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La croce astile capitolare detta di San Carlo

2010, Nuovi Annali

E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, Roma, 1995, p. 231; J. HALL, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell 'arte, Milano, 1974, p. 122 (10) L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 471-472 (11) "I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: "Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca". Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte." (Gv, 19, 23-24) (La sacra Bibbia, Torino, 1993Torino, , p. 1155) Tutti e quattro gli Evangelisti ricordano questo episodio, ma mentre tre (Mt 27,35 -Mc 15,24 -Lc 23,34) ne riferiscono indirettamente, Giovanni ne parla in modo diffuso e dettagliato, precisando anche in quante parti divisero le sue vesti: in quattro, per assegnarne una a ciascuno. Tirano a sorte solo la tunica che non dividono come fanno con le altre. L'Evangelista ne spiega il motivo: quella tunica era senza cuciture, tessuta per intero dall'alto in basso, tutta d'un pezzo e non sarebbero riusciti ad avere ciascuno una porzione senza stracciarla. Appunto per evitare questo, preferirono sorteggiarla così che toccasse ad uno solo. La testimonianza profetica (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 348) concorda perfettamente con la narrazione dell'Evangelista Giovanni, come questi del resto sottolinea, aggiungendo:

NUOVI ANNALI - 2010 Valentina Ferrari La croce astile capitolare detta “di san Carlo” custodita nel tesoro del Duomo di Milano Analisi iconografica, stilistica, liturgica e conservativa Appartenente alla tipologia descritta da san Carlo Borromeo nelle sue “Instructionum Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae Libri Duo” 1, la croce2 detta “di san Carlo” ha una forma pressochè quadrangolare3, con i bracci patenti terminanti ciascuno in due volute laterali e una potenza quadrilobata al centro (figg. 1-2). Un recente restauro4 (2003) della Croce Capitolare ha permesso di approfondire le conoscenze tecnicostrutturali di questo prezioso oggetto. L’anima lignea5 è completamente rivestita da lamine d’oro lavorate con le tecniche dello sbalzo e del cesello che, unitamente all’utilizzo della brunitura – lucidatura con pietra d’agata a diverse intensità –, denotano una grande maestria e una ricercata raffinatezza dell’opera. Lungo i bordi delle lamine sono presenti punzonature con ferro a forma di foglia6. Le figure sono sbalzate, il Cristo è in fusione. Il nodo è realizzato in oro mentre l’asta – utilizzata nelle processioni solenni – è in argento e argento dorato. Nella sua apparente semplicità ed eleganza, la croce presenta un programma decorativo complesso e meditato. Le fasce che decorano i bordi laterali dell’oggetto presentano le medesime lavorazioni, segno inequivo- (1) C. BORROMEO, Instructionum Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae Libri Duo, S. Della Torre, M. Marinelli, F. Adorni (a cura di), Città del Vaticano, 2000, pp. 304-307; M. L. GATTI PERER, Instructionum Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae Libri Duo, parte seconda Regulae et instructiones de nitore et munditia ecclesiarum, altarium, sacrorum locorum, et supellectilis ecclesiasticae, traduzione italiana a cura di Z. Grosselli, Milano, 1983, pp. 113-115. Descrivendo la forma adatta a questa immagine sacra San Carlo dà le seguenti indicazioni: “La croce, che si collocherà o sopra l’altar maggiore, o sopra il tabernacolo dell’Eucaristia, sarà di forma pressoché quadrangolare, con la parte inferiore un po’ più prolungata e terminante con un’appendice tubolare, in modo da poter facilmente essere rimossa dalla sua base in occasione delle processioni o di altri uffici per cui ciò sia necessario. La grandezza della croce sarà ben proporzionata alle dimensioni e al decoro dell’altare. Nella Basilica Cattedrale e nella chiesa Collegiata la croce dell’altar maggiore sarà laminata d’oro o (in caso di minori disponibilità economiche) d’argento: questa sarà usata nelle solennità e negli uffici; una seconda croce, di ottone dorato, convenientemente lavorata, si userà negli altri giorni. [ ...] La croce capitolare o quella che si porta nelle processioni, nei funerali e in altri riti e funzioni per tradizione, avrà un’asta ben solida e convenientemente dipinta, su cui essa si innesti saldamente.” In particolare il Santo vescovo prevede il mantenimento dell’uso di una piccola croce quadrata “alta e larga due cubiti o poco più” con una corta impugnatura dove è tradizione come, per esempio, nella Chiesa ambrosiana. (2) La Croce astile Capitolare detta “di San Carlo” e la Croce astile Stazionale dell’altare maggiore: due capolavori di oreficeria custoditi nel Duomo di Milano. Analisi iconografica, liturgica, conservativa e storico-artistica. Tesi della Scuola Specializzazione in Storia dell’Arte indirizzo in Storia dell’arte medievale e moderna discussa il 17 novembre 2010 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Relatore Chiar. ma Prof. ssa Annalisa Zanni – Correlatore Chiar. mo Prof. Enrico Mazza. Questo saggio è un estratto della tesi di Specializzazione in Storia dell’Arte che ha preso in considerazione l’analisi iconografica, liturgica, storico-artistica e conservativa della Croce Astile Capitolare detta “di san Carlo” e della Croce Astile Stazionale dell’altare maggiore del Duomo di Milano. In questa sede si parlerà diffusamente dell’oreficeria legata al Santo Arcivescovo riservando ad un successivo intervento lo studio dell’interessante Croce Stazionale. La ricerca è iniziata con un’analisi approfondita da un punto di vista dell’iconografia e dei materiali supportata da una campagna fotografica ricca di dettagli per consentire importanti confronti decorativi e stilistici. (3) Misure: h. cm. 120 – con il puntale cm. 235 – x l. cm. 91 x p. cm. 4 (4) S. ANGELUCCI, Il Restauro della Croce Capitolare del Duomo di Milano, relazione e scheda di restauro, Archivio Corrente del Capitolo Metropolitano, Milano (5) Il legno sagomato si presenta di varie essenze con lamelle di piccole dimensioni unite ad incastro e fissate con colla animale. I bracci sono uniti mediante due lastre di ferro avvitate. Anche il puntale è fissato alla croce con il medesimo sistema (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro, punto n. 16). (6) S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro, punto n. 14 143 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO Fig. 1. 144 NUOVI ANNALI - 2010 Fig. 2. 145 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO cabile dell’uniformità del lavoro del maestro. Al centro è posta una treccia cui sono accostate ai lati due bande lisce. All’esterno, con una leggera inclinazione verso l’alto, corrono due fasce a foglia dorica7 e un ulteriore raccordo con l’interno delle lamine dei bracci dove è presente una profilatura a “ovuli e freccette”8. La chiusura dei bordi nei riccioli delle volute terminali è realizzata con l’inserimento di una foglia di acanto distesa: sembra che l’orafo abbia voluto mostrare non solo la sua perizia tecnica ma soprattutto la conoscenza specifica, approfondita, rigorosa dell’arte greco-romana aggiornata sul gusto del Rinascimento. Nelle otto placchette delle potenze quadrilobe, oltre ai motivi ornamentali finora descritti, è presente anche un profilo a palmette o conchiglie cesellate per evidenziare ancor di più le figure rispetto al piano d’appoggio. Sul recto l’ovale all’incrocio dei bracci è ulteriormente sottolineato da un elemento a cordone (assente, invece, nella corrispondente placchetta del verso). Le lamine interne dei bracci di entrambe le facce sono lavorate a ferro zigrino che dà l’effetto di una fitta puntinatura satinata per far risaltare il disegno a motivi ornamentali lucidi. Le lamine del recto della croce mostrano un programma iconografico incentrato sui simboli della Passione di Cristo: tutti uniformemente guarniti con fiocchi e nastri sono collocati negli ovali ricavati da una concatenazione intrecciata di foglie d’acanto lucide con steli a lavorazione pointillée. La placchetta ovale (fig. 3) all’incrocio delle aste presenta una veste connessa ad un lungo nastro che si snoda in complesse volute e alla sommità si amplifica in un ricco fiocco. Eccezionale è la resa del tessuto realizzata attraverso un trattamento particolare della lamina d’oro che rende visibile l’intreccio di trama e ordito tanto da sembrare tela di lino o canapa: nessuna cucitura è presente tranne nello scollo a V sottolineato da una bordura liscia che è ripresa anche nell’orlo delle maniche. Questo indumento è identificabile con il “colobium”, la lunga tunica9 inconsutilis che Gesù indossa durante Fig. 3. la Passione, da cui è spogliato prima della Crocifissione10 e che diventerà in seguito una reliquia11. Iconografia Cristiana, Bologna, 1964, p. 88; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Milano, 1984, pp. 268-269 e pp. 348-349; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, Roma, 1995, p. 231; J. HALL, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano, 1974, p. 122 (10) L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 471-472 (11) “I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte.” (Gv, 19, 23-24) (La sacra Bibbia, Torino, 1993, p. 1155) Tutti e quattro gli Evangelisti ricordano questo episodio, ma mentre tre (Mt 27,35 – Mc 15,24 – Lc 23,34) ne riferiscono indirettamente, Giovanni ne