esterno, con una leggera inclinazione verso l’alto, corrono due fasce a foglia dorica7
e un ulteriore raccordo con l’interno delle lamine dei
bracci dove è presente una profilatura a “ovuli e
freccette”8. La chiusura dei bordi nei riccioli delle
volute terminali è realizzata con l’inserimento di
una foglia di acanto distesa: sembra che l’orafo abbia
voluto mostrare non solo la sua perizia tecnica ma
soprattutto la conoscenza specifica, approfondita,
rigorosa dell’arte greco-romana aggiornata sul gusto
del Rinascimento. Nelle otto placchette delle potenze
quadrilobe, oltre ai motivi ornamentali finora
descritti, è presente anche un profilo a palmette o
conchiglie cesellate per evidenziare ancor di più le
figure rispetto al piano d’appoggio. Sul recto l’ovale
all’incrocio dei bracci è ulteriormente sottolineato
da un elemento a cordone (assente, invece, nella
corrispondente placchetta del verso). Le lamine
interne dei bracci di entrambe le facce sono lavorate
a ferro zigrino che dà l’effetto di una fitta puntinatura satinata per far risaltare il disegno a motivi
ornamentali lucidi.
Le lamine del recto della croce mostrano un programma iconografico incentrato sui simboli della
Passione di Cristo: tutti uniformemente guarniti con
fiocchi e nastri sono collocati negli ovali ricavati
da una concatenazione intrecciata di foglie d’acanto
lucide con steli a lavorazione pointillée.
La placchetta ovale (fig. 3) all’incrocio delle aste
presenta una veste connessa ad un lungo nastro che
si snoda in complesse volute e alla sommità si
amplifica in un ricco fiocco. Eccezionale è la resa
del tessuto realizzata attraverso un trattamento particolare della lamina d’oro che rende visibile
l’intreccio di trama e ordito tanto da sembrare tela
di lino o canapa: nessuna cucitura è presente tranne
nello scollo a V sottolineato da una bordura liscia che
è ripresa anche nell’orlo delle maniche. Questo
indumento è identificabile con il “colobium”, la
lunga tunica9 inconsutilis che Gesù indossa durante
Fig. 3.
la Passione, da cui è spogliato prima della Crocifissione10 e che diventerà in seguito una reliquia11.
Iconografia Cristiana, Bologna, 1964, p. 88; G. HEINZ-MOHR,
Lessico di iconografia cristiana, Milano, 1984, pp. 268-269 e
pp. 348-349; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, Roma,
1995, p. 231; J. HALL, Dizionario dei soggetti e dei simboli
nell’arte, Milano, 1974, p. 122
(10) L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 471-472
(11) “I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le
sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e
la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un
pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”. Così si adempiva la
Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica
han gettato la sorte.” (Gv, 19, 23-24) (La sacra Bibbia, Torino,
1993, p. 1155) Tutti e quattro gli Evangelisti ricordano questo
episodio, ma mentre tre (Mt 27,35 – Mc 15,24 – Lc 23,34) ne
riferiscono indirettamente, Giovanni ne parla in modo diffuso
e dettagliato, precisando anche in quante parti divisero le sue
vesti: in quattro, per assegnarne una a ciascuno. Tirano a sorte
solo la tunica che non dividono come fanno con le altre.
L’Evangelista ne spiega il motivo: quella tunica era senza
cuciture, tessuta per intero dall’alto in basso, tutta d’un pezzo
e non sarebbero riusciti ad avere ciascuno una porzione senza
stracciarla. Appunto per evitare questo, preferirono sorteggiarla così che toccasse ad uno solo. La testimonianza profetica (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p.
348) concorda perfettamente con la narrazione dell’Evangelista
Giovanni, come questi del resto sottolinea, aggiungendo:
(7) Cymatium doricum; G. ROCCO, Guida alla Lettura degli
ordini architettonici Antichi. Il Dorico, Napoli, 1994, vol. I, p.
24
(8) Cymatium ionicum; cit. nota 7
(9) L. CLOQUET, Eléments d’iconographie chrétienne, Lille,
1890, pp. 50-51; G. FERGUSON, Signs & Symbols in Christian
Art, New York, 1954, p. 319; L. RÉAU, Iconographie de l’art
chrétien, Paris, 1957, tomo II Iconographie de la Bible, vol. II
Nouveau Testament, pp. 15/497-498; R. FARIOLI, Elementi di
000
NUOVI ANNALI - 2010
Nel braccio verticale, dall’alto verso il basso lungo
un nastro cui sono legati da fiocchi e intrecciati con
ramificazioni vegetali, sono stati collocati (fig. 4): la
scala12, il guanto13, la lancia incrociata all’asta con
la spugna14, una preziosa ampolla15. Le lamine del
“Perché si adempisse la Scrittura: Si divisero tra loro i miei
vestiti e sulla mia tunica hanno tirato a sorte” (Ps 22 (21),19:
“Si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte”) (La
sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 584).
(12) Una tradizione dei Padri della Chiesa vede nella scala che
sale al Cielo la stessa Croce di Cristo per l’antica simbologia
di un’asse perpendicolare che unisce il cielo e la terra (G.
HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 307),
esaltandone la funzione di veicolo dell’ascesi mistica (M. BATTISTINI, Simboli e allegorie, Milano, 2002 (rist. 2003), p. 238).
La presenza di questa immagine rimanda al momento della
deposizione di Cristo dalla Croce compiuta da Nicodemo e
Giuseppe d’Arimatea (Mc, 15, 46) (La sacra Bibbia, cit. nota
11, p. 1095).
(13) Simile a quelli dei centurioni romani con lamine di metallo
chiodate per ripararsi dalle percosse e nello stesso tempo
colpire con maggiore violenza: allusione (G. FERGUSON, Signs
& Symbols..., cit. nota 9, pp. 65-66; G. HEINZ-MOHR, Lessico
di iconografia..., cit. nota 9, p. 268; E. URECH, Dizionario dei
simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 253) all’episodio verificatosi dopo l’arresto
di Gesù oggetto di derisione (J. HALL, Dizionario dei soggetti...,
cit. nota 9, pp. 192-193), sputi, scherni, schiaffi e percosse (Mt,
26, 67 – Mc, 14, 65 – Lc 22, 63) (La sacra Bibbia, cit. nota 11,
pp. 1071/1093/1127).
(14) Sotto le gambe del Nazareno sono raffigurate, entro la
cornice di foglie d’acanto, l’asta con la spugna sulla parte terminale e la lancia, unite al centro da un fiocco, entrambe utilizzate negli ultimi momenti della Passione da due soldati
romani identificati secondo la tradizione degli Acta Pilati:
Stephaton ha offerto a Gesù la spugna (G. FERGUSON, Signs &
Symbols..., cit. nota 9, p. 322) imbevuta nell’aceto mentre
Longino gli ha perforato il costato con una lancia per constatarne la morte (L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 496; G.
HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 193194/268; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota
9, p. 239; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp.
122/241; G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 316;
L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino del Cristo ferito, Roma,
1995, pp. 117-128). Ecco cosa ci riporta il Vangelo di Giovanni
(Gv., 19, 28-37): “Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa
era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura:
“Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una
spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse:
“Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò.” La profezia
del salmo 69 (68), 22 si è così compiuta: “Invece hanno messo
fiele nel mio cibo, per la mia sete mi hanno dato aceto” (La sacra
Bibbia, cit. nota 11, p. 607). E ancora: “Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce
durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato),
chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero
Fig. 4.
braccio orizzontale (fig. 1) partendo dalla sinistra
dell’osservatore presentano due flagelli annodati da
portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al
primo e poi all’altro che era stato crocifisso insieme con lui.
Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli
spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con
la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà
testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice
il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne
perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun
osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno
lo sguardo a colui che hanno trafitto.” (Gv, 19, 31-37) (La
sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 1156). Il Cristo Crocifisso è assimilato all’agnello pasquale a cui non si dovevano spezzare le
gambe (L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 495).
(15) Questo elemento potrebbe riferirsi sia alla deposizione dalla
croce in cui spesso si trovano Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo
con un vaso di profumo, una mistura di mirra e aloe per la
preservazione del sacro corpo (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 136), sia alla deposizione nel sepolcro in
cui le tre Marie “mirrofore” utilizzano balsami contenuti in
ampolle (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota
9, p. 346; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p.
411).
000
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
che ebbe Papa Gregorio Magno25. Il maestro orafo ha
volutamente dato risalto al valore della Croce e degli
emblemi26 di Gesù per sottolineare l’importanza del
sacrificio di Cristo che è evidenziato anche dalla
presenza dei nastri e dei fiocchi: un riferimento
classico alle bende svolazzanti che rimandano al
rito sacrificale27. Luso ornamentale si è diffuso soprattutto nella grande stagione della riscoperta del Classicismo Greco-Romano28, in particolare nelle arti
decorative29.
un nastro svolazzante16, i chiodi17 utilizzati per fissare
Cristo ai legni della croce, il martello18 per inchiodare
il Nazareno alla croce insieme alle tenaglie19 per
estrarre i chiodi dal corpo durante la Deposizione e
infine le fiaccole intersecate quale riferimento20 al
tradimento di Giuda21 o al momento in cui Gesù
esalava l’ultimo respiro22.
Tutti questi simboli costituiscono le cosiddette “Armi
della Passione23”, che da strumenti di supplizio
diventano, dopo la Resurrezione, trofei di Vittoria.
La consuetudine di raffigurare gli elementi della
Passione trae probabilmente origine dalla cosidegorio24, una scena in auge nel XV secolo che rappresenta, secondo la tradizione, la visione miracolosa
(25) La leggenda ci narra di un uomo che metteva in dubbio
il fatto che Cristo fosse realmente presente sull’altare mentre
si celebrava, così Gregorio pregò ardentemente affinché Cristo
comparisse durante la messa. Appena il santo finì la preghiera,
Cristo apparve sull’altare con gli strumenti della Passione. A
questa tradizione si ispirerebbero le immagini e le opere d’arte
che ripropongono tutti questi simboli. L’araldica se ne è appropriata: al Signaculum Domini, vero blasone con le cinque
piaghe del Salvatore, nel XIII secolo si aggiunge un raggruppamento degli strumenti della Passione di Gesù riuniti in
trofeo e disposti nel campo di uno scudo. Queste composizioni ieratiche sono state chiamate Stemma della Passione,
Armi o Blasone di Gesù Cristo. All’inizio erano solitamente
raffigurati la croce, la corona di spine, la colonna e le verghe
della flagellazione, i chiodi, la spugna e la lancia. Nel XV
secolo si aggiungono i trenta denari di Giuda, il servo del pontefice Malco e il suo orecchio attaccato al coltello di san Pietro,
il gallo del rinnegamento, una testa che sputa, una mano che
schiaffeggia il volto di Cristo, la colonna della flagellazione, la
lanterna dell’arresto nel Getsemani, le corde che lo legarono,
la brocca e il bacile usate da Pilato per lavarsi le mani, il velo
della Veronica, la veste senza cuciture e i dadi che servirono
a tirarla a sorte, il martello per piantare i chiodi, le tenaglie per
toglierli e la scala per la discesa di Cristo dalla croce (L. RÉAU,
Iconographie..., cit. nota 9, pp. 508-509; G. HEINZ-MOHR,
Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 267-269; L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota 14, pp. 145-148).
Talvolta, invece di essere raffigurati in gruppo, questi emblemi
sono separati da angeli o posti ciascuno su uno scudo (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota 14, p. 145).
(26) Questa iconografia la distingue dai programmi tematici che
solitamente si sviluppano nei bracci delle croci: mentre, infatti,
le raffigurazioni nelle potenze variano secondo la tradizione,
nelle lamine interne mancano alcuni simboli normalmente
presenti quali il titulus con il nome del condannato, il suppedaneum per appoggiare i piedi, il teschio di Adamo che sarebbe
stato sepolto sul Golgota e bagnato dal sangue di Cristo (L.
CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit. nota 9, pp. 66-67/73).
(27) P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, Torino,
2006, p. 127
(28) K. OBERHUBER, The works of Marcantonio Raimondi and
of his school, The illustrated Bartsch, nn. 26-27, New York,
1978; AA. VV., The engravings of Marcantonio Raimondi,
Lawrence (Kansas), 1984
(29) Nella miniatura, per esempio, si ornano le iniziali o le
cornici di pagine di codici di varie tipologie con passamanerie
(16) I flagelli, usati come metodo di punizione per i trasgressori
della legge e utilizzati anche durante il processo di Gesù, rientrano a pieno titolo tra gli strumenti della Passione (G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 321; G. HEINZ-MOHR,
Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 160-161/268; J. HALL,
Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 373)
(17) Sono tradizionalmente considerati delle reliquie molto
importanti. (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota
9, p. 268) Una leggenda medievale vuole che la Regina Elena
(J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 102), madre
di Costantino, ne sia venuta in possesso e li abbia custoditi.
Fino al XII secolo in alcune raffigurazioni se ne trovano quattro
(L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 480; G. HEINZ-MOHR,
Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 100; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 121). In genere, però, sono
ricordati in numero di tre (J. HALL, Dizionario dei soggetti...,
cit. nota 9, p. 102), due per gli avambracci e uno che tratteneva entrambi i piedi, soprattutto se raffigurati separatamente come strumenti della Passione perché evocativi della santissima Trinità (G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9,
p. 317).
(18) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp.
268-269; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota
9, p. 239
(19) Ibidem
(20) Possibili interpretazioni: la lanterna degli sgherri nel Getsemani o la lanterna di Malco spesso però rappresentata con
il suo orecchio ancora attaccato alla spada corta di Pietro (G.
HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 268)
(21) “Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle
guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là
con lanterne, torce e armi” (Gv, 18, 3) (La sacra Bibbia, cit. nota
11, p. 1153)
(22) “Si fece buio su tutta la terra” (Mc, 15, 33). (La sacra
Bibbia, cit. nota 11, p. 1094; E. URECH, Dizionario dei simboli
cristiani, cit. nota 9, p. 239)
(23) L. CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit. nota 9, p. 51;
L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 15
(24) L. CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit.nota 9, pp.
51-53; L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 508-509; J.
HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 382
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NUOVI ANNALI - 2010
Anche se di diversa tipologia, il celebre Reliquiario
del Libretto30 (1501) si presta al confronto per il
decorativismo antichizzante e per la presenza nello
scomparto centrale della parte frontale di un riquadro
con la raffigurazione a smalto degli strumenti della
Passione proprio dove erano collocate le reliquie.