parla in modo diffuso e dettagliato, precisando anche in quante parti divisero le sue vesti: in quattro, per assegnarne una a ciascuno. Tirano a sorte solo la tunica che non dividono come fanno con le altre. L’Evangelista ne spiega il motivo: quella tunica era senza cuciture, tessuta per intero dall’alto in basso, tutta d’un pezzo e non sarebbero riusciti ad avere ciascuno una porzione senza stracciarla. Appunto per evitare questo, preferirono sorteggiarla così che toccasse ad uno solo. La testimonianza profetica (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 348) concorda perfettamente con la narrazione dell’Evangelista Giovanni, come questi del resto sottolinea, aggiungendo: (7) Cymatium doricum; G. ROCCO, Guida alla Lettura degli ordini architettonici Antichi. Il Dorico, Napoli, 1994, vol. I, p. 24 (8) Cymatium ionicum; cit. nota 7 (9) L. CLOQUET, Eléments d’iconographie chrétienne, Lille, 1890, pp. 50-51; G. FERGUSON, Signs & Symbols in Christian Art, New York, 1954, p. 319; L. RÉAU, Iconographie de l’art chrétien, Paris, 1957, tomo II Iconographie de la Bible, vol. II Nouveau Testament, pp. 15/497-498; R. FARIOLI, Elementi di 000 NUOVI ANNALI - 2010 Nel braccio verticale, dall’alto verso il basso lungo un nastro cui sono legati da fiocchi e intrecciati con ramificazioni vegetali, sono stati collocati (fig. 4): la scala12, il guanto13, la lancia incrociata all’asta con la spugna14, una preziosa ampolla15. Le lamine del “Perché si adempisse la Scrittura: Si divisero tra loro i miei vestiti e sulla mia tunica hanno tirato a sorte” (Ps 22 (21),19: “Si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte”) (La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 584). (12) Una tradizione dei Padri della Chiesa vede nella scala che sale al Cielo la stessa Croce di Cristo per l’antica simbologia di un’asse perpendicolare che unisce il cielo e la terra (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 307), esaltandone la funzione di veicolo dell’ascesi mistica (M. BATTISTINI, Simboli e allegorie, Milano, 2002 (rist. 2003), p. 238). La presenza di questa immagine rimanda al momento della deposizione di Cristo dalla Croce compiuta da Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (Mc, 15, 46) (La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 1095). (13) Simile a quelli dei centurioni romani con lamine di metallo chiodate per ripararsi dalle percosse e nello stesso tempo colpire con maggiore violenza: allusione (G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, pp. 65-66; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 268; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 253) all’episodio verificatosi dopo l’arresto di Gesù oggetto di derisione (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 192-193), sputi, scherni, schiaffi e percosse (Mt, 26, 67 – Mc, 14, 65 – Lc 22, 63) (La sacra Bibbia, cit. nota 11, pp. 1071/1093/1127). (14) Sotto le gambe del Nazareno sono raffigurate, entro la cornice di foglie d’acanto, l’asta con la spugna sulla parte terminale e la lancia, unite al centro da un fiocco, entrambe utilizzate negli ultimi momenti della Passione da due soldati romani identificati secondo la tradizione degli Acta Pilati: Stephaton ha offerto a Gesù la spugna (G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 322) imbevuta nell’aceto mentre Longino gli ha perforato il costato con una lancia per constatarne la morte (L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 496; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 193194/268; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 122/241; G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 316; L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino del Cristo ferito, Roma, 1995, pp. 117-128). Ecco cosa ci riporta il Vangelo di Giovanni (Gv., 19, 28-37): “Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò.” La profezia del salmo 69 (68), 22 si è così compiuta: “Invece hanno messo fiele nel mio cibo, per la mia sete mi hanno dato aceto” (La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 607). E ancora: “Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero Fig. 4. braccio orizzontale (fig. 1) partendo dalla sinistra dell’osservatore presentano due flagelli annodati da portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro che era stato crocifisso insieme con lui. Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto.” (Gv, 19, 31-37) (La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 1156). Il Cristo Crocifisso è assimilato all’agnello pasquale a cui non si dovevano spezzare le gambe (L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 495). (15) Questo elemento potrebbe riferirsi sia alla deposizione dalla croce in cui spesso si trovano Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo con un vaso di profumo, una mistura di mirra e aloe per la preservazione del sacro corpo (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 136), sia alla deposizione nel sepolcro in cui le tre Marie “mirrofore” utilizzano balsami contenuti in ampolle (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 346; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 411). 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO che ebbe Papa Gregorio Magno25. Il maestro orafo ha volutamente dato risalto al valore della Croce e degli emblemi26 di Gesù per sottolineare l’importanza del sacrificio di Cristo che è evidenziato anche dalla presenza dei nastri e dei fiocchi: un riferimento classico alle bende svolazzanti che rimandano al rito sacrificale27. Luso ornamentale si è diffuso soprattutto nella grande stagione della riscoperta del Classicismo Greco-Romano28, in particolare nelle arti decorative29. un nastro svolazzante16, i chiodi17 utilizzati per fissare Cristo ai legni della croce, il martello18 per inchiodare il Nazareno alla croce insieme alle tenaglie19 per estrarre i chiodi dal corpo durante la Deposizione e infine le fiaccole intersecate quale riferimento20 al tradimento di Giuda21 o al momento in cui Gesù esalava l’ultimo respiro22. Tutti questi simboli costituiscono le cosiddette “Armi della Passione23”, che da strumenti di supplizio diventano, dopo la Resurrezione, trofei di Vittoria. La consuetudine di raffigurare gli elementi della Passione trae probabilmente origine dalla cosidegorio24, una scena in auge nel XV secolo che rappresenta, secondo la tradizione, la visione miracolosa (25) La leggenda ci narra di un uomo che metteva in dubbio il fatto che Cristo fosse realmente presente sull’altare mentre si celebrava, così Gregorio pregò ardentemente affinché Cristo comparisse durante la messa. Appena il santo finì la preghiera, Cristo apparve sull’altare con gli strumenti della Passione. A questa tradizione si ispirerebbero le immagini e le opere d’arte che ripropongono tutti questi simboli. L’araldica se ne è appropriata: al Signaculum Domini, vero blasone con le cinque piaghe del Salvatore, nel XIII secolo si aggiunge un raggruppamento degli strumenti della Passione di Gesù riuniti in trofeo e disposti nel campo di uno scudo. Queste composizioni ieratiche sono state chiamate Stemma della Passione, Armi o Blasone di Gesù Cristo. All’inizio erano solitamente raffigurati la croce, la corona di spine, la colonna e le verghe della flagellazione, i chiodi, la spugna e la lancia. Nel XV secolo si aggiungono i trenta denari di Giuda, il servo del pontefice Malco e il suo orecchio attaccato al coltello di san Pietro, il gallo del rinnegamento, una testa che sputa, una mano che schiaffeggia il volto di Cristo, la colonna della flagellazione, la lanterna dell’arresto nel Getsemani, le corde che lo legarono, la brocca e il bacile usate da Pilato per lavarsi le mani, il velo della Veronica, la veste senza cuciture e i dadi che servirono a tirarla a sorte, il martello per piantare i chiodi, le tenaglie per toglierli e la scala per la discesa di Cristo dalla croce (L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 508-509; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 267-269; L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota 14, pp. 145-148). Talvolta, invece di essere raffigurati in gruppo, questi emblemi sono separati da angeli o posti ciascuno su uno scudo (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota 14, p. 145). (26) Questa iconografia la distingue dai programmi tematici che solitamente si sviluppano nei bracci delle croci: mentre, infatti, le raffigurazioni nelle potenze variano secondo la tradizione, nelle lamine interne mancano alcuni simboli normalmente presenti quali il titulus con il nome del condannato, il suppedaneum per appoggiare i piedi, il teschio di Adamo che sarebbe stato sepolto sul Golgota e bagnato dal sangue di Cristo (L. CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit. nota 9, pp. 66-67/73). (27) P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, Torino, 2006, p. 127 (28) K. OBERHUBER, The works of Marcantonio Raimondi and of his school, The illustrated Bartsch, nn. 26-27, New York, 1978; AA. VV., The engravings of Marcantonio Raimondi, Lawrence (Kansas), 1984 (29) Nella miniatura, per esempio, si ornano le iniziali o le cornici di pagine di codici di varie tipologie con passamanerie (16) I flagelli, usati come metodo di punizione per i trasgressori della legge e utilizzati anche durante il processo di Gesù, rientrano a pieno titolo tra gli strumenti della Passione (G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 321; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 160-161/268; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 373) (17) Sono tradizionalmente considerati delle reliquie molto importanti. (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 268) Una leggenda medievale vuole che la Regina Elena (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 102), madre di Costantino, ne sia venuta in possesso e li abbia custoditi. Fino al XII secolo in alcune raffigurazioni se ne trovano quattro (L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 480; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 100; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 121). In genere, però, sono ricordati in numero di tre (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 102), due per gli avambracci e uno che tratteneva entrambi i piedi, soprattutto se raffigurati separatamente come strumenti della Passione perché evocativi della santissima Trinità (G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 317). (18) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 268-269; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239 (19) Ibidem (20) Possibili interpretazioni: la lanterna degli sgherri nel Getsemani o la lanterna di Malco spesso però rappresentata con il suo orecchio ancora attaccato alla spada corta di Pietro (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 268) (21) “Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi” (Gv, 18, 3) (La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 1153) (22) “Si fece buio su tutta la terra” (Mc, 15, 33). (La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 1094; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 239) (23) L. CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit. nota 9, p. 51; L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, p. 15 (24) L. CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit.nota 9, pp. 51-53; L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 508-509; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 382 146 NUOVI ANNALI - 2010 Anche se di diversa tipologia, il celebre Reliquiario del Libretto30 (1501) si presta al confronto per il decorativismo antichizzante e per la presenza nello scomparto centrale della parte frontale di un riquadro con la raffigurazione a smalto degli strumenti della Passione proprio dove erano collocate le reliquie. Questa tradizione è assai rara ma se ne trova successiva traccia in due croci processionali seicentesche di area toscana, entrambe di autore ignoto: la croce della Chiesa di Santa Maria a Ripa ad Empoli (argento sbalzato, cesellato, inciso e parti in fusione, cm. 55 x 36, 1624) e quella della Chiesa di Santa Felicita a Firenze (argento sbalzato, cesellato, inciso e parti in fusione, cm. 84,5 x 47, 1664). Entrambe sono caratterizzate da terminali con formelle quadrilobe mistilinee, proposte sia all’incrocio dei bracci sia ad un terzo dell’altezza del braccio verticale, in corrispondenza dei piedi di Cristo; sul verso all’interno delle potenze sono raffigurati i simboli della Passione. I due manufatti presentano elementi strutturali e decorativi mediati dal repertorio quattrocinquecentesco che le inseriscono all’interno di una produzione arcaizzante documentata proprio dalle croci processionali31. La Croce Capitolare rientra in questo modello, del quale costituisce un’interpretazione di grande qualità sia da un punto di vista decorativo ma anche e soprattutto stilistico. La resa dei particolari è di fattura elevatissima e l’artista ha voluto mostrare tutte le sue migliori capacità per una commissione importante e di alta risonanza. L’annodarsi dei nastri agli oggetti è ideale per dare il senso di tridimensionalità e il gioco di chiaroscuro, escogitato per fare risaltare meglio le decorazioni, è realizzato grazie alla lavorazione a ferro zigrino che solo un eccellente orafo sarebbe riuscito ad utilizzare in modo così fitto e preciso, sempre seguendo i contorni degli oggetti per esaltarne le forme. Così, la scala posta in tralice mostra i gradini alti e robusti, il guanto del centurione sembra essere quello di un’armatura studiata dal vero tanto le lamelle chiodate, il risvolto e l’attaccatura della manica sono precise. L’attenzione rivolta alla veste di Gesù emerge nella resa quasi palpabile del tessuto e delle finiture. La lancia e la spugna sono nascoste dalle gambe del Cristo ma non per questo hanno ricevuto minore attenzione: la lama è tagliente e la spugna ben imbevuta di aceto. Il vaso degli unguenti è semplice nella forma ma impreziosito da un basamento ben percepibile e dal coperchio legato ad una catenella in metallo con una splendida lavorazione a torchon. I flagelli sembrano vibrare nella loro ondulazione quasi che abbiano appena colpito il corpo nudo del Cristo, con i punzoni terminali appuntiti, mossi e rilucenti. I tre chiodi emergono dal fondo della lamina leggermente sbalzata; la disposizione a raggiera dei tre elementi singoli ma uniti grazie al nodo centrale sottolinea l’idea della Trinità di Dio. L’attenzione meticolosa nella realizzazione dei dettagli di martello e tenaglie suggerisce il riferimento ai medesimi strumenti che l’orafo utilizza nel suo mestiere: sono riconoscibili, infatti, il martello da cesellatore e le tenaglie per forgiare i metalli. È quasi una firma, una sigla, un’indicazione precisa che il maestro ha voluto dare per sottolineare il valore del suo operato ed esaltare la categoria degli orefici. Le fiamme delle fiaccole sembrano ardere e scintillare: grazie alla lavorazione a puntinatura sono visibili i rami dei fastelli e le singole lingue di fuoco che si alzano e sfavillano ricreando così non solo il dettaglio ma quasi il movimento stesso del fuoco. Questa particolare decorazione può trovare riscontri negli ornati architettonici e nei fregi delle miniature. Un riferimento interessante a livello scultoreo si trova nel Duomo di Piacenza, nelle paraste dell’altare Bagarotti. Lo scultore milanese Ambrogio Montevecchia32 realizza quest’opera su commissione del vescovo di Bobbio, Battista Bagaroto, nel 1504. La composizione prevede il Crocifisso con la Vergine e San Giovanni Evangelista mentre sulle paraste sono scolpiti i simboli della Passione annodati con fiocchi come in come sostegni di diversi strumenti. L’utilizzo di fasce per sorreggere oggetti vari e in particolare le armi è riscontrabile in ambiti e tematiche diversi. (AA. VV., The painted Page. Italian Renaissance book illumination 1450-1550, London and Munich, 1994; Liturgia in figura. Codici liturgici rinascimentali della Biblioteca Apostolica Vaticana, G. Morello – S. Maddalo (a cura di), Roma, 1995) (30) L. BECHERUCCI, Il Reliquiario del “Libretto”, in Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, L. Becherucci – G. Brunetti (a cura di), voll. 2, Milano, 1969-1970, vol. II, scheda n. 21, pp. 250-253 (31) Argenti fiorentini dal XV al XIX secolo. Tipologie e marchi, D. L. Bemporad (a cura di), Firenze, 3 voll., 1993, in particolare vol. II, scheda n. 100, pp. 158-160 e scheda n. 153, pp. 231233 (32) L. OZZOLA, Uno scultore lombardo del Rinascimento. Ambrogio Montevecchi, in “Rassegna d’Arte”, anno XI, 1911, pp. 175-176; G. AGOSTI, Bambaia e il classicismo lombardo, Torino, 1990, p. 60 e p. 92 nota n. 56; V. ZANI, Ambrogio Montevecchia, scultore nel Duomo di Milano e per Battista Bagarotti, in “Nuovi Studi”, n. 7, anno IV, 1999, pp. 35-56 147 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO una candelabra33, stilema antichizzante portato in auge tra Quattro e Cinquecento da scultori del calibro di Bramante, Briosco, Amadeo e Bambaia. Interessante notare la stessa modalità di impostazione ripresa anche nella nostra oreficeria tanto più che l’artista è stato riconosciuto in un “Ambrosius de Montevegia lapicida” di cui fanno menzione gli Annali della Fabbrica del Duomo di Milano, identificato anche con un “Ambrosius de Montenegro” cui si accenna nei registri del 1507 e 151834. La decorazione della Croce Capitolare emerge ovviamente anche nelle figurazioni dell’incrocio dei bracci e delle potenze che trasmettono l’energia e la fantasia dell’artista. Al centro del recto della Croce, Cristo Crocifisso emerge con potenza ed eleganza (fig. 5). La figura è essa stessa disposta a forma di croce in una sorta di abbraccio universale del Verbo Incarnato e Immolato per la Salvezza Eterna: il simbolismo traspare dall’espressione regale, arrendevole al supplizio ma serena e consapevole del sacrificio supremo. Il viso rivolto a destra ormai esanime e dolcemente indirizzato per l’ultima volta verso lo sguardo affranto della Madre, i capelli mossi e raggruppati a boccoli, la barba corta e bipartita, gli occhi socchiusi, le braccia tese e le gambe composte ed eleganti fanno emergere con grazia un’attenzione precisa per l’anatomia del corpo e i dettagli decorativi. Grande rilevanza è data, infatti, alla resa dello sforzo fisico e muscolare così preciso da far presupporre uno studio “accademico” del nudo tanto che il drappo che cinge le membra e ricade sulle gambe lascia percepire le articolazioni sottostanti. I pochi particolari iconografici sono peculiari e meticolosamente realizzati: la corona di spine posta sul capo è molto realistica ed efficace; il perizoma leggero, con il bordo superiore di un tessuto più pesante orlato nella parte inferiore, è raccolto sul fianco destro creando un ritmo di plissettature