Questa tradizione è assai rara ma se ne trova successiva traccia in due croci processionali seicentesche di area toscana, entrambe di autore ignoto: la
croce della Chiesa di Santa Maria a Ripa ad Empoli
(argento sbalzato, cesellato, inciso e parti in fusione,
cm. 55 x 36, 1624) e quella della Chiesa di Santa
Felicita a Firenze (argento sbalzato, cesellato, inciso
e parti in fusione, cm. 84,5 x 47, 1664). Entrambe
sono caratterizzate da terminali con formelle quadrilobe mistilinee, proposte sia all’incrocio dei bracci
sia ad un terzo dell’altezza del braccio verticale, in
corrispondenza dei piedi di Cristo; sul verso all’interno delle potenze sono raffigurati i simboli della
Passione. I due manufatti presentano elementi strutturali e decorativi mediati dal repertorio quattrocinquecentesco che le inseriscono all’interno di una
produzione arcaizzante documentata proprio dalle
croci processionali31.
La Croce Capitolare rientra in questo modello, del
quale costituisce un’interpretazione di grande qualità
sia da un punto di vista decorativo ma anche e
soprattutto stilistico. La resa dei particolari è di
fattura elevatissima e l’artista ha voluto mostrare
tutte le sue migliori capacità per una commissione
importante e di alta risonanza. L’annodarsi dei nastri
agli oggetti è ideale per dare il senso di tridimensionalità e il gioco di chiaroscuro, escogitato per fare
risaltare meglio le decorazioni, è realizzato grazie alla
lavorazione a ferro zigrino che solo un eccellente
orafo sarebbe riuscito ad utilizzare in modo così
fitto e preciso, sempre seguendo i contorni degli
oggetti per esaltarne le forme. Così, la scala posta in
tralice mostra i gradini alti e robusti, il guanto del
centurione sembra essere quello di un’armatura studiata dal vero tanto le lamelle chiodate, il risvolto e
l’attaccatura della manica sono precise. L’attenzione
rivolta alla veste di Gesù emerge nella resa quasi palpabile del tessuto e delle finiture. La lancia e la
spugna sono nascoste dalle gambe del Cristo ma
non per questo hanno ricevuto minore attenzione: la
lama è tagliente e la spugna ben imbevuta di aceto.
Il vaso degli unguenti è semplice nella forma ma
impreziosito da un basamento ben percepibile e dal
coperchio legato ad una catenella in metallo con
una splendida lavorazione a torchon. I flagelli sembrano vibrare nella loro ondulazione quasi che
abbiano appena colpito il corpo nudo del Cristo,
con i punzoni terminali appuntiti, mossi e rilucenti.
I tre chiodi emergono dal fondo della lamina leggermente sbalzata; la disposizione a raggiera dei tre
elementi singoli ma uniti grazie al nodo centrale
sottolinea l’idea della Trinità di Dio. L’attenzione
meticolosa nella realizzazione dei dettagli di martello
e tenaglie suggerisce il riferimento ai medesimi strumenti che l’orafo utilizza nel suo mestiere: sono riconoscibili, infatti, il martello da cesellatore e le
tenaglie per forgiare i metalli. È quasi una firma, una
sigla, un’indicazione precisa che il maestro ha voluto
dare per sottolineare il valore del suo operato ed
esaltare la categoria degli orefici. Le fiamme delle
fiaccole sembrano ardere e scintillare: grazie alla
lavorazione a puntinatura sono visibili i rami dei
fastelli e le singole lingue di fuoco che si alzano e
sfavillano ricreando così non solo il dettaglio ma
quasi il movimento stesso del fuoco. Questa particolare decorazione può trovare riscontri negli ornati
architettonici e nei fregi delle miniature. Un riferimento interessante a livello scultoreo si trova nel
Duomo di Piacenza, nelle paraste dell’altare Bagarotti. Lo scultore milanese Ambrogio Montevecchia32
realizza quest’opera su commissione del vescovo di
Bobbio, Battista Bagaroto, nel 1504. La composizione
prevede il Crocifisso con la Vergine e San Giovanni
Evangelista mentre sulle paraste sono scolpiti i
simboli della Passione annodati con fiocchi come in
come sostegni di diversi strumenti. L’utilizzo di fasce per sorreggere oggetti vari e in particolare le armi è riscontrabile in
ambiti e tematiche diversi. (AA. VV., The painted Page. Italian
Renaissance book illumination 1450-1550, London and Munich,
1994; Liturgia in figura. Codici liturgici rinascimentali della
Biblioteca Apostolica Vaticana, G. Morello – S. Maddalo (a
cura di), Roma, 1995)
(30) L. BECHERUCCI, Il Reliquiario del “Libretto”, in Il Museo
dell’Opera del Duomo a Firenze, L. Becherucci – G. Brunetti
(a cura di), voll. 2, Milano, 1969-1970, vol. II, scheda n. 21,
pp. 250-253
(31) Argenti fiorentini dal XV al XIX secolo. Tipologie e marchi,
D. L. Bemporad (a cura di), Firenze, 3 voll., 1993, in particolare
vol. II, scheda n. 100, pp. 158-160 e scheda n. 153, pp. 231233
(32) L. OZZOLA, Uno scultore lombardo del Rinascimento.
Ambrogio Montevecchi, in “Rassegna d’Arte”, anno XI, 1911,
pp. 175-176; G. AGOSTI, Bambaia e il classicismo lombardo,
Torino, 1990, p. 60 e p. 92 nota n. 56; V. ZANI, Ambrogio Montevecchia, scultore nel Duomo di Milano e per Battista Bagarotti, in “Nuovi Studi”, n. 7, anno IV, 1999, pp. 35-56
147
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
una candelabra33, stilema antichizzante portato in
auge tra Quattro e Cinquecento da scultori del calibro
di Bramante, Briosco, Amadeo e Bambaia. Interessante notare la stessa modalità di impostazione
ripresa anche nella nostra oreficeria tanto più che
l’artista è stato riconosciuto in un “Ambrosius de
Montevegia lapicida” di cui fanno menzione gli
Annali della Fabbrica del Duomo di Milano, identificato anche con un “Ambrosius de Montenegro”
cui si accenna nei registri del 1507 e 151834.
La decorazione della Croce Capitolare emerge ovviamente anche nelle figurazioni dell’incrocio dei bracci
e delle potenze che trasmettono l’energia e la fantasia dell’artista.
Al centro del recto della Croce, Cristo Crocifisso
emerge con potenza ed eleganza (fig. 5). La figura è
essa stessa disposta a forma di croce in una sorta di
abbraccio universale del Verbo Incarnato e Immolato
per la Salvezza Eterna: il simbolismo traspare dall’espressione regale, arrendevole al supplizio ma
serena e consapevole del sacrificio supremo. Il viso
rivolto a destra ormai esanime e dolcemente indirizzato per l’ultima volta verso lo sguardo affranto
della Madre, i capelli mossi e raggruppati a boccoli,
la barba corta e bipartita, gli occhi socchiusi, le
braccia tese e le gambe composte ed eleganti fanno
emergere con grazia un’attenzione precisa per
l’anatomia del corpo e i dettagli decorativi. Grande
rilevanza è data, infatti, alla resa dello sforzo fisico
e muscolare così preciso da far presupporre uno
studio “accademico” del nudo tanto che il drappo che
cinge le membra e ricade sulle gambe lascia percepire le articolazioni sottostanti. I pochi particolari
iconografici sono peculiari e meticolosamente realizzati: la corona di spine posta sul capo è molto
realistica ed efficace; il perizoma leggero, con il
bordo superiore di un tessuto più pesante orlato
nella parte inferiore, è raccolto sul fianco destro
creando un ritmo di plissettature e pieghe originale,
quasi un gioco di superficie.
Fig. 5.
Un confronto interessante emerge da alcune
miniature assegnate al corpus di opere di Giovanni
Giacomo Decio35, appartenente alla nota famiglia
di artisti lombardi che ha dato un notevole con(35) Per un approfondimento: G. BOLOGNA, Miniature Lombarde della Biblioteca Trivulziana, 2 voll., Milano, 1973-1974;
A. NOVASCONI, Le Miniature di Lodi, Lodi, 1976; AA. VV.,
Decio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXIII,
Roma, 1987, pp. 544-561; P. L. M ULAS , Un problema di
miniatura lombarda tra Quattro e Cinquecento, in B. F. e il
Maestro di Paolo e Daria. Un codice e un problema di miniatura
lombarda, L. Giordano (a cura di), Binasco, 1991, pp. 135-212;
S. PETTENATI, La miniatura, in Il Museo della Certosa di Pavia,
B. Fabjan, P. C. Marani (a cura di), Firenze, 1992, pp. 295-319;
R. MELLINI, I corali di Santa Maria Rossa di Crescenzago e la
miniatura lombarda rinascimentale, in “Paragone”, n.s. 5-67, 551-553-555, anno 1996, pp. 127-143; Grandi pittori per
Piccole Immagini nella Corte pontificia del ’500. I corali miniati
di San Pio V, S. Pettenati (a cura di), Alessandria, 1998; P. L.
MULAS, Aggiunte al catalogo giovanile di “Decius”, in “Artes”,
n. 10, anno 2002, pp. 5-20; P. L. MULAS, Decio Agostino,
Giacomo, Giovanni, Giovanni Antonio (de Desio, Detius, Decius),
in Dizionario Biografico dei Miniatori Italiani. Secoli IX –
(33) È possibile riferire un altro esempio: nella Chiesa di
Santo Spirito a Firenze Andrea Sansovino scolpisce nelle
paraste dell’altare del Sacramento i simboli della Passione,
anche in questo caso disposti come una candelabra e legati con
nastri (Altare de’ Corbinelli). (A. VENTURI, Storia dell’arte italiana, La scultura del Cinquecento, vol. X, Parte I, Milano,
1935, pp. 122-128)
(34) L. OZZOLA, Uno scultore lombardo del Rinascimento...,
cit. nota 32; V. ZANI, Ambrogio Montevecchia..., cit. nota 32,
nota n. 1, pp. 48-49
148
NUOVI ANNALI - 2010
tributo alla storia delle arti per quasi due secoli,
dalla metà del Quattrocento al Seicento inoltrato. Gli
anni intorno al 1530-1535 coincidono con le grandi
commissioni artistiche affidategli dalla corte o dall’entourage sforzeschi, in particolare le imprese più
impegnative dei corali di Vigevano e del messale di
Santa Maria della Scala. Il 17 luglio 1537 Giovanni
Giacomo Decio compare36 tra gli artisti illustri –
Agostino Busti detto il Bambaia, Cristoforo Lombardo, Cesare Cesariano, ecc. – chiamati a definire
la forma della porta del Duomo di Milano verso
Compedo37. Questa testimonianza è fondamentale per
comprendere l’importanza del Decio quale punto
di riferimento stilistico della Croce Capitolare. Egli
figura tra le personalità artistiche più importanti
assunte dalla Fabbrica del Duomo di Milano per
creare opere di alta qualità. Le sue miniature, i
disegni, gli schizzi realizzati in quest’epoca trovano
dei richiami nelle figure a sbalzo. Il massimo rappresentante del classicismo milanese di primo Cinquecento nel settore delle cosiddette arti congeneri38
si orienta verso modelli raffinati: da un lato, il repertorio ornamentale antichizzante di Antonio da Monza,
un miniatore di formazione tardoquattrocentesca,
dall’altro, il classicismo di Zenale e Bramantino,
recepito attraverso la declinazione ricercata e virtuosistica delle sculture39 del Bambaia con cui è stata
ipotizzata una collaborazione stretta, quasi che
proprio nell’ambito di questo scultore abbia mosso
i primi passi della sua carriera40. Inoltre un probabile viaggio a Roma, nel periodo di assenza documentata da Milano, ha sicuramente accentuato
questa propensione, riaccendendo gli interessi per
le incisioni della cerchia di Raffaello di cui emerge
il ricordo nelle miniature dei corali di Crescenzago
oltre che per le pagine miniate di Matteo da Milano,
delle quali si coglie un’eco nella produzione degli
anni trenta41.
E’ proprio in questo filone classicheggiante che si
inserisce il maestro che ha realizzato l’opera qui
Fig. 6.
presa in esame: non si può escludere un suggerimento
a livello di disegni o comunque un supporto tecnicostilistico del “Decius” data la sua familiarità con i
responsabili del cantiere della Cattedrale milanese.
Le corporature robuste, i panneggi morbidi contraddistinti da un’infinità di pieghe avvolgenti, la precisione dei dettagli, la caratterizzazione della psicologia dei personaggi risentono della formazione culturale e dei modelli più elevati data la preziosità e
l’importanza della commissione. Per quanto riguarda
la figura del Cristo, si possono citare diversi parallelismi con Crocifissioni miniate42 realizzate attorno
al 1531-33 per Francesco II Sforza: l’evangelistario
personale del duca e i quattro codici liturgici donati
alla Cattedrale di Vigevano (fig. 6). Ecco i punti in
XVI, M. Bollati (a cura di), Milano, 2004, pp. 194-196; P. L.
MULAS, Giovanni Giacomo Decio. Il miniatore dei corali di
Vigevano, Vigevano, 2009.
(36) Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine
fino al presente, vol. III (1481-1550), Milano, 1880, p. 265
(37) MULAS P. L., Giovanni Giacomo Decio..., cit. nota 35, p.
62
(38) Ibidem
(39) Ibidem, p. 47
(40) Ibidem, pp. 94-95
(41) Ibidem, p. 100
(42) Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, 1532-1533,
Paris, Musée du Louvre, Cabinet des dessins, RF 445 r; Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Messale Romano, 1533,
Vigevano, Museo del Tesoro del Duomo, s.s., f. 121 v; Giovanni
Giacomo Decio, Crocefissione, Messale Ambrosiano, 1535,
New York, The Pierpont Morgan Library, M 377, f. 59 v; Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Missale Romanum,
Venezia, Gerolamo Scotto, 1543, [8], f. 139 v.
149
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
comune: l’anatomia del corpo studiata attentamente,
l’espressività del viso e la sua inclinazione, il
perizoma leggero e increspato.
Dalla cultura artistica coeva si rintracciano in ogni
figurazione spunti e suggestioni evidenti nell’accurata precisione e meticolosità di realizzazione
sinonimo di fantasia inventiva oltre che di bravura
tecnica.
Nella potenza superiore del braccio verticale del
recto è presente il Pellicano che nutre i suoi piccoli
deposti entro un bellissimo cesto intrecciato (fig.