e pieghe originale, quasi un gioco di superficie. Fig. 5. Un confronto interessante emerge da alcune miniature assegnate al corpus di opere di Giovanni Giacomo Decio35, appartenente alla nota famiglia di artisti lombardi che ha dato un notevole con(35) Per un approfondimento: G. BOLOGNA, Miniature Lombarde della Biblioteca Trivulziana, 2 voll., Milano, 1973-1974; A. NOVASCONI, Le Miniature di Lodi, Lodi, 1976; AA. VV., Decio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXIII, Roma, 1987, pp. 544-561; P. L. M ULAS , Un problema di miniatura lombarda tra Quattro e Cinquecento, in B. F. e il Maestro di Paolo e Daria. Un codice e un problema di miniatura lombarda, L. Giordano (a cura di), Binasco, 1991, pp. 135-212; S. PETTENATI, La miniatura, in Il Museo della Certosa di Pavia, B. Fabjan, P. C. Marani (a cura di), Firenze, 1992, pp. 295-319; R. MELLINI, I corali di Santa Maria Rossa di Crescenzago e la miniatura lombarda rinascimentale, in “Paragone”, n.s. 5-67, 551-553-555, anno 1996, pp. 127-143; Grandi pittori per Piccole Immagini nella Corte pontificia del ’500. I corali miniati di San Pio V, S. Pettenati (a cura di), Alessandria, 1998; P. L. MULAS, Aggiunte al catalogo giovanile di “Decius”, in “Artes”, n. 10, anno 2002, pp. 5-20; P. L. MULAS, Decio Agostino, Giacomo, Giovanni, Giovanni Antonio (de Desio, Detius, Decius), in Dizionario Biografico dei Miniatori Italiani. Secoli IX – (33) È possibile riferire un altro esempio: nella Chiesa di Santo Spirito a Firenze Andrea Sansovino scolpisce nelle paraste dell’altare del Sacramento i simboli della Passione, anche in questo caso disposti come una candelabra e legati con nastri (Altare de’ Corbinelli). (A. VENTURI, Storia dell’arte italiana, La scultura del Cinquecento, vol. X, Parte I, Milano, 1935, pp. 122-128) (34) L. OZZOLA, Uno scultore lombardo del Rinascimento..., cit. nota 32; V. ZANI, Ambrogio Montevecchia..., cit. nota 32, nota n. 1, pp. 48-49 148 NUOVI ANNALI - 2010 tributo alla storia delle arti per quasi due secoli, dalla metà del Quattrocento al Seicento inoltrato. Gli anni intorno al 1530-1535 coincidono con le grandi commissioni artistiche affidategli dalla corte o dall’entourage sforzeschi, in particolare le imprese più impegnative dei corali di Vigevano e del messale di Santa Maria della Scala. Il 17 luglio 1537 Giovanni Giacomo Decio compare36 tra gli artisti illustri – Agostino Busti detto il Bambaia, Cristoforo Lombardo, Cesare Cesariano, ecc. – chiamati a definire la forma della porta del Duomo di Milano verso Compedo37. Questa testimonianza è fondamentale per comprendere l’importanza del Decio quale punto di riferimento stilistico della Croce Capitolare. Egli figura tra le personalità artistiche più importanti assunte dalla Fabbrica del Duomo di Milano per creare opere di alta qualità. Le sue miniature, i disegni, gli schizzi realizzati in quest’epoca trovano dei richiami nelle figure a sbalzo. Il massimo rappresentante del classicismo milanese di primo Cinquecento nel settore delle cosiddette arti congeneri38 si orienta verso modelli raffinati: da un lato, il repertorio ornamentale antichizzante di Antonio da Monza, un miniatore di formazione tardoquattrocentesca, dall’altro, il classicismo di Zenale e Bramantino, recepito attraverso la declinazione ricercata e virtuosistica delle sculture39 del Bambaia con cui è stata ipotizzata una collaborazione stretta, quasi che proprio nell’ambito di questo scultore abbia mosso i primi passi della sua carriera40. Inoltre un probabile viaggio a Roma, nel periodo di assenza documentata da Milano, ha sicuramente accentuato questa propensione, riaccendendo gli interessi per le incisioni della cerchia di Raffaello di cui emerge il ricordo nelle miniature dei corali di Crescenzago oltre che per le pagine miniate di Matteo da Milano, delle quali si coglie un’eco nella produzione degli anni trenta41. E’ proprio in questo filone classicheggiante che si inserisce il maestro che ha realizzato l’opera qui Fig. 6. presa in esame: non si può escludere un suggerimento a livello di disegni o comunque un supporto tecnicostilistico del “Decius” data la sua familiarità con i responsabili del cantiere della Cattedrale milanese. Le corporature robuste, i panneggi morbidi contraddistinti da un’infinità di pieghe avvolgenti, la precisione dei dettagli, la caratterizzazione della psicologia dei personaggi risentono della formazione culturale e dei modelli più elevati data la preziosità e l’importanza della commissione. Per quanto riguarda la figura del Cristo, si possono citare diversi parallelismi con Crocifissioni miniate42 realizzate attorno al 1531-33 per Francesco II Sforza: l’evangelistario personale del duca e i quattro codici liturgici donati alla Cattedrale di Vigevano (fig. 6). Ecco i punti in XVI, M. Bollati (a cura di), Milano, 2004, pp. 194-196; P. L. MULAS, Giovanni Giacomo Decio. Il miniatore dei corali di Vigevano, Vigevano, 2009. (36) Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine fino al presente, vol. III (1481-1550), Milano, 1880, p. 265 (37) MULAS P. L., Giovanni Giacomo Decio..., cit. nota 35, p. 62 (38) Ibidem (39) Ibidem, p. 47 (40) Ibidem, pp. 94-95 (41) Ibidem, p. 100 (42) Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, 1532-1533, Paris, Musée du Louvre, Cabinet des dessins, RF 445 r; Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Messale Romano, 1533, Vigevano, Museo del Tesoro del Duomo, s.s., f. 121 v; Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Messale Ambrosiano, 1535, New York, The Pierpont Morgan Library, M 377, f. 59 v; Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Missale Romanum, Venezia, Gerolamo Scotto, 1543, [8], f. 139 v. 149 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO comune: l’anatomia del corpo studiata attentamente, l’espressività del viso e la sua inclinazione, il perizoma leggero e increspato. Dalla cultura artistica coeva si rintracciano in ogni figurazione spunti e suggestioni evidenti nell’accurata precisione e meticolosità di realizzazione sinonimo di fantasia inventiva oltre che di bravura tecnica. Nella potenza superiore del braccio verticale del recto è presente il Pellicano che nutre i suoi piccoli deposti entro un bellissimo cesto intrecciato (fig. 7). Questo uccello compie un gesto molto particolare per saziare i suoi piccoli: curva il becco verso la sua parte destra43 per estrarre i pesci dalla borsa posta sotto la gola, dando così l’errata impressione di strapparsi il petto per sfamare i suoi nati con il proprio sangue tanto da diventare immagine della carità44. Si illustrano così le parole del salmo 102 (101), 7, “Similis factus sum pelicano45”: il Pellicano che si squarcia il petto per nutrire col proprio sangue i suoi piccoli affamati diventa l’emblema di Gesù Crocifisso46 che versa il proprio sangue per salvare l’umanità47. Bellissimo l’incontro dei becchi dei piccoli – simbolicamente in numero di tre – con quello del genitore quasi a voler indicare ancora una volta la presenza di un’unica essenza in tre Persone divine. Alcuni chiodini agganciano alla Fig. 7. (43) L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo. La misteriosa emblematica di Gesù Cristo, 2 voll., Roma,1994, in particolare vol. II, pp. 134- 137 (44) L. RÉAU, Iconographie..., cit. nota 9, pp. 491-492; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 125/323; L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol. II, p. 124 e pp. 132-133. Infatti, già nel più antico bestiario (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol. II, pp. 124-130), il “Physiologus” (II-IV secolo), si dice che il Pellicano ami moltissimo i suoi piccoli. Questi, tuttavia, non appena sono cresciuti, colpiscono al volto i loro genitori che allora li picchiano e li uccidono. In seguito però provando compassione piangono i figli per tre giorni. Il terzo giorno la madre si percuote il costato ed il suo sangue, effondendosi sui corpi dei piccoli morti, li riporta in vita. (L. CLOQUET, Eléments d’iconographie..., cit. nota 9, p. 57; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 125; L. CHARBONNEAULASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol. II, pp. 124125). (45) La sacra Bibbia, cit. nota 11, p. 622 (46) L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol. II, pp. 126-127; G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 279; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 68/203-204; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 323 (47) L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo..., cit. nota 43, vol. II, pp. 130-131 Fig. 8. lamina il gruppo sbalzato e cesellato magnificamente: le piume sono incise e lavorate una ad una distinguendole così dal piumaggio del corpo più compatto. Un capolavoro è la resa dell’intreccio del cesto con ramoscelli disposti in sequenza regolare e sagomati in modo da creare un bordo esterno decorato a onde. Nella posizione corrispondente alla base del braccio verticale del recto della Croce, la potenza presenta la figura di sant’Ambrogio (fig. 8). Il Santo vescovo, uno dei quattro dottori della Chiesa occidentale, ebbe un ruolo importante nella lotta contro 150 NUOVI ANNALI - 2010 l’arianesimo48, cui allude il flagello a tre code49 – riferimento evocativo della Trinità – che costituisce il dettaglio iconografico di riconoscimento, oltre alla mitria e ad un libro50. La sua presenza è giustificata dalla devozione che il Santo ha sempre ricevuto nei