7). Questo uccello compie un gesto molto particolare
per saziare i suoi piccoli: curva il becco verso la
sua parte destra43 per estrarre i pesci dalla borsa
posta sotto la gola, dando così l’errata impressione
di strapparsi il petto per sfamare i suoi nati con il
proprio sangue tanto da diventare immagine della
carità44. Si illustrano così le parole del salmo 102
(101), 7, “Similis factus sum pelicano45”: il Pellicano
che si squarcia il petto per nutrire col proprio sangue
i suoi piccoli affamati diventa l’emblema di Gesù
Crocifisso46 che versa il proprio sangue per salvare
l’umanità47. Bellissimo l’incontro dei becchi dei
piccoli – simbolicamente in numero di tre – con
quello del genitore quasi a voler indicare ancora
una volta la presenza di un’unica essenza in tre
Persone divine. Alcuni chiodini agganciano alla
Fig. 7.
(43) L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo. La misteriosa emblematica di Gesù Cristo, 2 voll., Roma,1994, in particolare vol. II, pp. 134- 137
(44) L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 491-492; J.
HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 125/323; L.
CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol.
II, p. 124 e pp. 132-133. Infatti, già nel più antico bestiario
(L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43,
vol. II, pp. 124-130), il “Physiologus” (II-IV secolo), si dice
che il Pellicano ami moltissimo i suoi piccoli. Questi, tuttavia, non appena sono cresciuti, colpiscono al volto i loro
genitori che allora li picchiano e li uccidono. In seguito però
provando compassione piangono i figli per tre giorni. Il terzo
giorno la madre si percuote il costato ed il suo sangue, effondendosi sui corpi dei piccoli morti, li riporta in vita. (L.
CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit. nota 9, p. 57; J. HALL,
Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 125; L. CHARBONNEAULASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol. II, pp. 124125).
(45) La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 622
(46) L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit.
nota 43, vol. II, pp. 126-127; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 279; E. URECH, Dizionario dei simboli
cristiani, cit. nota 9, pp. 68/203-204; J. HALL, Dizionario dei
soggetti..., cit. nota 9, p. 323
(47) L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit.
nota 43, vol. II, pp. 130-131
Fig. 8.
lamina il gruppo sbalzato e cesellato magnificamente: le piume sono incise e lavorate una ad una
distinguendole così dal piumaggio del corpo più
compatto. Un capolavoro è la resa dell’intreccio del
cesto con ramoscelli disposti in sequenza regolare
e sagomati in modo da creare un bordo esterno
decorato a onde.
Nella posizione corrispondente alla base del braccio
verticale del recto della Croce, la potenza presenta
la figura di sant’Ambrogio (fig. 8). Il Santo vescovo,
uno dei quattro dottori della Chiesa occidentale,
ebbe un ruolo importante nella lotta contro
150
NUOVI ANNALI - 2010
l’arianesimo48, cui allude il flagello a tre code49 – riferimento evocativo della Trinità – che costituisce il
dettaglio iconografico di riconoscimento, oltre alla
mitria e ad un libro50. La sua presenza è giustificata
dalla devozione che il Santo ha sempre ricevuto nei
secoli assurgendo a patrono della stessa città di
Milano. L’importanza, la regalità, la virtù che sprigionano dalla sua figura sono l’emblema dell’eleganza e della ricercatezza, cifre paradigmatiche dell’artista. Il viso assorto e compiaciuto è coronato da
una splendida mitria decorata con ricami e pietre
preziose. I capelli, la barba folta e ondulata ne completano l’espressione rassicurante e possente. Sopra
alla veste di tessuto liscio porta una pianeta a
maniche corte di stoffa pesante, come lascia intuire
la lavorazione della lamina d’oro, arricchita da un colletto molto ampio, ricamato a rabeschi e orlato da
frange. Al centro del petto compare anche il pallio
con le croci. I dettagli iconografici non sono posizionati casualmente: il flagello – realizzato magnificamente tramite l’intreccio delle corde – è trattenuto con le prime tre dita della mano, ad indicare
l’azione di difesa del Mistero della Trinità, mentre
il libro, bloccato dalla mano sinistra del vescovo e
inserito tra il petto e il gomito leggermente rialzato,
crea un virtuosismo stilistico: la dalmatica viene
sollevata dando origine alle pieghe, con un realismo
raffinatissimo. Questa figura ricorda molto una
miniatura51 di Giovanni Giacomo Decio per il frontespizio dell’Epistolario donato dal Duca Francesco
II Sforza alla Cattedrale di Vigevano (fig. 9): la stessa
espressione del volto, la stessa mitria, la stessa
pianeta con un colletto squadrato e ricamato, il
pallio, lo scudiscio a tre corde che sembra in atto di
essere sferrato: un parallelo interessante, una coincidenza che rafforza l’ipotesi di una comunanza di
idee e progettualità degli artisti dell’entourage del
Duomo.
Le potenze del braccio orizzontale del recto presentano, come da tradizione, le figure più care a
Cristo partecipi alle fasi della Passione cui dedica
le estreme parole prima dell’esalazione dell’ultimo
respiro: la Vergine Maria e san Giovanni Evangelista
rispettivamente alla destra e alla sinistra del Salvatore.
Fig. 9.
Fig. 10.
La Madonna52, possente e maestosa, affranta dal
dolore, con il capo protetto da un leggero velo, rivolta
con lo sguardo verso il figlio sofferente, è in atteggiamento composto ed estatico con le mani giunte in
preghiera (fig. 10). Il viso tradisce una malinconia
e uno sconforto trattenuti in una calma interiore
consapevole del sacrificio necessario per un piano
superiore di cui anche Lei è parte integrante ed
essenziale. Questa particolare espressione ricorda il
disegno di Leonardo da Vinci conservato al Metro-
(48) G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 321
(49) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 161
(50) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 39/373
(51) Giovanni Giacomo Decio, Sant’Ambrogio, Epistolario,
1533, Vigevano, Museo del Tesoro del Duomo, s.s., f. 1 r
(52) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 122-123
151
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
Fig. 13.
e una profusione quasi eccessivi dei panneggi del
mantello cercano di rendere la volumetria e la plasticità di questa figura. An54 del “Decius” (fig. 6):
le corporature robuste emergono sotto l’inanellarsi
di pieghe, in una passione virtuosistica per i manti
che avvolgono il busto segnato dal ritmo delle plissettature. I drappeggi terminano poi nel punto
d’unione delle mani della Madonna a sottolineare
l’abilità della resa delle dita intrecciate. Anche
questo dettaglio può richiamare alla mente un
disegno di Leonardo: si tratta dello studio55 di mani
dell’apostolo Giovanni per il Cenacolo di Santa
Maria delle Grazie a Milano (fig. 12). In corrispondenza, sul lato opposto del braccio orizzontale, è
presentato san Giovanni Evangelista56 (fig. 13): raf-
Fig. 11.
(54) Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Messale Romano,
1533, Vigevano, Museo del Tesoro del Duomo, s.s., f. 121 v
(55) Leonardo da Vinci, Studio per le mani di San Giovanni nel
Cenacolo, 1495 circa, gessetto nero su carta bianca, 11.7 x 15.2
cm, n. 12543, Windsor Castle, Royal Library Collection
(56) “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto/del nostro pellicano, e questi fue/di su la croce al grande officio eletto” (D.
ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, canto XXV, vv. 112114). Il discepolo prediletto di Gesù (E. URECH, Dizionario
dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 119-121; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 207-208) colui che è
sempre al suo fianco (Giov., 13,23) che sale con Lui sul monte
della trasfigurazione, compare nella potenza alla sinistra di
Cristo facendo da corrispondente alla figura della Madonna per
richiamare l’episodio che li riguarda durante gli ultimi istanti
di vita del Salvatore (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota
9, pp. 122-123): “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto
Fig. 12.
politan Museum of Art di New York raffigurante la
testa della Vergine53 (fig. 11): la dolcezza dello
sguardo, gli occhi amorevoli ed estasiati, la bocca
socchiusa in un sospiro spezzato dal pianto si
ritrovano in questa piccola oreficeria che ne trasmette anche l’intensità dell’emozione. Un tripudio
(53) Leonardo da Vinci, Testa della Vergine, 1510 circa, matita
nera e rossa su carta, 203 x 156 mm., New York, Metropolitan
Museum of Art
152
NUOVI ANNALI - 2010
figurato come un giovane imberbe, aggraziato, con
il viso completamente rivolto al suo Maestro e gli
occhi pieni di lacrime – straordinario l’effetto di
una goccia di pianto che scende dall’occhio e della
guancia bagnata – , il discepolo prediletto si porta
alla bocca la mano destra velata mentre con la
sinistra aperta e tesa indica il cuore che, straziato,
non gli permette di parlare e quasi di respirare: si
tratta di un’iconografia diffusa in Lombardia57. Emozionante e coinvolgente questa figura ricorda, nell’espressione e nel gesto della mano che si porta al
petto, un altro ritratto psicologico di Leonardo: è
l’apostolo Filippo58 del Cenacolo (fig. 14). Bellissima
la resa della chioma di capelli lunghi e mossi che
animano l’immobilità dello sguardo fisso sul Crocifisso. La lavorazione a zigrino esalta i ricchi panneggi
del mantello bordato da due strisce lisce e terminante
con frange: i drappeggi mostrano l’abilità dell’orafo
nella ricerca della variatio continua tra i vari personaggi.
Anche il verso della Croce si presenta ricco di spunti
iconografici e simbolici.
Le foglie di acanto utilizzate nelle aste anteriori per
creare gli ovali di inserimento degli emblemi della
Passione costituiscono il trait d’union con il retro
della Croce, un vero tripudio di fiori. Nelle lamine
dei quattro bracci si ripete, infatti, uno schema che
vede il succedersi delle medesime concatenazioni
d’acanto del recto ma i fogliami sono arricchiti da germogli e fiori meravigliosamente riprodotti nei dettagli (fig. 15). Un grafismo evidente e raffinato emerge
in questi girali fioriti dove l’uso della zigrinatura
sottolinea ogni dettaglio donando lucentezza e
vivacità al disegno. In particolare questa sinusoide
Fig. 14.
a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco
tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel
momento il discepolo prese la sua casa.” (Giov., 19,26-27)
(57) La si trova nella Crocifissione miniata da Giovanni
Giacomo Decio nel Messale romano del Museo del Tesoro del
Duomo di Vigevano (f. 121 v) (MULAS P. L., Giovanni Giacomo
Decio..., cit. nota 35, pp. 162-167 scheda n. 26), nella
medesima scena miniata da Antonio da Monza nel Messale di
Alessandro VI Borgia per la messa di Natale (Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, Borg. Lat. 425, f. 38 v) (Liturgia
in figura..., cit. nota 29, pp. 251-256 scheda n. 59) oltre che
nella Crocefissione di Bramantino, oggi esposta a Milano
presso la Pinacoteca di Brera, dove sono conservati anche gli
affreschi degli Uomini d’arme di cui sembra essere ripreso
nell’Evangelista l’atteggiamento triste di Eraclio.
(58) Leonardo da Vinci, Studio per la testa di San Filippo nel
Cenacolo, 1495 circa, carboncino su carta bianca, 19.0 x 15.0
cm, n. 12551, Windsor Castle, Royal Library Collection
Fig. 15.
153
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
intrecciata propone la successione in simmetria
assiale di due rose a cinque petali affrontate e di un
fiore di cardo. All’esterno si intercalano degli arabeschi con boccioli a grappolo. L’utilizzo di queste
tipologie59 presenta un valore simbolico: dal punto
di vista prettamente cristiano la rosa a cinque petali
è l’immagine del sangue versato dal Crocifisso60
inteso sia come la coppa che lo raccoglie sia come
le cinque piaghe di Cristo.
Il cardo allude al riscatto dell’uomo attraverso il
supplizio della Passione61 di Gesù: con le sue spine
acuminate rimanda alle sofferenze realmente vissute
e patite nella vera carne e con vero sangue. Il Figlio
di Dio è il Cardo, cioè il cardine su cui si regge la
Chiesa, sola interprete della vera dottrina62. Le due
sinusoidi potrebbero rappresentare la doppia natura
del Cristo, divina e umana, riaffermata dal concilio
di Firenze nel 1441 – una persona in utraque natura
– tanto più che la Croce è il luogo sacro per eccellenza dove si è manifestata la duplice essenza del
Cristo63. I fiori a grappolo che si mostrano chiusi o
sbocciati potrebbero essere un’evoluzione dell’acanto
che proponeva diverse soluzioni con modifiche,
aggiunte e invenzioni cui possono riferirsi appunto
le nostre inflorescenze. All’interno di una continuità
di schemi formali e di un processo di “acantizzazione” che ha il suo archetipo nell’Ara Pacis
Augustae64, il racemo classico è naturalmente sopravvissuto alla scomparsa del paganesimo e impiegato
dal Cristianesimo con una chiave di lettura simbolica65. Con una visione così ampia anche i nostri
girali potrebbero sembrare lo sviluppo di un’unica
specie in cui possono anche comparire fiori a cespo
o a grappolo. Tanto più che nell’arte cristiana il
motivo dell’acanto sembrerebbe assumere un valore
contemporaneamente funerario e paradisiaco66. La
decorazione floreale sottolineancora una volta il
valore della Croce non solo come simbolo di morte
(63) Ibidem. Paradigmatico di questa idea è l’esemplare di
broccato italiano del XVI secolo che riporta all’interno del
fiore di cardo principale la Croce del Golgota. (C. RICCI, Arti
Decorative. Catalogo di stoffe antiche e moderne di Isabella
Errera, in “Rassegna d’arte”, anno VIII, n. 1, 1908, pp. 17-18)
(64) “Tralci [che] si sviluppano da grossi cespi d’acanto fino
a diventare vere e proprie strutture arboree, in un intrico di
sempre nuovi rami dove l’occhio si perde come in un labirinto.[...] Per quanto lussureggiante sia quel fiorire e quell’arrampicarsi, ogni voluta, anzi ogni singolo fiore e ogni singola
foglia hanno un posto preciso nell’insieme. Quella che dovrebbe
essere un’immagine simbolica della natura libera e rigogliosa
diventa così un’esemplare esibizione di ordine. [...] Una delle
novità è la combinazione di piante fantastiche e piante reali:
se vediamo dei grappoli d’uva, delle aracee o delle palmette
spuntare da rami d’acanto, o l’edera e l’alloro arrampicarsi tra
pesanti volute, se vediamo festoni carichi dei frutti più svariati,
tutto ciò allude ormai allo stato paradisiaco della nuova età.”
(P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, cit. nota 27, pp.
192-194)
(65) Così, per esempio, l’architrave del portale centrale della
Cattedrale di Spoleto presenta una composizione vegetale
come “albero della vita” della Genesi tradotto attraverso la
presenza di una croce issata in un cespo d’acanto che forma
l’asse di simmetria dei due girali, ripresa evidente dei modelli
romani. (G. SAURON, L’histoire végétalisée. Ornament et politique
à Rome, Paris, 2000, pp. 228-229)
(66) L. VANDI, La trasformazione del motivo dell’acanto dall’antichità al 1400, Bern, 2002, p. 93.