secoli assurgendo a patrono della stessa città di Milano. L’importanza, la regalità, la virtù che sprigionano dalla sua figura sono l’emblema dell’eleganza e della ricercatezza, cifre paradigmatiche dell’artista. Il viso assorto e compiaciuto è coronato da una splendida mitria decorata con ricami e pietre preziose. I capelli, la barba folta e ondulata ne completano l’espressione rassicurante e possente. Sopra alla veste di tessuto liscio porta una pianeta a maniche corte di stoffa pesante, come lascia intuire la lavorazione della lamina d’oro, arricchita da un colletto molto ampio, ricamato a rabeschi e orlato da frange. Al centro del petto compare anche il pallio con le croci. I dettagli iconografici non sono posizionati casualmente: il flagello – realizzato magnificamente tramite l’intreccio delle corde – è trattenuto con le prime tre dita della mano, ad indicare l’azione di difesa del Mistero della Trinità, mentre il libro, bloccato dalla mano sinistra del vescovo e inserito tra il petto e il gomito leggermente rialzato, crea un virtuosismo stilistico: la dalmatica viene sollevata dando origine alle pieghe, con un realismo raffinatissimo. Questa figura ricorda molto una miniatura51 di Giovanni Giacomo Decio per il frontespizio dell’Epistolario donato dal Duca Francesco II Sforza alla Cattedrale di Vigevano (fig. 9): la stessa espressione del volto, la stessa mitria, la stessa pianeta con un colletto squadrato e ricamato, il pallio, lo scudiscio a tre corde che sembra in atto di essere sferrato: un parallelo interessante, una coincidenza che rafforza l’ipotesi di una comunanza di idee e progettualità degli artisti dell’entourage del Duomo. Le potenze del braccio orizzontale del recto presentano, come da tradizione, le figure più care a Cristo partecipi alle fasi della Passione cui dedica le estreme parole prima dell’esalazione dell’ultimo respiro: la Vergine Maria e san Giovanni Evangelista rispettivamente alla destra e alla sinistra del Salvatore. Fig. 9. Fig. 10. La Madonna52, possente e maestosa, affranta dal dolore, con il capo protetto da un leggero velo, rivolta con lo sguardo verso il figlio sofferente, è in atteggiamento composto ed estatico con le mani giunte in preghiera (fig. 10). Il viso tradisce una malinconia e uno sconforto trattenuti in una calma interiore consapevole del sacrificio necessario per un piano superiore di cui anche Lei è parte integrante ed essenziale. Questa particolare espressione ricorda il disegno di Leonardo da Vinci conservato al Metro- (48) G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 321 (49) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 161 (50) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 39/373 (51) Giovanni Giacomo Decio, Sant’Ambrogio, Epistolario, 1533, Vigevano, Museo del Tesoro del Duomo, s.s., f. 1 r (52) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 122-123 151 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO Fig. 13. e una profusione quasi eccessivi dei panneggi del mantello cercano di rendere la volumetria e la plasticità di questa figura. An54 del “Decius” (fig. 6): le corporature robuste emergono sotto l’inanellarsi di pieghe, in una passione virtuosistica per i manti che avvolgono il busto segnato dal ritmo delle plissettature. I drappeggi terminano poi nel punto d’unione delle mani della Madonna a sottolineare l’abilità della resa delle dita intrecciate. Anche questo dettaglio può richiamare alla mente un disegno di Leonardo: si tratta dello studio55 di mani dell’apostolo Giovanni per il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie a Milano (fig. 12). In corrispondenza, sul lato opposto del braccio orizzontale, è presentato san Giovanni Evangelista56 (fig. 13): raf- Fig. 11. (54) Giovanni Giacomo Decio, Crocefissione, Messale Romano, 1533, Vigevano, Museo del Tesoro del Duomo, s.s., f. 121 v (55) Leonardo da Vinci, Studio per le mani di San Giovanni nel Cenacolo, 1495 circa, gessetto nero su carta bianca, 11.7 x 15.2 cm, n. 12543, Windsor Castle, Royal Library Collection (56) “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto/del nostro pellicano, e questi fue/di su la croce al grande officio eletto” (D. ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, canto XXV, vv. 112114). Il discepolo prediletto di Gesù (E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 119-121; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 207-208) colui che è sempre al suo fianco (Giov., 13,23) che sale con Lui sul monte della trasfigurazione, compare nella potenza alla sinistra di Cristo facendo da corrispondente alla figura della Madonna per richiamare l’episodio che li riguarda durante gli ultimi istanti di vita del Salvatore (J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, pp. 122-123): “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto Fig. 12. politan Museum of Art di New York raffigurante la testa della Vergine53 (fig. 11): la dolcezza dello sguardo, gli occhi amorevoli ed estasiati, la bocca socchiusa in un sospiro spezzato dal pianto si ritrovano in questa piccola oreficeria che ne trasmette anche l’intensità dell’emozione. Un tripudio (53) Leonardo da Vinci, Testa della Vergine, 1510 circa, matita nera e rossa su carta, 203 x 156 mm., New York, Metropolitan Museum of Art 152 NUOVI ANNALI - 2010 figurato come un giovane imberbe, aggraziato, con il viso completamente rivolto al suo Maestro e gli occhi pieni di lacrime – straordinario l’effetto di una goccia di pianto che scende dall’occhio e della guancia bagnata – , il discepolo prediletto si porta alla bocca la mano destra velata mentre con la sinistra aperta e tesa indica il cuore che, straziato, non gli permette di parlare e quasi di respirare: si tratta di un’iconografia diffusa in Lombardia57. Emozionante e coinvolgente questa figura ricorda, nell’espressione e nel gesto della mano che si porta al petto, un altro ritratto psicologico di Leonardo: è l’apostolo Filippo58 del Cenacolo (fig. 14). Bellissima la resa della chioma di capelli lunghi e mossi che animano l’immobilità dello sguardo fisso sul Crocifisso. La lavorazione a zigrino esalta i ricchi panneggi del mantello bordato da due strisce lisce e terminante con frange: i drappeggi mostrano l’abilità dell’orafo nella ricerca della variatio continua tra i vari personaggi. Anche il verso della Croce si presenta ricco di spunti iconografici e simbolici. Le foglie di acanto utilizzate nelle aste anteriori per creare gli ovali di inserimento degli emblemi della Passione costituiscono il trait d’union con il retro della Croce, un vero tripudio di fiori. Nelle lamine dei quattro bracci si ripete, infatti, uno schema che vede il succedersi delle medesime concatenazioni d’acanto del recto ma i fogliami sono arricchiti da germogli e fiori meravigliosamente riprodotti nei dettagli (fig. 15). Un grafismo evidente e raffinato emerge in questi girali fioriti dove l’uso della zigrinatura sottolinea ogni dettaglio donando lucentezza e vivacità al disegno. In particolare questa sinusoide Fig. 14. a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo prese la sua casa.” (Giov., 19,26-27) (57) La si trova nella Crocifissione miniata da Giovanni Giacomo Decio nel Messale romano del Museo del Tesoro del Duomo di Vigevano (f. 121 v) (MULAS P. L., Giovanni Giacomo Decio..., cit. nota 35, pp. 162-167 scheda n. 26), nella medesima scena miniata da Antonio da Monza nel Messale di Alessandro VI Borgia per la messa di Natale (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borg. Lat. 425, f. 38 v) (Liturgia in figura..., cit. nota 29, pp. 251-256 scheda n. 59) oltre che nella Crocefissione di Bramantino, oggi esposta a Milano presso la Pinacoteca di Brera, dove sono conservati anche gli affreschi degli Uomini d’arme di cui sembra essere ripreso nell’Evangelista l’atteggiamento triste di Eraclio. (58) Leonardo da Vinci, Studio per la testa di San Filippo nel Cenacolo, 1495 circa, carboncino su carta bianca, 19.0 x 15.0 cm, n. 12551, Windsor Castle, Royal Library Collection Fig. 15. 153 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO intrecciata propone la successione in simmetria assiale di due rose a cinque petali affrontate e di un fiore di cardo. All’esterno si intercalano degli arabeschi con boccioli a grappolo. L’utilizzo di queste tipologie59 presenta un valore simbolico: dal punto di vista prettamente cristiano la rosa a cinque petali è l’immagine del sangue versato dal Crocifisso60 inteso sia come la coppa che lo raccoglie sia come le cinque piaghe di Cristo. Il cardo allude al riscatto dell’uomo attraverso il supplizio della Passione61 di Gesù: con le sue spine acuminate rimanda alle sofferenze realmente vissute e patite nella vera carne e con vero sangue. Il Figlio di Dio è il Cardo, cioè il cardine su cui si regge la Chiesa, sola interprete della vera dottrina62. Le due sinusoidi potrebbero rappresentare la doppia natura del Cristo, divina e umana, riaffermata dal concilio di Firenze nel 1441 – una persona in utraque natura – tanto più che la Croce è il luogo sacro per eccellenza dove si è manifestata la duplice essenza del Cristo63. I fiori a grappolo che si mostrano chiusi o sbocciati potrebbero essere un’evoluzione dell’acanto che proponeva diverse soluzioni con modifiche, aggiunte e invenzioni cui possono riferirsi appunto le nostre inflorescenze. All’interno di una continuità di schemi formali e di un processo di “acantizzazione” che ha il suo archetipo nell’Ara Pacis Augustae64, il racemo classico è naturalmente sopravvissuto alla scomparsa del paganesimo e impiegato dal Cristianesimo con una chiave di lettura simbolica65. Con una visione così ampia anche i nostri girali potrebbero sembrare lo sviluppo di un’unica specie in cui possono anche comparire fiori a cespo o a grappolo. Tanto più che nell’arte cristiana il motivo dell’acanto sembrerebbe assumere un valore contemporaneamente funerario e paradisiaco66. La decorazione floreale sottolineancora una volta il valore della Croce non solo come simbolo di morte (63) Ibidem. Paradigmatico di questa idea è l’esemplare di broccato italiano del XVI secolo che riporta all’interno del fiore di cardo principale la Croce del Golgota. (C. RICCI, Arti Decorative. Catalogo di stoffe antiche e moderne di Isabella Errera, in “Rassegna d’arte”, anno VIII, n. 1, 1908, pp. 17-18) (64) “Tralci [che] si sviluppano da grossi cespi d’acanto fino a diventare vere e proprie strutture arboree, in un intrico di sempre nuovi rami dove l’occhio si perde come in un labirinto.[...] Per quanto lussureggiante sia quel fiorire e quell’arrampicarsi, ogni voluta, anzi ogni singolo fiore e ogni singola foglia hanno un posto preciso nell’insieme. Quella che dovrebbe essere un’immagine simbolica della natura libera e rigogliosa diventa così un’esemplare esibizione di ordine. [...] Una delle novità è la combinazione di piante fantastiche e piante reali: se vediamo dei grappoli d’uva, delle aracee o delle palmette spuntare da rami d’acanto, o l’edera e l’alloro arrampicarsi tra pesanti volute, se vediamo festoni carichi dei frutti più svariati, tutto ciò allude ormai allo stato paradisiaco della nuova età.” (P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, cit. nota 27, pp. 192-194) (65) Così, per esempio, l’architrave del portale centrale della Cattedrale di Spoleto presenta una composizione vegetale come “albero della vita” della Genesi tradotto attraverso la presenza di una croce issata in un cespo d’acanto che forma l’asse di simmetria dei due girali, ripresa evidente dei modelli romani. (G. SAURON, L’histoire végétalisée. Ornament et politique à Rome, Paris, 2000, pp. 228-229) (66) L. VANDI, La trasformazione del motivo dell’acanto dall’antichità al 1400, Bern, 2002, p. 93. La cornice di foglie sta a simboleggiare la redenzione attraverso la Risurrezione, perché nella mitologia antica l’acanto spinoso, si muta in acanto senza spine. Adottato dalla tradizione cattolica a difesa delle cripte e delle urne, custodi delle reliquie dei santi ossia dei defunti in grazia di Dio accolti nella luce salvifica, l’acanto diventa così anche simbolo di Resurrezione e di vita eterna. (59) L’individuazione dei fiori è, tuttavia, aperta a varianti che hanno una loro valenza simbolica comunque riconducibile alla Passione di Cristo: le rose a cinque petali potrebbero essere identificate come narcisi simboleggianti l’annunciazione del divino amore (R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, in Seta. Potere e glamour. Tessuti e abiti dal Rinascimento al XX secolo, R. Orsi Landini (a cura di), Cinisello Balsamo (MI), 2006, p. 50) e simbolo della Resurrezione e della promessa di vita eterna (H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei Simboli, Milano, 2001, p. 315; M. HEILMEYER, The language of flowers. Symbols and Myths, Munich-London-New York, 2001, p. 62) oppure margherite a dieci petali; il fiore centrale potrebbe essere una sempreviva che – oltre a rappresentare un simbolo araldico della casata sforzesca (Stemmario Trivulziano, C. Maspoli (a cura di), Milano, 2000, pp. 38-39; C. BUSS, La sempreviva, in Seta, Oro, Cremisi. Segreti e tecnologia alla corte dei Visconti e degli Sforza, catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 29 ottobre 2009-21 febbraio 2010, C. Buss (a cura di), Cinisello Balsamo (MI), 2009, pp. 78-79) raffigurato, salvo qualche eccezione, in numero di tre – alluderebbe alla vita eterna. (60) H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei Simboli, cit. nota 59, p. 446. Già nell’antica Roma si tenevano le Rosalia o festa delle rose, testimoniate fin dal I secolo d.C., che rientravano nel culto dei morti e ricorrevano tra l’11 maggio e il 15 luglio; la rosa è, inoltre, simbolo di rigenerazione e per questo venivano portate sulle tombe degli avi, offerte ai Mani dei defunti. Ecate, dea degli inferi, era talvolta rappresentata coronata di rose a cinque petali: il cinque indica la fine di un ciclo (4) e l’inizio di uno nuovo (4+1). Con l’avvento del cristianesimo la rosa è coltivata perché le sue spine ricordano la Passione di Cristo, poi passa al culto della Madonna, il cui cuore è raffigurato trafitto da spine di rosa. (61) Ibidem, p. 94 (62) R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, cit. nota 59, p. 51 154 NUOVI ANNALI - 2010 della morte, diventa il Lignum Vitae e produce i dolci frutti della vita eterna68. A livello decorativo, l’importante e fiorente produzione69 tessile milanese avrà contribuito a suggerire questo tipo di intrecci come dimostra l’esemplare conservato nel Museo del Duomo di Milano: un damasco broccato della prima metà del Cinquecento70. L’uso di questa decorazione ornamentale è testimoniata anche nella miniatura. La cornice più esterna del f. 2v di un manoscritto che narra la Terza Decade della Storia di Roma di Tito Livio71 è una concatenazione di due ramificazioni vegetali arricchite da fiori, perle e gioielli formanti degli ovali al cui interno sono inseriti emblemi araldici e raffigurazioni mitiche. Scritto da Messer Piero di Benedetto Strozzi a Firenze nel 1480-90 circa con miniature attribuite a Gherardo di Giovanni di Miniato72, questo frontespizio assicura una diffusione del modello a rabeschi con immagini interne – simboli, armi, soggetti mitologici, ecc... – che aiutano a collocare con maggior sicurezza la decorazione della Croce Capitolare che si inserisce a buon diritto nella tradizione ornamentale più importante del Rinascimento italiano. Nel verso, per quanto riguarda le figurazioni, all’intersezione delle aste posteriori della Croce, l’ovale si presenta come una mandorla73 in cui compare la maestosa figura di Dio Padre74 (fig. 16). Con i capelli lisci ricadenti lungo le spalle, i baffi e la barba lunghissima leggermente divisa a metà – segno di forza, coraggio e saggezza75 –, egli accenna ad un gesto di ma anche e soprattutto quale immagine di Salvezza67. Questa lettura iconografica indica, infatti, che il legno della croce sboccia nella grande inflorescenza della vita eterna, conquistata grazie alla Passione di Cristo. L’albero della vita, asse del mondo e scala cosmica per accedere a quello superiore, coincide con la croce di Cristo: grazie al suo sangue, da albero (67) Nel complesso, quindi, la lavorazione fa sì che il retro di questa oreficeria possa essere considerato come un’allusione all’albero della Croce di cui ci narrano delle vere e proprie Aggadoth (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota 14, p. 24) cristiane – racconti della tradizione ebraica che riassumono e attualizzano gli avvenimenti salvifici del passato per interpretare la storia sacra sulla base dei libri della Bibbia – che trattano della storia della croce. La Leggenda della Vera Croce racconta la genesi del legno su cui venne crocifisso Cristo, spesso tramandata in letteratura e rappresentata in opere d’arte. La versione più nota è quella che fa parte della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine composta nel XIII secolo. Il racconto comincia da Adamo che, prossimo a morire, mandò il figlio Set in Paradiso per ottenere l’olio della misericordia come viatico di morte serena. L’Arcangelo Michele invece gli diede un ramoscello dell’albero della vita per collocarlo nella bocca di Adamo al momento della sua sepoltura (o tre semi secondo un’altra versione). Il ramo crebbe e l’albero venne ritrovato da Re Salomone che, durante la costruzione del Tempio di Gerusalemme, ordinò che venisse abbattuto ed utilizzato. Gli operai non riuscirono però a trovare una collocazione perché era sempre o troppo lungo o troppo corto e quando lo si tagliava a misura giusta in realtà diveniva troppo corto tanto da non poter essere utilizzato. Gli operai decisero così di gettarlo su un fiume, perché servisse da passerella. La Regina di Saba, trovandosi a passare per il ponte riconobbe il legno e profetizzò il futuro utiliprofezia, decise di farlo sotterrare. A seguito della condanna di Cristo la vecchia trave venne ritrovata dagli israeliti e fu utilizzata per la costruzione della Croce. Da qui la leggenda inizia a confondersi con la storia. Nel 312, la notte prima della battaglia contro Massenzio, l’imperatore Costantino I ha la mitica visione che porrà fine anche alle persecuzioni dei Cristiani: una croce luminosa con la scritta “In hoc signo vinces”. L’imperatore decise allora di utilizzare questo simbolo come insegna ed il suo esercito vinse la battaglia di Ponte Milvio. Costantino poi invia la madre Elena a Gerusalemme per cercare la Croce della Crocefissione. Elena trova una persona che conosce il punto della sepoltura della Vera Croce e, per farla parlare, la fa calare in un pozzo senza pane ed acqua per sette giorni: il reticente alla fine indica il luogo della sepoltura. Vengono così recuperate le tre diverse croci utilizzate il giorno della morte di Cristo. Per identificare la croce la madre dell’imperatore sfiora con il legno un defunto e questi resuscita. Sant’Elena separa poi la croce in diverse parti di cui la principale viene lasciata a Gerusalemme. “In questa leggenda l’albero-croce è il legame misterioso della tradizione spirituale che dal giardino dell’Eden arriva fino al luogo del cranio di Adamo, il Golgota.” (L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Giardino..., cit. nota 14, p. 24) (68) R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, cit. nota 59, p. 50 (69) C. BUSS, Seta, oro e cremisi, in Seta, Oro, Cremisi..., cit. nota 59, pp. 44-61 (70) R. ORSI LANDINI, Vesti di seta e d’oro, cit. nota 59, p. 52: questo esemplare presenta “infiorescenze a struttura simmetrica incentrate sulla pigna e sulla melagrana che alludono in modo generico alla rinascita, alla vita eterna, ma anche alla fertilità. […] I riferimenti specifici alla Passione, come la rosa a cinque petali, rimangono invece nell’iconografia tessile per tessuti con chiara finalità liturgica.” (71) Valencia, Biblioteca General de la Universidad, MS 384 (G.1314) (72) AA. VV., The painted Page..., cit. nota 29, p. 160 (73) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 128-129 (74) La legge mosaica proibiva ogni raffigurazione di Dio (E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 88) e a questa prescrizione si attennero anche i primi dottori della Chiesa. Dal Medioevo si imposta la tradizionale figura di Vegliardo. 