La cornice di foglie sta a simboleggiare la redenzione attraverso
la Risurrezione, perché nella mitologia antica l’acanto spinoso,
si muta in acanto senza spine. Adottato dalla tradizione cattolica
a difesa delle cripte e delle urne, custodi delle reliquie dei santi
ossia dei defunti in grazia di Dio accolti nella luce salvifica,
l’acanto diventa così anche simbolo di Resurrezione e di vita
eterna.
(59) L’individuazione dei fiori è, tuttavia, aperta a varianti che
hanno una loro valenza simbolica comunque riconducibile
alla Passione di Cristo: le rose a cinque petali potrebbero
essere identificate come narcisi simboleggianti l’annunciazione
del divino amore (R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, in
Seta. Potere e glamour. Tessuti e abiti dal Rinascimento al XX
secolo, R. Orsi Landini (a cura di), Cinisello Balsamo (MI), 2006,
p. 50) e simbolo della Resurrezione e della promessa di vita
eterna (H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei Simboli, Milano,
2001, p. 315; M. HEILMEYER, The language of flowers. Symbols
and Myths, Munich-London-New York, 2001, p. 62) oppure
margherite a dieci petali; il fiore centrale potrebbe essere una
sempreviva che – oltre a rappresentare un simbolo araldico della
casata sforzesca (Stemmario Trivulziano, C. Maspoli (a cura di),
Milano, 2000, pp. 38-39; C. BUSS, La sempreviva, in Seta, Oro,
Cremisi. Segreti e tecnologia alla corte dei Visconti e degli
Sforza, catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli,
29 ottobre 2009-21 febbraio 2010, C. Buss (a cura di), Cinisello Balsamo (MI), 2009, pp. 78-79) raffigurato, salvo qualche
eccezione, in numero di tre – alluderebbe alla vita eterna.
(60) H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei Simboli, cit. nota 59, p.
446. Già nell’antica Roma si tenevano le Rosalia o festa delle
rose, testimoniate fin dal I secolo d.C., che rientravano nel
culto dei morti e ricorrevano tra l’11 maggio e il 15 luglio; la
rosa è, inoltre, simbolo di rigenerazione e per questo venivano
portate sulle tombe degli avi, offerte ai Mani dei defunti. Ecate,
dea degli inferi, era talvolta rappresentata coronata di rose a
cinque petali: il cinque indica la fine di un ciclo (4) e l’inizio
di uno nuovo (4+1). Con l’avvento del cristianesimo la rosa è
coltivata perché le sue spine ricordano la Passione di Cristo,
poi passa al culto della Madonna, il cui cuore è raffigurato
trafitto da spine di rosa.
(61) Ibidem, p. 94
(62) R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, cit. nota 59, p. 51
154
NUOVI ANNALI - 2010
della morte, diventa il Lignum Vitae e produce i
dolci frutti della vita eterna68.
A livello decorativo, l’importante e fiorente produzione69 tessile milanese avrà contribuito a suggerire
questo tipo di intrecci come dimostra l’esemplare
conservato nel Museo del Duomo di Milano: un
damasco broccato della prima metà del Cinquecento70. L’uso di questa decorazione ornamentale è
testimoniata anche nella miniatura. La cornice più
esterna del f. 2v di un manoscritto che narra la Terza
Decade della Storia di Roma di Tito Livio71 è una
concatenazione di due ramificazioni vegetali arricchite da fiori, perle e gioielli formanti degli ovali al
cui interno sono inseriti emblemi araldici e raffigurazioni mitiche. Scritto da Messer Piero di Benedetto Strozzi a Firenze nel 1480-90 circa con
miniature attribuite a Gherardo di Giovanni di
Miniato72, questo frontespizio assicura una diffusione del modello a rabeschi con immagini interne
– simboli, armi, soggetti mitologici, ecc... – che
aiutano a collocare con maggior sicurezza la decorazione della Croce Capitolare che si inserisce a
buon diritto nella tradizione ornamentale più importante del Rinascimento italiano.
Nel verso, per quanto riguarda le figurazioni, all’intersezione delle aste posteriori della Croce, l’ovale
si presenta come una mandorla73 in cui compare la
maestosa figura di Dio Padre74 (fig. 16). Con i capelli
lisci ricadenti lungo le spalle, i baffi e la barba lunghissima leggermente divisa a metà – segno di forza,
coraggio e saggezza75 –, egli accenna ad un gesto di
ma anche e soprattutto quale immagine di Salvezza67.
Questa lettura iconografica indica, infatti, che il
legno della croce sboccia nella grande inflorescenza
della vita eterna, conquistata grazie alla Passione di
Cristo. L’albero della vita, asse del mondo e scala
cosmica per accedere a quello superiore, coincide
con la croce di Cristo: grazie al suo sangue, da albero
(67) Nel complesso, quindi, la lavorazione fa sì che il retro di
questa oreficeria possa essere considerato come un’allusione
all’albero della Croce di cui ci narrano delle vere e proprie
Aggadoth (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota
14, p. 24) cristiane – racconti della tradizione ebraica che
riassumono e attualizzano gli avvenimenti salvifici del passato
per interpretare la storia sacra sulla base dei libri della Bibbia
– che trattano della storia della croce. La Leggenda della Vera
Croce racconta la genesi del legno su cui venne crocifisso
Cristo, spesso tramandata in letteratura e rappresentata in
opere d’arte. La versione più nota è quella che fa parte della
Legenda Aurea di Jacopo da Varagine composta nel XIII secolo.
Il racconto comincia da Adamo che, prossimo a morire, mandò
il figlio Set in Paradiso per ottenere l’olio della misericordia
come viatico di morte serena. L’Arcangelo Michele invece gli
diede un ramoscello dell’albero della vita per collocarlo nella
bocca di Adamo al momento della sua sepoltura (o tre semi
secondo un’altra versione). Il ramo crebbe e l’albero venne
ritrovato da Re Salomone che, durante la costruzione del
Tempio di Gerusalemme, ordinò che venisse abbattuto ed utilizzato. Gli operai non riuscirono però a trovare una collocazione perché era sempre o troppo lungo o troppo corto e quando
lo si tagliava a misura giusta in realtà diveniva troppo corto tanto
da non poter essere utilizzato. Gli operai decisero così di gettarlo su un fiume, perché servisse da passerella. La Regina di
Saba, trovandosi a passare per il ponte riconobbe il legno e profetizzò il futuro utiliprofezia, decise di farlo sotterrare. A seguito
della condanna di Cristo la vecchia trave venne ritrovata dagli
israeliti e fu utilizzata per la costruzione della Croce. Da qui
la leggenda inizia a confondersi con la storia. Nel 312, la notte
prima della battaglia contro Massenzio, l’imperatore Costantino
I ha la mitica visione che porrà fine anche alle persecuzioni
dei Cristiani: una croce luminosa con la scritta “In hoc signo
vinces”. L’imperatore decise allora di utilizzare questo simbolo
come insegna ed il suo esercito vinse la battaglia di Ponte
Milvio. Costantino poi invia la madre Elena a Gerusalemme per
cercare la Croce della Crocefissione. Elena trova una persona
che conosce il punto della sepoltura della Vera Croce e, per farla
parlare, la fa calare in un pozzo senza pane ed acqua per sette
giorni: il reticente alla fine indica il luogo della sepoltura.
Vengono così recuperate le tre diverse croci utilizzate il giorno
della morte di Cristo. Per identificare la croce la madre dell’imperatore sfiora con il legno un defunto e questi resuscita.
Sant’Elena separa poi la croce in diverse parti di cui la principale viene lasciata a Gerusalemme. “In questa leggenda
l’albero-croce è il legame misterioso della tradizione spirituale che dal giardino dell’Eden arriva fino al luogo del cranio
di Adamo, il Golgota.” (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino...,
cit. nota 14, p. 24)
(68) R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, cit. nota 59, p. 50
(69) C. BUSS, Seta, oro e cremisi, in Seta, Oro, Cremisi..., cit. nota
59, pp. 44-61
(70) R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, cit. nota 59, p. 52:
questo esemplare presenta “infiorescenze a struttura simmetrica incentrate sulla pigna e sulla melagrana che alludono in
modo generico alla rinascita, alla vita eterna, ma anche alla fertilità. […] I riferimenti specifici alla Passione, come la rosa a
cinque petali, rimangono invece nell’iconografia tessile per
tessuti con chiara finalità liturgica.”
(71) Valencia, Biblioteca General de la Universidad, MS 384
(G.1314)
(72) AA. VV., The painted Page..., cit. nota 29, p. 160
(73) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp.
128-129
(74) La legge mosaica proibiva ogni raffigurazione di Dio (E.
URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 88) e a
questa prescrizione si attennero anche i primi dottori della
Chiesa. Dal Medioevo si imposta la tradizionale figura di
Vegliardo.
155
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
Fig. 2.
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NUOVI ANNALI - 2010
benedizione con la mano destra libera nello spazio
e proporzionata alla figura mentre con la sinistra,
quale “Signore del cielo”, sorregge il globo76, simbolo
della potenza creatrice e provvidenziale di Dio,
sovrastato da una croce con profili ribattuti per significare che è solo attraverso le sofferenze di Gesù
Cristo che gli uomini vengono salvati dalla malvagità dei Demoni e sottoposti all’autorità dell’amore
divino77. Rappresentato a mezzo busto, è sostenuto
da tre graziosi putti affioranti dalla nuvola della
veste che, ampia e soffice, crea delle sinuosità di
tessuto allusive ad una nube celeste: è un gioco
ricco di virtuosismi stilistici di alto livello artistico,
quasi precursore della creatività barocca. In questo
caso è possibile un confronto con una miniatura del
“Decius” presente nei corali di Crescenzago78, dove
ricorre la stessa iconografia e la stessa posizione
dei piedi appoggiati su teste di cherubini.
Nelle quattro potenze che lo circondano sono proposti, come da tradizione, gli Evangelisti79 raffigurati a mezzo busto con i rispettivi simboli e il
Vangelo allusivo alla loro opera di divulgazione: in
alto Giovanni con l’aquila80, a destra Luca con il
toro81, in basso Matteo con l’angelo82, a sinistra
Marco con il leone83. Questa tradizionale associazione84 figurativa, nota come Tetramorfo,85 vuole
Fig. 17.
sottolineare la diffusione della Parola di Dio nelle
quattro direzioni cui la Croce stessa è rivolta per
abbracciare tutta l’Umanità.
San Giovanni (fig. 17) presenta capelli ricci, baffi,
barba lunga e ondulata, un abito con stola alla romana
fissata da una fibbia sulla spalla destra. Nella rientranza creata dal movimento del braccio destro tra
questo arto e il petto, l’Evangelista trattiene l’aquila
mentre con la mano sinistra sorregge il libro che è
intento a leggere. Meticolosa precisione è dedicata
al piumaggio dell’uccello e alle pagine del Vangelo.
San Luca (fig. 18) mostra lo sguardo in tralice incorniciato dai capelli leggermente ondulati e dalla barba
mossa. Sopra alla veste porta un mantello che crea
una serie di pieghe concentriche simili a quelle dell’abito nelle braccia. Entrambe le mani trattengono
il libro appoggiato sul petto, quasi a voler sottolineare
l’importanza del messaggio annunziato da Cristo.
Al fianco destro dell’evangelista emergono il muso
e il collo del toro, raffigurazione apocalittica dell’Evangelista.
San Matteo (fig. 19) ha un’espressione intensa e
commossa: la mano sinistra sorregge il libro chiuso
mentre la destra è portata sul petto verso il cuore
come sembra indicare l’anulare inserito sotto
(75) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 68
(76) Ibidem, pp. 141-142; G. FERGUSON, Signs & Symbols...,
cit. nota 9, p. 313
(77) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p.
127
(78) Giovanni Giacomo Decio, Corale di Crescenzago, M 46,
f. 241 r, 1530 circa, Milano, Biblioteca Capitolare di Sant’Ambrogio
(79) Da segnalare che durante l’ultimo intervento di restauro
(Angelucci, 2003) è stata riscontrata l’errata posizione degli
Evangelisti san Marco e san Giovanni che è stata corretta
invertendone la collocazione. (S. ANGELUCCI, Il Restauro...,
cit. nota 4, scheda di restauro, punto n. 22)
(80) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 207
(81) Ibidem, p. 248; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani,
cit. nota 9, p. 151
(82) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 274; E.
URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 164165
(83) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p.
157
(84) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp.
330-333; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota
9, pp. 245-249
(85) “…Intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni
di occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un
leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello,
il terzo vivente aveva l’aspetto di un uomo, il quarto vivente
era simile a un’aquila mentre vola. I quattro esseri viventi
hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di
occhi: giorno e notte non cesseranno di ripetere: Santo, santo,
santo, il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e
che viene!”. (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit.
nota 9, pp. 153-154/330-333; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 344)
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VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
Fig. 18.
Fig. 19.
pieghe nel girocollo fermate al centro da una borchia,
viene sollevato dalla mano destra dell’Evangelista che
così mostra la sua immagine identificativa, il leone.
L’animale, la cui criniera si confonde con i panneggi
dell’abito, accovacciato e con le zampe aggrappate
al bordo della placchetta, mostra solo il muso: un
espediente di naturalezza e immediatezza vivace e
coinvolgente.
Una nota particolare merita l’attenzione che il
maestro ha rivolto alla realizzazione dei nimbi86:
tutti tridimensionalmente sporgenti e diversificati.
L’aureola di Gesù ha un fiore a quattro petali traforato,
(86) La raggiera ha sempre significato la divinità dei personaggi.
Già presente nella cultura pagana, assume un valore particolare nel Cristianesimo. Inizialmente utilizzato come segno di
deferenza e importanza, a partire dal IV secolo Cristo è con crescente regolarità il destinatario di tale omaggio. Nel V secolo
il segno diventa fisso per Lui e, in seguito, anche per i discepoli
ma con una distinzione: il nimbo del primo è stato dotato di
attributi particolari quale, per esempio, la croce. Il senso era
talmente noto che i Cristiani lo utilizzarono come simbolo del
linguaggio visivo per attribuire importanza al personaggio conferendogli deferenza: in questo caso non caratterizza la sua
santità ma il rispetto e la devozione dei fedeli. Dopo secoli di
incertezza, l’uso e il significato si cristallizzano. Nel XIV secolo
la Chiesa stabilisce che l’aureola diventa l’attributo tipico dei
santi, indicando appunto che la loro santità è ufficiale. Al
nimbo di Cristo è spesso aggiunta una croce per distinguerlo
dagli altri (E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota
9, pp. 174-181) : anche in questo caso è rispettata la tradizione
e dato che il quarto spicchio della croce resta sotto la testa di
Cristo i tre raggi simboleggiano ciascuna delle persone trinitarie (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p.
338).
Fig. 20.
l’avvolgente mantello che, sempre con le medesime
plissettature del panneggio delineate negli altri personaggi, fascia l’intera figura. Questo stesso gesto è
riprodotto specularmente nell’angioletto posto al
fianco sinistro di Matteo: una corrispondenza di
sensi ed emozioni che sprigionano dall’abilità dell’artista.
San Marco (fig. 20), infine, ripropone una ulteriore
variazione sul tema: lo sguardo rivolto all’infinito, con
la mano sinistra indica direttamente le parole del
Vangelo che, questa volta, è rivolto verso i fedeli a
specificare che solo attraverso il Verbo Divino si
può trovare la Verità. Il manto che crea una serie di
000
NUOVI ANNALI - 2010
mentre le altre parti presentano un giglio in lamina
liscia inserito in uno sfondo lavorato a ferro zigrino.
La stessa tipologia è ripresa per l’altra persona della
Trinità, Dio Padre, rispettando in questo modo la
tradizione e la simbologia specifiche. Alla Madonna
è stato attribuito un nimbo con stelle su un fondo
puntinato. La Regina dei Cieli assume, in questo
modo, un’aura maestosa preannunciante l’Assunzione
alla Gloria Eterna. Il discepolo prediletto ha un
nimbo screziato da piccoli raggi che partendo dal
bordo esterno si indirizzano verso il centro.
Ambrogio, Giovanni e Matteo sembrano dotati di
esemplari semplici, senza decori data la presenza
della mitria o per la posizione connessa al capo.
San Luca ha un’aureola con rappresentazione stilizzata di una stella sfavillante in lamina liscia
disposta su fondo zigrinato; san Marco presenta una
serie di raggi incisi che si sviluppano dal centro del
disco.
La potenza inferiore del braccio verticale della Croce
è completata dal nodo (fig. 21) in cui si inserisce
l’asta utilizzata durante le processioni: un’ulteriore
terminazione – accostata al quadrilobo con due
volute rivolte nel senso opposto – è appoggiata su una
bombatura a pelte sbalzate sovrapposte sorretta da
una doppia fascia liscia rastremata verso il basso,
bordata con fiori di loto accostati. L’altezza del nodo
è delineata da un’alta striscia piana delimitata su
entrambi i lati da una cornice tonda e una angolata:
all’interno del nastro sono state applicate con
chiodini quattro foglie d’acanto, lavorate come il
fondo delle lamine della croce con il ferro zigrino per
creare quel risalto sulla superficie completamente
liscia che esalta così anche le nervature interne
incise; ciascun inserto vegetale è impreziosito da
un piccolo granato (uno mancante). Una modanatura
a becco di civetta ad ovulo con decorazione a foglia
dorica e un toro d’alloro con nastro chiudono la lavorazione del nodo che, attraverso un’ulteriore fascia
ad anello, si innesta all’asta. Quest’ultima è per un
primo tratto scanalata in argento dorato mentre la
parte terminale è in argento liscio.
In quanto croce processionale la Croce Capitolare
assurge a simbolo della massima autorità religiosa
della Diocesi che rappresenta nelle processioni
solenni: questo oggetto prezioso commissionato dal
Capitolo Metropolitano si presenta come un unicum
nel panorama artistico lombardo.
La fortuna87 critica di quest’opera possiede una
scarna bibliografia.
Fig. 21.
Mia Cinotti, nella scheda del catalogo del Tesoro
del Duomo, la inserisce nell’ambito della sigla manieristica (metà XVI secolo circa), con riferimenti “in
senso lato alle croci astili lombarde, specie quelle
comasche: la fattura delle nostre figure è più raffinata, segnatamente nel san Giovanni del lato
frontale, di nitido e vigoroso impianto classico, e
nell’Eterno del tergo, di delicato pittoricismo. Gli
ornati, per contro, sono di fattura stanca88”. Questa
Croce si è rivelata ricca di nuovi spunti, supportati
dal procedere degli studi sull’oreficeria lombarda
del XVI secolo. Sembrano dunque meno convincenti i riferimenti all’ambito comasco nè si rintraccia
una “fattura stanca”. Anzi, come si è visto, sono da
sottolineare la raffinatezza delle decorazioni e
l’attenzione alle figurazioni in cui si nota lo sforzo dell’artista nel far emergere la propria perizia, le qualità
tecniche, l’aggiornamento culturale.
119; NAVA, Distinto Raguaglio dell’Ottava maraviglia del
mondo o sia della Gran Metropolitana dell’Insubria volgarmente detta il Duomo di Milano, Milano, MDCCXXIII, p. 101;
S. LATUADA, Descrizione di Milano ornata con molti disegni in
rame delle Fabbriche più cospicue, che si trovano in questa
metropoli, voll. 2, Milano, MDCCXXXVII, p. 99; P. A. FRIGERIO,
Distinto Ragguaglio dell’Ottava meraviglia del mondo o sia
della Gran Metropolitana dell’Insubria volgarmente detta il
Duomo di Milano, Milano, 1739, p. 67; L. MALVEZZI, Il tesoro
del Duomo di Milano, Milano, 1840, pp. 11-12; U. NEBBIA, Il
Tesoro del Duomo di Milano, Milano, 1962, pp. 54-55; M.
CINOTTI, Tesoro e Arti Minori, in AA. VV., Il Duomo di Milano,
voll. 2, Milano, 1973, vol. II, p. 264; G. SAMBONET, Le Oreficerie, in Il Duomo di Milano, E. Brivio (a cura di), 1981, p. 21
(88) R. BOSSAGLIA, M. CINOTTI, Croce astile capitolare, detta “di
S. Carlo”, in Tesoro e Museo del Duomo, Milano, 1978, 2 voll.,
in particolare vol. I, scheda n. 22, p. 61
(87) P. MORIGI, Il Duomo di Milano, Milano, MDCXXXXII, p.
000
VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
Stilisticamente legata alla cultura milanese, la Croce
Capitolare mostra molti agganci con le novità rinascimentali romane veicolate attraverso soggiorni di
artisti appartenenti anche ad altre arti quali la
scultura, la pittura e soprattutto la miniatura: pur
sembrando un gioco di sottili variazioni volumetriche e cromatiche, il disegno preparatorio di questo
manufatto e la sua realizzazione mostrano sempre
l’artista in bilico tra la superficie e il volume, segno
evidente di un soggetto che sa fin dove può spingere
le sue capacità e la materia duttile e malleabile dell’oro.
Un’opera che stilisticamente si avvicina alla fattura
della Croce Capitolare è la pace di Pio IV89 (1565
circa), dono dello zio pontefice al neo-arcivescovo
di Milano, Carlo Borromeo, data la complessità della
realizzazione, la ricchezza dei materiali utilizzati e
la resa stilistica delle lastre sbalzate (fig. 22). Tuttavia l’attribuzione di questo prezioso oggetto è controversa: Cinotti90 propone per le parti figurate il
nome di Leone Leoni pur non scartando l’ipotesi
suggerita dal Plon91 di un artista romano attivo alla
corte del Papa Medici quale Alessandro Cesati detto
il Grechetto (inizio XVI secolo – 1570 circa) come
responsabile della preziosa struttura.
Leone Leoni92 è un’ipotesi valida data l’altissima
Fig. 22.
(89) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Pace di Pio IV, in Tesoro e
Museo..., cit. nota 88, scheda n. 32, pp. 63-64; P. VENTURELLI,
Pace, in Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano
spagnola, P. Biscottini (a cura di), Milano, 2005, pp. 286-287
(90) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Pace di Pio IV, in Tesoro e
Museo..., cit. nota 88, scheda n. 32, pp. 63-64
(91) E. PLON, Benvenuto Cellini. Orfèvre médailleur, sculpteur,
Paris, 1883, p. 275
(92) S. SEVERGNINI, Un Leone a Milano. Vita e avventure di Leone
Leoni scultore cesareo, Milano, 1989. Per un approfondimento:
E. PLON, Leone Leoni sculpteur de Charles-quint et Pompeo
Leoni sculpteur de Philippe II, Paris, 1887; A. BRUSCONI, La casa
di Leone Leoni detta “degli Omenoni”, Milano, 1913; F. SRICCHIA
SANTORO, I Leoni, collana “I maestri della scultura”, n. 55,
Milano, 1966; G. DONDI, In margine al codice vinciano della
Biblioteca Reale di Torino. Note storico-codicologiche, in “Accademie e biblioteche d’Italia”, anno XLIII, n.s. 26, n. 4, luglioagosto 1975, pp. 252-271; F. AZNAR, El monasterio de San
Lorenzo el real de el Escorial, Madrid, 1985; P. B. CONTI,
Madrid-Milano. Scalpellini e scultori per il “Retablo Mayor”.
Prime annotazioni, in La Escultura en el Monasterio del Escorial,
actas del Simposium, (1-4 settembre 1994), coord. por F.J.
Campos y Fernández de Sevilla, Real Centro Universitario
Escorial – Maria Cristina, 1994, pp. 329-342; Los Leoni (15091608). Escultores del Renacimiento italiano al servicio de la corte
de España, catalogo della mostra (Madrid, Museo del Prado,
18 maggio 1994-12 luglio 1994), Madrid, 1994; Leone Leoni
tra Lombardia e Spagna, Atti del Convegno Internazionale,
qualità dell’opera e della committenza93. La plaMenaggio 1993, M. L. Gatti Perer (a cura di), Milano, 1995;
E. CARRARA, Michelangelo, Leone Leoni ed una stampa di
Maarten Van Heemskerck, in “Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa”, Serie IV, Quaderni, 1-2, Classe di Lettere
e Filosofia, 1996, pp. 219-225; A. BARIGOZZI BRINI, Apparati
effimeri di Leone Leoni, in Studi di Storia dell’Arte in onore di
Maria Luisa Gatti Perer, M. Rossi – A. Rovetta (a cura di),
Milano, 1999, pp. 259-269; F. REPISHTI, La residenza milanese
di Pio IV: il palazzo Medici in via Brera, in “Annali di architettura”, n. 12, 2000, pp. 75-90; BONETTI M., Il mausoleo del
Medeghino nel duomo di Milano, Leone Leoni e l’architettura
trionfale, in “Artes”, n. 10, 2002, pp. 21-43; C. P. MARANI, Per
Leonardo scultore: nuove ipotesi sul bronzo di Budapest, il Monumento Trivulzio e il Rustici, in “Arte Lombarda”, n. 139, anno
2003/3, pp. 154-162; K. HELMSTUTLER DI DIO, Leone Leoni’s collection in the Casa degli Omenoni, Milan: the inventory of
1609, in “The Burlington Magazine”, CXLV, August 2003,
pp. 572-578.
(93) Di origine aretina, si forma come scultore, cesellatore e
intagliatore di gemme a Venezia, il paradiso degli orefici, “città
dell’oro”: si reca spesso nella Basilica di San Marco dove resta
ore ed ore ad ammirare i mosaici e la Pala d’oro, una delle più
sfarzose e complesse opere di oreficeria esistenti al mondo, un
ininterrotto, vivissimo sfavillio di ori e gemme che diventa
un’esplosione di fulgidi scintillii. Il ricordo vivo e partecipe di
000
NUOVI ANNALI - 2010
sticità vigorosa delle forme, l’abbondanza ridondante dei panneggi, l’espressività sottolineata e composta, il trattamento della superficie aurea, nonchè
la corrispondenza di alcune figure: questi i fondamentali punti di contatto tra la Croce Capitolare, la
preziosa pace conservata nel Tesoro del Duomo e le
statue realizzate in collaborazione con il figlio
Pompeo per il Retablo Major della chiesa di San
Lorenzo del Monastero dell’Escorial a Madrid.
L’anatomia del Cristo e la sua posizione caratterizzata da un grande controllo delle forme (fig. 5) sono
simili nella deposizione della Pace (fig. 22) e nella
Crocefissione dell’Escorial (fig. 23). Molto significative sono le affinità tra le strutture possenti della
Vergine del Retablo Major (fig. 23) avvolta in
un’ampia serie di panneggi e nella stessa posa di
quella della Croce Capitolare (fig. 10) o della Maddalena del dono di Pio IV (fig. 22); anche san Giovanni che si asciuga le lacrime nelle vesti sovrabbondanti mostrando la medesima iconografia si presenta affine nelle due opere di confronto (figg. 1322-23).
Fig. 23.
questo immenso tesoro doveva emergere in qualche opera così
come l’influsso dell’arte di Donatello e Jacopo Sansovino che
ha modo di assorbire in questo soggiorno veneziano. Nel 1538
viene nominato incisore della zecca pontificia; a Roma assiste
ai lavori del Giudizio Universale di Michelangelo che gli manifesta un’inconsueta benevolenza: un’occasione unica da cui
nasce un’intesa proficua. Certamente l’aretino, durante la sua
permanenza romana, era rimasto incantato dalla novità e maestà
dei capolavori realizzati dal genio fiorentino: il Mosè della
tomba di Giulio II, la Pietà della Basilica di San Pietro, gli
affreschi della Sistina, opere che gli lasceranno un’incredibile
impronta per la potenza dei volumi espansi e l’espressività
dei sentimenti. Nel 1542 si stabilisce a Milano, dove ottiene
la carica di incisore della zecca imperiale: apprezzato da Carlo
V, per il quale esegue numerosi ritratti in bronzo, segue
l’imperatore in Baviera e nelle Fiandre. Qui incontra anche il
giovane Giambologna la cui opera ha molti punti di contatto
con quella del Leoni. Passa un ventennio e l’artista prediletto
di Pio IV, ormai celebre, ottiene da Michelangelo una lusinghiera attestazione di stima e fiducia che è quasi un’investitura:
nel 1560 il Buonarroti lo designa espressamente per
l’esecuzione, in sua vece, di un monumento di grande importanza, il sepolcro del Meneghino, fratello del Pontefice, nel
Duomo di Milano. Leone si presenta, quindi, come un artista
dalla cultura molto ampia e recettiva di tutte le novità tecnicostilistiche che fa proprie reinterpretandole in base alla sua
sensibilità: l’oreficeria e la scultura veneziane, la potenza
energica di Michelangelo, i “moti dell’animo” di Leonardo di
cui collezionerà i disegni (molti dei quali sono studi preparatori
per il Cenacolo; M. S. TRONCA, La collezione di Leone Leoni e
le sue implicazioni culturali, in Leone Leoni tra Lombardia e
Spagna, cit. nota 92, pp. 31-38) che passeranno tramite il
figlio Pompeo a Windsor e a Madrid.