155 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO Fig. 2. 000 NUOVI ANNALI - 2010 benedizione con la mano destra libera nello spazio e proporzionata alla figura mentre con la sinistra, quale “Signore del cielo”, sorregge il globo76, simbolo della potenza creatrice e provvidenziale di Dio, sovrastato da una croce con profili ribattuti per significare che è solo attraverso le sofferenze di Gesù Cristo che gli uomini vengono salvati dalla malvagità dei Demoni e sottoposti all’autorità dell’amore divino77. Rappresentato a mezzo busto, è sostenuto da tre graziosi putti affioranti dalla nuvola della veste che, ampia e soffice, crea delle sinuosità di tessuto allusive ad una nube celeste: è un gioco ricco di virtuosismi stilistici di alto livello artistico, quasi precursore della creatività barocca. In questo caso è possibile un confronto con una miniatura del “Decius” presente nei corali di Crescenzago78, dove ricorre la stessa iconografia e la stessa posizione dei piedi appoggiati su teste di cherubini. Nelle quattro potenze che lo circondano sono proposti, come da tradizione, gli Evangelisti79 raffigurati a mezzo busto con i rispettivi simboli e il Vangelo allusivo alla loro opera di divulgazione: in alto Giovanni con l’aquila80, a destra Luca con il toro81, in basso Matteo con l’angelo82, a sinistra Marco con il leone83. Questa tradizionale associazione84 figurativa, nota come Tetramorfo,85 vuole Fig. 17. sottolineare la diffusione della Parola di Dio nelle quattro direzioni cui la Croce stessa è rivolta per abbracciare tutta l’Umanità. San Giovanni (fig. 17) presenta capelli ricci, baffi, barba lunga e ondulata, un abito con stola alla romana fissata da una fibbia sulla spalla destra. Nella rientranza creata dal movimento del braccio destro tra questo arto e il petto, l’Evangelista trattiene l’aquila mentre con la mano sinistra sorregge il libro che è intento a leggere. Meticolosa precisione è dedicata al piumaggio dell’uccello e alle pagine del Vangelo. San Luca (fig. 18) mostra lo sguardo in tralice incorniciato dai capelli leggermente ondulati e dalla barba mossa. Sopra alla veste porta un mantello che crea una serie di pieghe concentriche simili a quelle dell’abito nelle braccia. Entrambe le mani trattengono il libro appoggiato sul petto, quasi a voler sottolineare l’importanza del messaggio annunziato da Cristo. Al fianco destro dell’evangelista emergono il muso e il collo del toro, raffigurazione apocalittica dell’Evangelista. San Matteo (fig. 19) ha un’espressione intensa e commossa: la mano sinistra sorregge il libro chiuso mentre la destra è portata sul petto verso il cuore come sembra indicare l’anulare inserito sotto (75) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 68 (76) Ibidem, pp. 141-142; G. FERGUSON, Signs & Symbols..., cit. nota 9, p. 313 (77) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 127 (78) Giovanni Giacomo Decio, Corale di Crescenzago, M 46, f. 241 r, 1530 circa, Milano, Biblioteca Capitolare di Sant’Ambrogio (79) Da segnalare che durante l’ultimo intervento di restauro (Angelucci, 2003) è stata riscontrata l’errata posizione degli Evangelisti san Marco e san Giovanni che è stata corretta invertendone la collocazione. (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro, punto n. 22) (80) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 207 (81) Ibidem, p. 248; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 151 (82) J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 274; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 164165 (83) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p. 157 (84) G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 330-333; E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 245-249 (85) “…Intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni di occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l’aspetto di un uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi: giorno e notte non cesseranno di ripetere: Santo, santo, santo, il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e che viene!”. (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, pp. 153-154/330-333; J. HALL, Dizionario dei soggetti..., cit. nota 9, p. 344) 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO Fig. 18. Fig. 19. pieghe nel girocollo fermate al centro da una borchia, viene sollevato dalla mano destra dell’Evangelista che così mostra la sua immagine identificativa, il leone. L’animale, la cui criniera si confonde con i panneggi dell’abito, accovacciato e con le zampe aggrappate al bordo della placchetta, mostra solo il muso: un espediente di naturalezza e immediatezza vivace e coinvolgente. Una nota particolare merita l’attenzione che il maestro ha rivolto alla realizzazione dei nimbi86: tutti tridimensionalmente sporgenti e diversificati. L’aureola di Gesù ha un fiore a quattro petali traforato, (86) La raggiera ha sempre significato la divinità dei personaggi. Già presente nella cultura pagana, assume un valore particolare nel Cristianesimo. Inizialmente utilizzato come segno di deferenza e importanza, a partire dal IV secolo Cristo è con crescente regolarità il destinatario di tale omaggio. Nel V secolo il segno diventa fisso per Lui e, in seguito, anche per i discepoli ma con una distinzione: il nimbo del primo è stato dotato di attributi particolari quale, per esempio, la croce. Il senso era talmente noto che i Cristiani lo utilizzarono come simbolo del linguaggio visivo per attribuire importanza al personaggio conferendogli deferenza: in questo caso non caratterizza la sua santità ma il rispetto e la devozione dei fedeli. Dopo secoli di incertezza, l’uso e il significato si cristallizzano. Nel XIV secolo la Chiesa stabilisce che l’aureola diventa l’attributo tipico dei santi, indicando appunto che la loro santità è ufficiale. Al nimbo di Cristo è spesso aggiunta una croce per distinguerlo dagli altri (E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, pp. 174-181) : anche in questo caso è rispettata la tradizione e dato che il quarto spicchio della croce resta sotto la testa di Cristo i tre raggi simboleggiano ciascuna delle persone trinitarie (G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia..., cit. nota 9, p. 338). Fig. 20. l’avvolgente mantello che, sempre con le medesime plissettature del panneggio delineate negli altri personaggi, fascia l’intera figura. Questo stesso gesto è riprodotto specularmente nell’angioletto posto al fianco sinistro di Matteo: una corrispondenza di sensi ed emozioni che sprigionano dall’abilità dell’artista. San Marco (fig. 20), infine, ripropone una ulteriore variazione sul tema: lo sguardo rivolto all’infinito, con la mano sinistra indica direttamente le parole del Vangelo che, questa volta, è rivolto verso i fedeli a specificare che solo attraverso il Verbo Divino si può trovare la Verità. Il manto che crea una serie di 000 NUOVI ANNALI - 2010 mentre le altre parti presentano un giglio in lamina liscia inserito in uno sfondo lavorato a ferro zigrino. La stessa tipologia è ripresa per l’altra persona della Trinità, Dio Padre, rispettando in questo modo la tradizione e la simbologia specifiche. Alla Madonna è stato attribuito un nimbo con stelle su un fondo puntinato. La Regina dei Cieli assume, in questo modo, un’aura maestosa preannunciante l’Assunzione alla Gloria Eterna. Il discepolo prediletto ha un nimbo screziato da piccoli raggi che partendo dal bordo esterno si indirizzano verso il centro. Ambrogio, Giovanni e Matteo sembrano dotati di esemplari semplici, senza decori data la presenza della mitria o per la posizione connessa al capo. San Luca ha un’aureola con rappresentazione stilizzata di una stella sfavillante in lamina liscia disposta su fondo zigrinato; san Marco presenta una serie di raggi incisi che si sviluppano dal centro del disco. La potenza inferiore del braccio verticale della Croce è completata dal nodo (fig. 21) in cui si inserisce l’asta utilizzata durante le processioni: un’ulteriore terminazione – accostata al quadrilobo con