Dio Padre (fig. 16), la cui barba ricorda esempi ben
noti al Leoni quali il Mosè michelangiolesco e la
figura del suo mecenate, Pietro Aretino, incisa su una
moneta, è somigliante al viso del San Paolo dell’Escorial e al Padre Eterno (fig. 22) del gioiello del
Tesoro del Duomo così come i putti (fig. 16) che
sostengono questa figura nella Croce Capitolare
sono confrontabili con quelli che giocano sulla nuvola
con i simboli della Passione collocati nella lunetta
della Pace (fig. 22). Inoltre, la figura di sant’Ambrogio
(fig. 8) e la serie degli Evangelisti (figg. 17-18-1920) raffigurati con il rispettivo simbolo richiamano
le statue realizzate per il Retablo dell’Escorial sia
nell’iconografia sia nell’attenzione ai dettagli e alla
vigorosa volumetria. All’edicola di Pio IV sono stati
avvicinati altri preziosi tra cui un medaglione raffigurante Giuditta con la testa di Oloferne e un pendente in oro su fondo di diaspro con una figura di san
Sebastiano94 derivata dalla scultura di medesimo
soggetto realizzata per il Duomo di Milano da Cristoforo Solari, un artista al cui stile appartengono “le
(94) Questo gioiello, reso noto dalla Hackenbroch, è stato
genericamente attribuito a manifattura milanese fino al XX
secolo per il rapporto con la scultura monumentale di Bambaia
e Cristoforo Solari. (S. ZANUSO, Cristoforo Solari tra Milano e
Venezia, in “Nuovi studi”, Rivista di arte antica e moderna, anno
V, n. 8, 2000, pp. 17-33, in particolare p. 19)
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VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
proporzioni tozze, i volumi espansi e fortemente plastici95”. In questa statua emerge una resa ammorbidita e naturalistica del nudo, un’espressione di
intenso patetismo del volto e “alcune note arcaizzanti
quali, in corrispondenza del fianco destro, la cascata
di pieghe coniche che, nella loro ridondanza, sembrano citare soluzioni care alla scultura gotica96”:
proprio il dettaglio del perizoma sembra richiamare
la fattura di quello della Croce Capitolare, leggero
e aderente alle gambe di cui emergono i volumi,
annodato allo stesso modo lateralmente97 (figg. 524).
Secondo Hackenbroch98 il gruppo dei gioielli appartiene allo stesso autore della Pace del Tesoro del
Duomo, che Venturelli99 identifica inizialmente con
la bottega dei Leoni e in un secondo momento ipotizza anche altri autori100 quali i Miseroni o Annibale
Fontana mentre Agosti101 avanza l’attribuzione al
Moderno, proposta da tenere in considerazione per
Zanuso102.
Alla luce di queste valutazioni, ritengo che la Croce
Capitolare potrebbe essere avvicinata a questo corpus
di opere.
Non si può individuare con certezza l’autore dell’oreficeria in esame – ritengo l’ipotesi di Leone
Leoni abbastanza plausibile visti i confronti stilistici “col suo concitato manierismo non alieno da una
(95) S. ZANUSO, Cristoforo Solari..., cit. nota 94, p. 24
(96) Ibidem, p. 22
(97) Ibidem: “A fronte della deludente esecuzione materiale,
il San Sebastiano rimane, nell’insieme, un’immagine di una
modernità abbastanza sorprendente nel panorama della produzione locale dei primi due decenni del Cinquecento: va
detto anzi che i caratteri più notevoli dell’opera, cioè un classicismo monumentale e naturalistico in sintonia con gli esiti
elaborati dalla cultura figurativa centro italiana, sono poco
frequentati dagli scultori lombardi e soprattutto in aperta controtendenza rispetto al classicismo minuto e descrittivo che
andava proponendo, a cavallo tra secondo e terzo decennio del
secolo, colui che a queste date poteva ormai essere considerato, secondo le parole di Vasari, “concorrente” di Cristoforo
Solari: ovviamente, Bambaia. Quest’ultimo, a modo suo, non
doveva comunque rimanere insensibile al fascino del San
Sebastiano del Duomo, visto che lo prendeva a modello verso
il 1525-1528, per il San Sebastiano dell’Arca di Sant’Evasio
a Casale Monferrato.”
(98) Y. HACKENBROCH, Renaissance Jewellery, New-York –
München, 1979, pp. 41-44
(99) P. VENTURELLI, Gioielli e gioiellieri milanesi. Storia, arte,
moda (1450-1630), Milano, 1996, p. 119
(100) P. VENTURELLI, scheda relativa alla Pace, in Carlo e
Federico..., cit. nota 89, pp. 286-287
(101) G. AGOSTI, Bambaia..., cit. nota 32, pp. 131-132 nota n. 87
(102) S. ZANUSO, Cristoforo Solari..., cit. nota 94, p. 29 nota n. 21
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NUOVI ANNALI - 2010
vena pittoricistica d’estrazione veneto-sansoviniana103” – ma certamente si tratta di un artista di
altissimo livello che ha una solida preparazione
tecnica, una conoscenza aggiornata sulle novità della
cultura rinascimentale romana e fiorentina, i cui
punti di riferimento principali sono la miniatura e
la scultura. Costituisce una prova evidente il doppio
filone che si è prospettato con la vicinanza stilistica
ad opere di Cristoforo Solari, uno dei protagonisti
della decorazione scultorea del Duomo nonché rappresentante del classicismo monumentale e naturalistico aggiornato sulle novità dell’Italia Centrale, e
di Leone Leoni, artista pluridisciplinare, orafo, culturalmente vivace, tramite oltre che interprete di
tendenze artistiche molteplici. È un dialogo tra le arti
il segreto di questo maestro orafo che fa della sua
opera un capolavoro dell’oreficeria milanese della
metà del Cinquecento, frutto di un incontro-scontro
di sensibilità ed esperienze diverse che si ritrovano
a lavorare fianco a fianco nel cantiere del Duomo:
questo confronto di personalità arricchisce
l’esperienza dell’autore della Croce Capitolare grazie
al rapporto con maestri che operano in ambiti diversi
e veicolano particolarità di centri artistici anche
stranieri. In questa direzione possono essere citati
illustri Crocifissi che hanno dettagli stilistici affini
con la figura del Cristo della croce Capitolare. Si
tratta di esemplari di artisti con cui l’aretino entra
in contatto durante il suo soggiorno romano: il Cristo
in croce in legno policromo conservato al Museo
del Bargello di Firenze e attribuito a Michelangelo
giovane (1495) per lo studio anatomico e la posizione
delle gambe; il Crocifisso marmoreo dell’Escorial
(1556-1562) di Benvenuto Cellini per l’espressività
del volto, la resa dei capelli e della barba nonchè il
dettaglio delle braccia tese con i vasi sanguigni che
emergono in superficie. Inoltre, “non è forse una
coincidenza che proprio a Leone si debba la più
antica menzione del Giambologna, in una celebre
lettera a Michelangelo scritta da Firenze nel 1560.
Leone giunse alla corte imperiale per sottoporre a
Carlo V il progetto di un monumento equestre in
bronzo, e anche se allo stato attuale delle conoscenze possiamo solo supporre che il giovane fiammingo abbia incontrato lo scultore di Carlo V, la
presenza del Leoni nella patria del Giambologna
riveste un ruolo emblematico, poichè il fiammingo
ne diventerà in un certo senso il successore: da lui
deriverà l’idea di una celebrazione dinastica affidata
a bronzi realizzati con una tecnica sempre più perfezionata per poter rispondere alle esigenze della
produzione di scultura in scala monumentale104.”
Anche se si tratta di un’opera successiva, è interessante notare la vicinanza tra la Croce “di san
Carlo” e l’esemplare in oro conservato nella Geistlichen Schatzkammer a Vienna – il cui modello
viene attribuito al Giambologna105 – affini per la
lavorazione della lamina e per l’attenzione all’effetto di chiaroscuro. La citazione di maestri di grande
rilievo è data dalla raffinatezza delle figurazioni dell’oreficeria in esame che può reggere il confronto e
anzi inserirsi a buon diritto tra le opere dei maestri
più importanti del Rinascimento sia per l’abilità
tecnica sia per la realizzazione precisa ed al tempo
stesso “espressionistica”.
Gli aspetti stilistici sono confortati dai riscontri
archivistici. Dal punto di vista documentario si sono
rivisti gli inventari della Sagrestia Meridionale del
Duomo di Milano dove erano custoditi tutti i beni del
Capitolo Metropolitano e questa oreficeria in particolare106.
(104) D. ZIKOS, Le belle forme della Maniera. La prassi e l’ideale
nella scultura di Giambologna, in Giambologna. Gli dei, gli eroi:
genesi e fortuna di uno stile europeo nella scultura., B. Paolozzi
Strozzi – D. Zikos (a cura di), Firenze-Milano, 2006, pp. 2143, in particolare p. 22
(105) D. DIEMER, Giambologna in Germania, in Giambologna.
Gli dei, gli eroi..., cit. nota 104, pp. 107-125 in particolare
pp. 114-115
(106) Biblioteca Ambrosiana, A 112 Inf. foglio 284 (p. 142
verso); ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già
150), 1581, Cart. 3/2, f. 2 v; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1581, Cart. 3/3, f. 1 v; ACMi,
Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1595, Cart.
3/7, f. 3 r; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già
150), 1595, Cart. 3/8, p. 4 r; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1653, Cart. 3/10, f. 41 v; ACMi,
Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari
1784-1827, Cart. 5/1, 1784, p. 6; ACMi, Fondo Sacrestia
Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart.
5/3, 28 Settembre 1796, n. 63; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/4,
4 Dicembre 1796, n. 39; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale,
Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/6, 24 Maggio
1798 – 5 Pratile anno VI, Vestaro n.7, n. 194; ACMi, Fondo
Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 17841827, Cart. 5/8-9, 28 Aprile 1800, Vestaro II e III; ACMi,
Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari
1784-1827, Cart. 5/10, 1814 – 1820, p. 38; ACMi, Fondo
Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 17841827, Cart. 5/11, Inventario Anno 1827, pp. 69-70; ACMi,
Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari
1784-1827, Cart. 5/12, Inventario Anno 1827, pp. 69-70;
ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152),
(103) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Pace di Pio IV, in Tesoro e
Museo..., cit. nota 88, scheda n. 32, p. 64
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VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
La prima attestazione certa si trova nell’Inventario
Castelli, datato 1565, redatto in occasione della
prima visita pastorale in Duomo del nuovo Arcivescovo Carlo Borromeo. In questo registro la Croce
Capitolare, descritta107 nei particolari, è elencata
per prima.
Se questo è il sicuro termine ad quem per la realizzazione della Croce, si è trovato anche un possibile
termine a quo: la presenza di una notizia riportata
negli Annali della Veneranda Fabbrica del Duomo
di Milano. Al giorno giovedì 12 gennaio 1542 è così
annotato: “Sulla proposta dei signori Ordinarj di far
fare una nuova croce d’oro in concorso colle rappresentanze dell’Ospedal maggiore e dei luoghi pii della
Misericordia, della Carità e della Scuola delle Quattro
Marie, deliberarono dovere gli agenti della fabbrica
pagare la porzione contingente della spesa108.”
Una datazione tra il 1545-50 e comunque entro il
1565 risulta quindi plausibile alla luce dei confronti stilistici e dei riscontri documentari.
Se, tuttavia, non si sono trovati riferimenti precisi
sulle circostanze relative alla committenza, la consultazione degli archivi ha permesso di reperire
notizie sulla sua struttura originale, le modifiche
nel corso del tempo e i restauri che hanno interessato la Croce. Nel 1653 si registravano109 alcuni
guasti. Un primo intervento è effettuato nel 1754cx
mentre “fu intieramente ristaurata nel 1849 e costò
il ristauro compreso l’oro aggiuntovi Mil. 110 £
6000111”: un costo molto elevato giustificato probabilmente dal rifacimento112 di tutta la struttura lignea
e dal rinforzo113 delle lamine d’oro diffusamente
danneggiate. Questa ipotesi collimerebbe con i rilievi
compiuti nel 2003 quando lo studio di restauro Angelucci riceve l’incarico di effettuare una ricognizione
completa e accurata dello stato di conservazione del
manufatto ed eventuali operazioni di ripristino della
stabilità dell’opera114.
La Croce Capitolare si caratterizza per la raffinatezza dei materiali costitutivi: la preziosità e la siml’estremità inferiore un S. Ambrogio, nell’estremità anteriore
vi sono i SSti Evangelisti il tutto d’Oro, ed il bastone d’argento.
Valore dell’oro £ 5400 - Peso dell’Argento 30 e Valore £ 115”
(111) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5
(già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/12, 1827, pp. 69-70
(112) Il legno sagomato si presenta di varie essenze con lamelle
di piccole dimensioni unite ad incastro e attaccate con colla
animale. I bracci sono uniti mediante due lastre di ferro
avvitate. Anche il puntale è fissato alla croce con il medesimo
sistema (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di
restauro, punto n. 16). Questa struttura ha fatto supporre al
restauratore un radicale ed invasivo intervento di restauro
dovuto al cattivo stato di conservazione: il legno doveva essere
danneggiato tanto da essere sostituito. Per di più la sagoma già
complessa della croce è stata resa una forma metallica chiusa
nella quale, in occasione di questo antico restauro, si è dovuto
inserire un nuovo legno costruendolo a lamelle incollate, adattandolo braccio per braccio, con un gioco di incastri che ne ha
fatto un’opera d’alta ebanisteria, ma che gli ha tolto buona
parte della capacità portante. Questo intervento ha reso la
croce fragile ed esposta all’attacco di microrganismi che hanno
determinato la perdita della capacità adesiva della colla
animale stesa per fissare le lamelle. L’effetto non è stato così
nocivo per il legno che ha potuto essere recuperato con un
paziente lavoro di pulitura, disinfezione e consolidamento. (S.
ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, relazione di restauro,
pp. 2-3)
(113) E’ probabile che nel corso di questo restauro ottocentesco
le rotture delle lamine, indebolite dalla stessa lavorazione a
sbalzo e dai danni successivi, si presentassero così diffuse ed
importanti da decidere di rinforzarle applicando sul retro
lastrine di metallo e saldare le fratture ad alta temperatura con
l’argento che ha però modificato la composizione del metallo
nelle zone ad esse circostanti. Questi stessi punti col passare
del tempo sono stati aggrediti dai gas dei microrganismi,
responsabili della perdita di coesione della struttura lignea, provocando degli annerimenti. (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit.
nota 4, relazione di restauro, p. 2) Per ottenere una buona
durata dei risultati ottenuti con il restauro, dopo consistenti
lavaggi con e senza un detergente neutro, è stata applicata su
tutte le superfici una resina acrilica pura, incolore, elastica e
sufficientemente reversibile in rapporto alla consistenza superficiale dell’oro (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4,
relazione di restauro, pp. 2-3)
(114) S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, relazione e
scheda di restauro
Inventari 1784-1827, Cart. 5/13, p. 23; Inventario dei paramenti
e delle suppellettili sacre del Duomo di Milano, in “Archivio
Ambrosiano”, XXX, Milano, 1976, p. 54.
(107) Biblioteca Ambrosiana, A 112 Inf., foglio 284 (p. 142
verso): “1. Una croce d’oro con il manegho d’argento con il fondo
di piastre di oro con sopra uno intaglio, lavorato all’arabesca
di oro, uno Dio patre, un Christo in croce co’ la diadema, et il
pelicano, di supra. Alla dextra detto Christo, una Madóna,
Alla sinistra Sto Giovannj. Al piede Sto Ambro et dalla parte detto
Dio patre, li quatri Evangelista, et 8 granate e 4 zaffiri, et
altre 4 granate, 4 zaffiri et una grisolice xide (?) co’ le suae casse
d’oro, tutti finj, e 4 bottoni di cristallo de Montagna, ornati de
4 fogliette d’oro co’ doi scartozzi per caduno d’oro. Et nel
primo bottono d’issa granatine nu. 4 ligate in oro a fogliammj,
et è fatta per uso dlle processioni, il costo è libbre 88 66
(108) Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine
fino al presente, vol. III (1481-1550), cit. nota 36, p. 279
(109) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Croce astile capitolare detta
di “S. Carlo”, in Tesoro e Museo..., cit. nota 88, vol. I, scheda
n. 22, pp. 60-61
(110) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5
(già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/1, 1784, p. 6: “Una
croce d’oro grande portatile aggiustata nel 1754. col Crocifisso
pure d’oro, nella parte posteriore un Dio Padre; su la cima un
Pelicano, alle due estremità laterali la B.V. e la Maddalena; nel-
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NUOVI ANNALI - 2010
bologia dell’oro è completata dalle gemme. È, infatti,
non solo un Crocifisso processionale, una Croce
fiorita-albero della vita ma anche Crux Gemmata et
Gloriosa: il patibolo del figlio di Dio splendente
della gloria della sua Resurrezione.
Le pietre preziose della Croce Capitolare sono state
individuate in modo preciso da alcuni inventari o
guide: al f. 284 dell’Inventario Castelli115 del 1565;
nel 1642116 sono ricordate delle “gioie117”; nel 1723118
era “ornata di gioje n. 21, nella croce quattro palle
di Cristallo, e quattro granate nel pomo abasso119”;
la medesima descrizione si trova nel 1739120; alcune
pietre colorate sono ricordate nell’inventario del
1796121; “con diverse pietre false” è citata nel
1798122; una nota alla descrizione della croce in un
inventario del 1827 è particolarmente interessante:
“Con ventotto pietre fine diverse cioè 10 (? , la
seconda cifra è malamente corretta e non ben comprensibile forse un 6 o probabilmente uno 0 perchè
la somma sia corretta) granato porpora e 4 piccole,
sette zafiri, un topazio paglierino, due zafiri falsi, e
quattro palle di cristallo di morate (?) forate.123” Il
secondo inventario del 1827124 che cita il restauro
di £ 6000 milanesi non fa menzione di eventuali
sostituzioni o sistemazione delle pietre preziose.
Nel 1840125 Malvezzi la indica “fregiata di ventuna
gioie, di quattro granate e di quattro palle di cristallo
finissimo” mentre nell’inventario del 1976126 si enumerano “sul recto tredici pietre in castone di varia
qualità e grandezza (una mancante); sul verso dodici
pietre in castone di varia qualità e grandezza (una
mancante).”
L’analisi gemmologica127 effettuata ha esaminato: 4
ovoidi incolori sfaccettati con foro passante a raggiera
attorno al centro della croce individuati come quarzi
naturali incolori ossia cristalli di rocca; sulla parte
anteriore 9 pietre trasparenti: 4 da rosso a rosso
porpora a cabochon ovale irregolare (granati naturali)
e 5 blu di tagli vari (a gradini, a faccette, a cabochon)
di cui 4 corindoni naturali varietà blu trasparente
ossia zaffiri naturali e 1 vetro artificiale azzurro trasparente ovale sfaccettato posto all’estremità esterna
alla destra del Cristo; sulla parte posteriore della
croce sono presenti 11 pietre trasparenti: 1 gialla
chiara ovale sfaccettata (non analizzata con certezza
a causa della montatura), 7 da rosse a porpora a
cabochon ovale irregolare (granati naturali), 1 violablu chiaro (zaffiro naturale), 2 blu chiare rettangolari a tavola a gradini (zaffiri naturali), 1 pietra
mancante; sulla base dell’innesto: 3 pietre da rosso
a rosso porpora a cabochon ovale irregolare (granati
naturali) e 1 pietra mancante. Gli zaffiri presenti
sulla croce hanno caratteristiche tipiche di quelli di
Sri Lanka (già Ceylon)128. La pietra mancante del
retro della Croce è segnalata dalla presenza sul
verso di 12 castoni129: rispetto alla pubblicazione
di queste analisi, sono passati parecchi anni e in
questo lasso di tempo, oggi, i castoni del retro sono
effettivamente 12 ma tutti completi della propria
gemma. Il restauro del 2003 ha infatti rilevato: sui
bracci 9 gemme sul recto e 12 sul verso e 4 cristalli
di rocca sfaccettati inseriti all’incrocio dei bracci130.
Quella mancante è stata sostituita con una pietra
trasparente sfaccettata di colore verde. In effetti,
osservando il castone, il bordo è stato visibilmente
forzato per estrarre la pietra originale e mal adattato
a quella attuale che è di misura più piccola rispetto
al diametro dell’incastro. Tuttavia importa notare la
fattezza identica di tutti i castoni delle pietre posizionate sulle lamine (fig. 15): sono a forma di fiore
a 6 o 8 petali lisci bordati da una ulteriore fascia perimetrale con lavorazione a zigrino come il fondo delle
lamine cui sono fissati grazie a due chiodini esterni
(115) Biblioteca Ambrosiana, A 112 Inf., f. 284 (p. 142 verso)
(116) P. MORIGI, Il Duomo..., cit. nota 87
(117) Ibidem, p. 119
(118) NAVA, Distinto Raguaglio..., cit. nota 87
(119) Ibidem, p. 101
(120) P. A. FRIGERIO, Distinto Ragguaglio..., cit. nota 87, p. 67
(121) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5
(già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/3, 1796, voce n. 63
(122) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5
(già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/6, 1798, voce n. 194
del Vestaro n. 7
(123) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5
(già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/11, 1827, p. 70
(124) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5
(già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/12, 1827, p. 70
(125) L. MALVEZZI, Il tesoro del Duomo..., cit. nota 87, pp. 11-12
(126) Inventario dei paramenti e delle suppellettili sacre..., cit.
nota 106, p. 54
(127) Analisi gemmologica del Tesoro del Duomo di Milano,
Superchi M – Sesana E. (a cura di), Milano, 1986, pp. 30-33
(128)Ibidem, p. 32
(129) Ibidem, p. 31. Come si è potuto rilevare dagli inventari,
il numero dei castoni della croce non si è mai modificato (n.
21, escludendo i quattro cristalli di rocca e i quattro granati
nel nodo) mentre nel corso dei secoli sono state rilevate delle
mancanze e, a volte, delle pietre definite “false” (Milano,
ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152),
Inventari 1784-1827, Cart. 5/6, 1798, voce n. 194 del Vestaro
n. 7). Questa pratica è abbastanza frequente anche per possibili
cadute oltre che eventuali sottrazioni.
(130) S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro,
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VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
ed un perno centrale sottostante la base. La montatura a notte delle pietre è ottenuta con il perfetto
inserimento della gemma e il ripiegamento del bordo
esterno. Per i castoni dei granati del nodo (uno dei
quali ancora privo della pietra), semplici tondi, è stata
utilizzata la stessa tecnica.
I cristalli di rocca (fig. 16) sono forati per permettere
la disposizione a raggiera rispetto all’incrocio dei
bracci. La splendida lavorazione dell’attacco e della
parte terminale del foro è realizzata in lamina d’oro:
un cespo d’acanto con foglie distese fa da base a
doppie volute dentate che si dipartono nelle quattro
direzioni. All’incrocio di questi sostegni si innesta
l’ovulo di cristallo la cui base è avvolta in altre foglie
d’acanto così come la punta esterna è decorata con
quattro foglioline al centro dalle quali è dissimulato
il chiodo di fissaggio.
La scelta predominante della Croce Capitolare si è
incentrata sui granati e gli zaffiri che, con buona
probabilità, erano le sole varietà di gemme che originariamente impreziosivano questa oreficeria. Le
tipologie diverse che si sono rintracciate, credo siano
frutto di rimaneggiamenti successivi.
Il rosso del granato può assumere molte sfumature
simboliche ma associato al Cristo è la vittima sacrificale la cui morte era intesa come compimento di
tutti i sacrifici di sangue131. Il rosso è anche il colore
della fiamma della luce di Dio che ci illumina, dell’ardore della sua Carità132.
Il blu dello zaffiro da sempre simboleggia la virtù
della spiritualità legata alla modestia, atteggiamento
imposto a chi pratica le Leggi di Dio e segue con
fedeltà l’insegnamento della Chiesa. Nella religione
cristiana il simbolismo è molto antico: sia il trono di
Jahvè, che quello di Zeus, sono raffigurati come la
volta celeste blu impareggiabilmente luminosa. Lo
zaffiro è una delle gemme che servono per il cielo
di Gerusalemme. È ritenuto anche simbolo del manto
che la Regina dei Cieli, Maria, stende con gesto
materno su tutti i credenti e sui peccatori, nonchè
del mantello di Gesù in associazione al Regno dei
Cieli133. Sono “diverse, se pur numerose, le virtù
dello zaffiro, che secondo i lapidari purificava gli
occhi, raffreddava il sangue, e curava le malattie
della pelle, difendeva da frodi, inganni e povertà e
procurava l’amore di Dio e degli uomini. Pietra color
del cielo, spesso associata alla figura della Vergine
come simbolo di castità e purezza, secondo Alberto
Magno generava pace e concordia e faceva l’animo
puro e devoto a Dio.134”
In particolare, “il blu può essere accompagnato dal
rosso quando indica lo Spirito Santo, perchè nella teologia cristiana lo Spirito Santo che procede dal Padre
e dal Figlio prende i colori dell’Amore divino, Dio
(rosso), e della Verità divina, Gesù Cristo (blu)135.”
Il colore non colore dei cristalli di rocca che circondano emblematicamente le figure del Crocifisso
e del Padre Eterno “è l’espressione dell’assoluto,
dell’inizio e della fine, della pienezza e del vuoto, e
anche dell’unione di questi estremi136”. In quanto
colore della luce, il bianco traslucido del cristallo
“trasmette il senso dell’illuminazione, della trasfigurazione, della resurrezione e della completezza137”.
Simbolo di divinazione, la forma preferita per questo
materiale era una sfera o un ovoide cui erano riconosciuti anche poteri ipnotici138.
Le gemme incastonate nelle lamine oltre a creare un
gioco cromatico elegante e raffinato, valorizzano
ancora di più l’uso simbolico dell’oro che vuole
proprio sottolineare la preziosità della Croce e lo
splendore della luce che emana quasi effusione dello
stesso Spirito Divino. Questo materiale luminoso e
non soggetto all’ossidazione è collegato quasi in tutte
le culture al Sole. Nel Cristianesimo l’oro è simbolo
della luce celeste e della perfezione139, della divinità
che la Bibbia definisce “luce del mondo” e della
gloria, in particolare quella ultraterrena140, riservato
così molto spesso alla produzione di oggetti sacri o
regali.
L’importanza delle croci d’oro si relaziona alla Crux
Rutilans, la croce rifulgente141 collocata sul Monte
(134) G. BUTAZZI – M. T. BALBONI BRIZZA – A. ZANNI, Anello,
in Gioielli..., cit. nota 132, scheda n. 2, p. 30
(135) R. GILLES, Il simbolismo nell’arte religiosa, Roma, 1993,
pp. 146-147
(136) I. RIEDEL, Colori..., cit. nota 131, p. 187
(137) Ibidem
(138) M. T. BALBONI BRIZZA – A. MOTTOLA MOLFINO – A. ZANNI,
Lampada, in Gioielli..., cit. nota 132, scheda n. 6, p. 38
(139) H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei Simboli, cit. nota 59,
pp. 352-353
(140) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9,
p.184
(141) S. HEID, La croce dorata sul monte degli Ulivi dal IV
fino al VII secolo, in La Croce. Iconografia e interpretazione
(131) I. RIEDEL, Colori. Nella religione, nella società, nell’arte
e nella psicoterapia, Roma, 2001, p. 38
(132) M. T. BALBONI BRIZZA – A. ZANNI, Anello, in Gioielli.
Moda, magia, sentimento, M. T. Balboni Brizza – G. Butazzi
– A. Mottola Molfino – A. Zanni (a cura di), catalogo della
mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 26 settembre – 2
novembre 1986), Milano, 1986, scheda n. 1, p. 29
(133) I. RIEDEL, Colori..., cit. nota 131, p. 81
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NUOVI ANNALI - 2010
Un’altra occasione in cui ne è menzionato l’uso specifico è la processione d’ingresso del nuovo Arcivescovo: “il gruppo del Capitolo era riconoscibile per
la croce d’oro che ne apriva l’incedere.144” Qualsiasi Arcivescovo giungesse nella propria sede era
assimilabile al Cristo che entrava in Gerusalemme,
ma nel rito erano conservate reminescenze pagane,
rese evidenti dall’uso di archi trionfali. Il percorso
di avvicinamento alla sede era segnato da frequenti
atti di omaggio da parte delle Autorità locali. Le
celebrazioni d’ingresso iniziavano non quando il
nuovo Arcivescovo varcava la porta della città ma con
la vestizione che avveniva nella Basilica di Sant’Eustorgio a cui seguivano la presentazione reciproca
con le istituzioni cittadine e il rito del bacio della
croce. Ogni fase della cerimonia avveniva in luoghi
diversi: la sagrestia, la Basilica, il sagrato. Terminata
la vestizione, il prelato raggiungeva l’altare maggiore della Basilica accompagnato da alcuni religiosi. L’ingresso di san Carlo nella diocesi di Milano
ha portato un’importante innovazione nel rituale: la
partecipazione collettiva e attiva del popolo organizzato in confraternite. Il corteo che ha accompagnato il Borromeo era aperto da due canonici assistenti, seguiti dall’Arcivescovo, dai vescovi suffraganei e da diversi cappellani, uno dei quali portava,
degli Ulivi di Gerusalemme tra il IV e il VII secolo,
citata per la prima volta da san Girolamo. Ben visibile
da lontano è sfolgorante soprattutto al mattino dato
che il sole sorgendo proprio da tale punto accende
con i suoi raggi l’oro: a questa immagine suggestiva
era associata l’idea del Cristo, sole nascente della
giustizia.
Da questo riferimento si può desumere il valore che
le croci d’oro hanno sempre assunto nel panorama
liturgico cristiano, in particolare se processionali,
come nel caso della Croce Capitolare: l’oggetto perde
la valenza concreta per assumere un significato
paradigmatico, quale segno di riconoscimento di un
popolo, stella polare cui orientarsi sempre, ideale di
moralità.
Nella liturgia del rito ambrosiano una croce aurea
gemmata era utilizzata durante la festa del ritrovamento della Croce il 3 maggio. Nel Medioevo, a
Milano, oltre che nella Cattedrale, questa ricorrenza
– così come ci è testimoniata da Beroldo142 – era
solennizzata nella Chiesa di Santa Maria ad circulum dove veniva portata una croce di tale
tipologia143.
(secoli I - inizio XVI), B. Ulianich (a cura di), Atti del Convegno
internazionale di studi (Napoli, 6-11 dicembre 1999), voll. 3,
Napoli-Roma, 2007, in particolare vol. II, pp. 49-55.
All’inizio del IV secolo, sotto Costantino, molti pellegrini,
giunti in città, si recavano su questa altura per vedere il Tempio,
distrutto dai Romani nel 70, prova evidente della veridicità della
profezia di Cristo (“Non resterà qui pietra su pietra”). Riportano
notizie di questi pellegrinaggi sia Eusebio di Cesarea († 339)
sia San Girolamo (†420), il quale parla di una croce risplendente d’oro che guardava le rovine dell’edificio sacro agli
Ebrei, simbolo della gloria di Dio e della forza con cui abbatte
gli idoli. Un episodio rafforza questa convinzione: quando nel
363, sotto l’imperatore Giuliano l’Apostata, si cercò di riedificare il luogo di culto, un terremoto fece fallire il tentativo e
i Cristiani celebrarono l’evento come una vittoria della Croce.
Un ulteriore tentativo di ricostruzione non andò a buon fine
perchè, per un miracolo, dal cielo piovvero pietre; anche in
questa occasione la Croce aveva trionfato. Gli Ebrei, anche dopo
la distruzione del Tempio, avevano mantenuto la consuetudine
di rivolgere le preghiere verso quel sito, posizionato a Est. I Cristiani si rivolgevano ad Oriente perché convinti che da quella
direzione Cristo sarebbe tornato alla fine dei secoli. Per i gerosolimitani questo significava pregare rivolgendosi verso il santuario degli Ebrei. Si cercò di evitare ambiguità e malintesi
innalzando sul Monte degli Ulivi una croce che risultava ben
visibile da lontano e sfolgorante. Probabilmente il simbolo
cristiano fu rimosso dopo la conquista araba.
(142) Beroldus sive ecclesiae ambrosianae mediolanensis kalendarium et ordines saec. XII, M. Magistretti (a cura di), Milano,
1894, p. 123
(143) Il prete che doveva cantare messa la baciava, e, dopo di
lui, gli altri. Quindi era condotta a San Pietro in vinea e, di là,
fino al Monastero Maggiore (P. BORELLA, Il rito ambrosiano,
Brescia, 1964, pp. 432-433). Si può notare che i due poli principali dell’itinerario si trovavano ai capi dell’area corrispondente a quello che era stato il Circo in epoca romana: si pensò
così che tale modo di solennizzare la festa rappresentasse la
sostituzione cristiana dell’antica pompa circensis. Altre ipotesi
vedono nella processione e nelle cerimonie che
l’accompagnavano un rito lustrale contro spiriti maligni in
favore dell’accrescimento della vegetazione come appunto,
nel mese di maggio, volevano gli antichi riti pagani; oppure,
pensando al Circo come il luogo dove alcuni cristiani avevano
subìto il martirio, si pensa che la Croce portata in corteo possa
avere anche un significato di trionfo (P. BORELLA, Il rito ambrosiano, cit. nota 143, p. 433; M. NAVONI, Croce, in Dizionario di
liturgia ambrosiana, M. Navoni (a cura di), Milano, 1996, ad
vocem, pp. 168-169).
(144) F. MARCHESI, Gli ingressi solenni degli arcivescovi in
Milano da Carlo a Federico Borromeo (1565-1595), in “Comunicazioni Sociali”, anno XXII, Aprile-Settembre 2000, pp.
169-219, in particolare nota n. 117, p. 185; F. RUGGERI, Un
documento inedito sull’ingresso dell’arcivescovo Gaspare Visconti,
in “Ricerche storiche sulla chiesa Ambrosiana”, XV, anno
1985, (Archivio Ambrosiano LVI), pp. 20-38, in particolare la
descrizione della processione a p. 31: “Deinde sequebantur
tres officiales Matropolitanae quorum medius erat notarius
ferens crucem archiepiscopalem, ad dextram erat lector ferens
mitram praeciosam, ad sinistram mazeconicus ferens baculum
pastoralem, omnes in equis tribus albis seu teardis.”
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VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO
issato su un bastone coperto di seta rossa, una mitria
preziosa, mentre un altro prelato reggeva il pastorale.
La processione era chiusa dal crocifero con la
croce145 che sul sagrato era trasportata da uno dei
custodi della Basilica. Questa preziosa insegna
veniva baciata dall’Arcivescovo inginocchiato su
uno sgabello mentre un illustre membro del Capitolo
gliela porgeva. Terminati i riti presso la chiesa di Sant’Eustorgio, il corteo nel quale erano rappresentate
tutte le componenti significative della città – tra le
quali, in posizione di spicco, era riconoscibile la
croce d’oro146 del Capitolo – si trasferiva nella Cattedrale.
Inoltre è ricordato un episodio147 in cui san Carlo,
rientrando a Milano da una visita pastorale, è accolto
da molti canonici che gli vanno incontro a sei miglia
dall’ingresso in città e da qui egli è stato preceduto
dalla croce “que ante Eum deferri solet148”, indicando
appunto quella con cui di solito lo si riconosceva: la
Capitolare.
Oggi è proprio la Croce processionale oggetto del presente studio ad assolvere la funzione di rappresentanza del Capitolo Metropolitano nelle processioni
solenni. In particolare, nonostante l’esposizione nel
Tesoro del Duomo, essa è ancora utilizzata nel cerimoniale di insediamento del nuovo Arcivescovo al
momento dell’ingresso in Cattedrale. Il bacio della
Croce “di san Carlo” rappresenta un segno di devozione verso la tradizione Ambrosiana e di deferenza
nei confronti del Capitolo Metropolitano che, in processione dalla Sacrestia Meridionale, preceduto da
questa insegna, si appresta ad accogliere il nuovo
Arcivescovo sulla soglia del portale maggiore del
Duomo. In uso nelle processioni solenni almeno dal
Settecento149, non è chiaro il momento in cui si
adotta come simbolo del Capitolo Metropolitano e
quindi della Diocesi tanto da utilizzarla nella cerimonia con il più alto grado di importanza e ufficialità.
Forse tutto è riconducibile alla figura del Santo
Arcivescovo da cui la Croce ha preso nome. Questa
oreficeria sacra viene detta “di san Carlo” senza
tuttavia che sia possibile una correlazione precisa
con il Santo Vescovo: non si è trovata traccia di
questa definizione che abbia fatto supporre si tratti
di un dono da parte del Borromeo, possibilità infatti
esclusa chiaramente anche dal Malvezzi150 e non
supportata da altri riferimenti.
San Carlo, nel suo cammino di spiritualità, concentra la sua attenzione sul crocifisso. L’Arcivescovo
di Milano non celebra solo la croce “extra nos ma se
ne appropria soggettivamente con tutti i mezzi a
disposizione dell’uomo credente: sentimenti, affetti,
pensieri, intenzioni, innumerevoli atti di mortificazione interni ed esterni, rinunce e sacrifici volontariamente assunti, costantemente cercati e praticati
per tutta la vita, in modo non sconsiderato ma con
crescente intensità, nella convinzione di poter imitare
da vicino Cristo crocifisso, modello di ogni cristiano
autentico.151” La vita di Gesù viene vista come magistero il cui vertice e compendio è la Croce, “libro
aperto a tutti davanti al quale nessuno può addurre
la scusa di non saper leggere 152 ”. Il Crocifisso
significa, per Carlo, “il dono estremo di sè da parte
di Gesù Cristo e il simulacro dell’efficacissima misericordia di Dio per noi.153”
L’ultimo episodio della sua vita è paradigmatico:
San Carlo “volle prepararsi alla morte in una scenografia che riproducesse da vicino il contesto della
dolorosa passione di Cristo.154” Il Giussano, suo biografo, commenta: “Aveva scolpita nel cuore la passione
e morte di Cristo nostro Signore, che mostrava di
avere in essa fissi tutti i suoi pensieri e che in questa
sola trovava contento; e poichè l’infermità l’impediva
di non poter al suo solito separarsi a contemplarla,
ne voleva almeno rimembranza avanti gli occhi. Al
cui fine fece accomodare un altare in camera ove
dava udienza ordinaria, detta la camera della croce,
(145) F. MARCHESI, Gli ingressi solenni degli Arcivescovi in
Milano , cit. nota 144, pp. 178-179
(146) Ibidem, p. 185 nota n. 117
(147) Diarium Magistri Caeremoniarum Ecclesiae Metropolitanae Mediolani de functionibus ecclesiasticis quibus Sanctus
Carolus interfuit vel praefuit, ab anno 1574 ad annum 1577,
Biblioteca Trivulziana di Milano, Ms. 1448, in L. MAGNI,
L’attività liturgico-pastorale di San Carlo Borromeo nei diarii
del maestro delle cerimonie, Tesi di Laurea, a.a. 1978-1979, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, p. LXXXIII, il
giorno 24 febbraio 1575 (VI Kalendas martias).
(148) Ibidem
(149) S. LATUADA, Descrizione di Milano..., cit. nota 87, p. 99
(150) L. MALVEZZI, Il tesoro del Duomo..., cit. nota 87, pp. 1112
(151) F. BUZZI, Il tema della Croce nella spiritualità di Carlo
Borromeo. Rivisitazione teologica e confronto con la prospettiva
luterana, in Carlo Borromeo e l’opera della “Grande Riforma”.
Cultura, religione e arti nel governo della Milano del pieno
Cinquecento, F. Buzzi – D. Zardin (a cura di), Cinisello Balsamo
(MI), 1997, pp. 47-58, in particolare p. 48
(152) D. TETTAMANZI, San Carlo e la croce. Itinerari di Catechesi, Milano, 1984, pag. 55
(153) F. BUZZI, Il tema della Croce nella spiritualità di Carlo
Borromeo, cit. nota 151, p. 50
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per maggior comodità di essere visitato e servito nell’infermità. Sopra il detto altare fece porre un quadro
della sepoltura di nostro Signore; ed un altro simile
che teneva nel suo segreto camerino sotto i tetti, fece
mettere sopra il suo letto, ed un altro a’ piedi dello
stesso letto, nel quale era similmente nostro Signore
orando nell’orto; per potere da ogni parte che si
volgeva, fissar gli occhi ne’ misteri sacrati di questa
santissima passione.155”
Forse è azzardato pensare che la Croce arcivescovile
detta “di san Carlo” sia stata presente in quella
“Camera della Croce”? L’ipotesi può sembrare suggestiva se si pensa che questa particolare oreficeria
è portatrice dei diversi significati – teologici, antropologici, simbolici – così cari al Borromeo, riassunti magnificamente in un unico preziosissimo
oggetto diventato simbolo dell’intero Capitolo Metropolitano che ha in san Carlo il suo più illustre Arcivescovo.
Auspico che l’oggetto di questo studio, suggerito dalla
Dott.ssa Giulia Benati, espressione dell’interesse
suscitato dalle lezioni coinvolgenti della Prof.ssa
Annalisa Zanni, possa apportare un contributo alla
storia dell’arte della città che mi ha formato culturalmente e alla quale sono ormai affettuosamente
legata.
Desidero ringraziare la Prof.ssa Annalisa Zanni,
relatrice della mia tesi di specializzazione, per
l’impegno, l’attenzione, gli insegnamenti, il Prof.
Enrico Mazza per i suggerimenti e le indicazioni, la
Dott.ssa Giulia Benati per l’attenzione, la collaborazione e il supporto tecnico-scientifico. A loro vanno la
mia stima e la mia gratitudine.
Riconoscente per il prezioso aiuto alla Veneranda
Fabbrica del Duomo e al Capitolo Metropolitano di
Milano, sono profondamente grata per i fondamentali
suggerimenti al Sig. Franco Blumer, al Dott. Ernesto
Brivio Sforza, al Prof. Ulderico De Piazzi, alla Prof.ssa
Mirella Ferrari, al Dott. Roberto Fighetti, a Mons.
Claudio Fontana, al Prof. Stefano Lanuti, al Dott.
Stefano Malaspina, alla Prof.ssa Lucia Marchese
Maiola, a Mons. Marco Navoni, alla Prof.ssa
Mariolina Olivari, al Prof. Marco Petoletti, al Sig.
Mauro Ranzani che hanno contribuito alla buona
riuscita della ricerca.
Alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il
Paesaggio – Milano, nelle persone del Soprintendente Arch. Alberto Artioli, Sig.ra Lorenza Dall’Aglio,
Sig.ra Artemisia Fasano, Sig. Marco Gatti, Arch.
Giuseppe Napoleone, Dott.ssa Giancarla Ricciardi e
a tutto il personale del Museo del Cenacolo Vinciano
va la mia riconoscenza.
Inoltre estendo questo ringraziamento a tutti coloro
che hanno creduto in me, in particolare alla mia
famiglia che ha dimostrato l’affetto di sempre.
Dedico questo elaborato alla mia cara mamma.
(154) Ibidem
(155) G. P. GIUSSANO, Vita di San Carlo Borromeo prete cardinale
del titolo di Santa Prassede, arcivescovo di Milano, 2 voll.,
Varese, 1937, vol. II, libro VIII, cap. XII, p. 172
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