due volute rivolte nel senso opposto – è appoggiata su una bombatura a pelte sbalzate sovrapposte sorretta da una doppia fascia liscia rastremata verso il basso, bordata con fiori di loto accostati. L’altezza del nodo è delineata da un’alta striscia piana delimitata su entrambi i lati da una cornice tonda e una angolata: all’interno del nastro sono state applicate con chiodini quattro foglie d’acanto, lavorate come il fondo delle lamine della croce con il ferro zigrino per creare quel risalto sulla superficie completamente liscia che esalta così anche le nervature interne incise; ciascun inserto vegetale è impreziosito da un piccolo granato (uno mancante). Una modanatura a becco di civetta ad ovulo con decorazione a foglia dorica e un toro d’alloro con nastro chiudono la lavorazione del nodo che, attraverso un’ulteriore fascia ad anello, si innesta all’asta. Quest’ultima è per un primo tratto scanalata in argento dorato mentre la parte terminale è in argento liscio. In quanto croce processionale la Croce Capitolare assurge a simbolo della massima autorità religiosa della Diocesi che rappresenta nelle processioni solenni: questo oggetto prezioso commissionato dal Capitolo Metropolitano si presenta come un unicum nel panorama artistico lombardo. La fortuna87 critica di quest’opera possiede una scarna bibliografia. Fig. 21. Mia Cinotti, nella scheda del catalogo del Tesoro del Duomo, la inserisce nell’ambito della sigla manieristica (metà XVI secolo circa), con riferimenti “in senso lato alle croci astili lombarde, specie quelle comasche: la fattura delle nostre figure è più raffinata, segnatamente nel san Giovanni del lato frontale, di nitido e vigoroso impianto classico, e nell’Eterno del tergo, di delicato pittoricismo. Gli ornati, per contro, sono di fattura stanca88”. Questa Croce si è rivelata ricca di nuovi spunti, supportati dal procedere degli studi sull’oreficeria lombarda del XVI secolo. Sembrano dunque meno convincenti i riferimenti all’ambito comasco nè si rintraccia una “fattura stanca”. Anzi, come si è visto, sono da sottolineare la raffinatezza delle decorazioni e l’attenzione alle figurazioni in cui si nota lo sforzo dell’artista nel far emergere la propria perizia, le qualità tecniche, l’aggiornamento culturale. 119; NAVA, Distinto Raguaglio dell’Ottava maraviglia del mondo o sia della Gran Metropolitana dell’Insubria volgarmente detta il Duomo di Milano, Milano, MDCCXXIII, p. 101; S. LATUADA, Descrizione di Milano ornata con molti disegni in rame delle Fabbriche più cospicue, che si trovano in questa metropoli, voll. 2, Milano, MDCCXXXVII, p. 99; P. A. FRIGERIO, Distinto Ragguaglio dell’Ottava meraviglia del mondo o sia della Gran Metropolitana dell’Insubria volgarmente detta il Duomo di Milano, Milano, 1739, p. 67; L. MALVEZZI, Il tesoro del Duomo di Milano, Milano, 1840, pp. 11-12; U. NEBBIA, Il Tesoro del Duomo di Milano, Milano, 1962, pp. 54-55; M. CINOTTI, Tesoro e Arti Minori, in AA. VV., Il Duomo di Milano, voll. 2, Milano, 1973, vol. II, p. 264; G. SAMBONET, Le Oreficerie, in Il Duomo di Milano, E. Brivio (a cura di), 1981, p. 21 (88) R. BOSSAGLIA, M. CINOTTI, Croce astile capitolare, detta “di S. Carlo”, in Tesoro e Museo del Duomo, Milano, 1978, 2 voll., in particolare vol. I, scheda n. 22, p. 61 (87) P. MORIGI, Il Duomo di Milano, Milano, MDCXXXXII, p. 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO Stilisticamente legata alla cultura milanese, la Croce Capitolare mostra molti agganci con le novità rinascimentali romane veicolate attraverso soggiorni di artisti appartenenti anche ad altre arti quali la scultura, la pittura e soprattutto la miniatura: pur sembrando un gioco di sottili variazioni volumetriche e cromatiche, il disegno preparatorio di questo manufatto e la sua realizzazione mostrano sempre l’artista in bilico tra la superficie e il volume, segno evidente di un soggetto che sa fin dove può spingere le sue capacità e la materia duttile e malleabile dell’oro. Un’opera che stilisticamente si avvicina alla fattura della Croce Capitolare è la pace di Pio IV89 (1565 circa), dono dello zio pontefice al neo-arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, data la complessità della realizzazione, la ricchezza dei materiali utilizzati e la resa stilistica delle lastre sbalzate (fig. 22). Tuttavia l’attribuzione di questo prezioso oggetto è controversa: Cinotti90 propone per le parti figurate il nome di Leone Leoni pur non scartando l’ipotesi suggerita dal Plon91 di un artista romano attivo alla corte del Papa Medici quale Alessandro Cesati detto il Grechetto (inizio XVI secolo – 1570 circa) come responsabile della preziosa struttura. Leone Leoni92 è un’ipotesi valida data l’altissima Fig. 22. (89) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Pace di Pio IV, in Tesoro e Museo..., cit. nota 88, scheda n. 32, pp. 63-64; P. VENTURELLI, Pace, in Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, P. Biscottini (a cura di), Milano, 2005, pp. 286-287 (90) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Pace di Pio IV, in Tesoro e Museo..., cit. nota 88, scheda n. 32, pp. 63-64 (91) E. PLON, Benvenuto Cellini. Orfèvre médailleur, sculpteur, Paris, 1883, p. 275 (92) S. SEVERGNINI, Un Leone a Milano. Vita e avventure di Leone Leoni scultore cesareo, Milano, 1989. Per un approfondimento: E. PLON, Leone Leoni sculpteur de Charles-quint et Pompeo Leoni sculpteur de Philippe II, Paris, 1887; A. BRUSCONI, La casa di Leone Leoni detta “degli Omenoni”, Milano, 1913; F. SRICCHIA SANTORO, I Leoni, collana “I maestri della scultura”, n. 55, Milano, 1966; G. DONDI, In margine al codice vinciano della Biblioteca Reale di Torino. Note storico-codicologiche, in “Accademie e biblioteche d’Italia”, anno XLIII, n.s. 26, n. 4, luglioagosto 1975, pp. 252-271; F. AZNAR, El monasterio de San Lorenzo el real de el Escorial, Madrid, 1985; P. B. CONTI, Madrid-Milano. Scalpellini e scultori per il “Retablo Mayor”. Prime annotazioni, in La Escultura en el Monasterio del Escorial, actas del Simposium, (1-4 settembre 1994), coord. por F.J. Campos y Fernández de Sevilla, Real Centro Universitario Escorial – Maria Cristina, 1994, pp. 329-342; Los Leoni (15091608). Escultores del Renacimiento italiano al servicio de la corte de España, catalogo della mostra (Madrid, Museo del Prado, 18 maggio 1994-12 luglio 1994), Madrid, 1994; Leone Leoni tra Lombardia e Spagna, Atti del Convegno Internazionale, qualità dell’opera e della committenza93. La plaMenaggio 1993, M. L. Gatti Perer (a cura di), Milano, 1995; E. CARRARA, Michelangelo, Leone Leoni ed una stampa di Maarten Van Heemskerck, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Serie IV, Quaderni, 1-2, Classe di Lettere e Filosofia, 1996, pp. 219-225; A. BARIGOZZI BRINI, Apparati effimeri di Leone Leoni, in Studi di Storia dell’Arte in onore di Maria Luisa Gatti Perer, M. Rossi – A. Rovetta (a cura di), Milano, 1999, pp. 259-269; F. REPISHTI, La residenza milanese di Pio IV: il palazzo Medici in via Brera, in “Annali di architettura”, n. 12, 2000, pp. 75-90; BONETTI M., Il mausoleo del Medeghino nel duomo di Milano, Leone Leoni e l’architettura trionfale, in “Artes”, n. 10, 2002, pp. 21-43; C. P. MARANI, Per Leonardo scultore: nuove ipotesi sul bronzo di Budapest, il Monumento Trivulzio e il Rustici, in “Arte Lombarda”, n. 139, anno 2003/3, pp. 154-162; K. HELMSTUTLER DI DIO, Leone Leoni’s collection in the Casa degli Omenoni, Milan: the inventory of 1609, in “The Burlington Magazine”, CXLV, August 2003, pp. 572-578. (93) Di origine aretina, si forma come scultore, cesellatore e intagliatore di gemme a Venezia, il paradiso degli orefici, “città dell’oro”: si reca spesso nella Basilica di San Marco dove resta ore ed ore ad ammirare i mosaici e la Pala d’oro, una delle più sfarzose e complesse opere di oreficeria esistenti al mondo, un ininterrotto, vivissimo sfavillio di ori e gemme che diventa un’esplosione di fulgidi scintillii. Il ricordo vivo e partecipe di 000 NUOVI ANNALI - 2010 sticità vigorosa delle forme, l’abbondanza ridondante dei panneggi, l’espressività sottolineata e composta, il trattamento della superficie aurea, nonchè la corrispondenza di alcune figure: questi i fondamentali punti di contatto tra la Croce Capitolare, la preziosa pace conservata nel Tesoro del Duomo e le statue realizzate in collaborazione con il figlio Pompeo per il Retablo Major della chiesa di San Lorenzo del Monastero dell’Escorial a Madrid. L’anatomia del Cristo e la sua posizione caratterizzata da un grande controllo delle forme (fig. 5) sono simili nella deposizione della Pace (fig. 22) e nella Crocefissione dell’Escorial (fig. 23). Molto significative sono le affinità tra le strutture possenti della Vergine del Retablo Major (fig. 23) avvolta in un’ampia serie di panneggi e nella stessa posa di quella della Croce Capitolare (fig. 10) o della Maddalena del dono di Pio IV (fig. 22); anche san Giovanni che si asciuga le lacrime nelle vesti sovrabbondanti mostrando la medesima iconografia si presenta affine nelle due opere di confronto (figg. 1322-23). Fig. 23. questo immenso tesoro doveva emergere in qualche opera così come l’influsso dell’arte di Donatello e Jacopo Sansovino che ha modo di assorbire in questo soggiorno veneziano. Nel 1538 viene nominato incisore della zecca pontificia; a Roma assiste ai lavori del Giudizio Universale di Michelangelo che gli manifesta un’inconsueta benevolenza: un’occasione unica da cui nasce un’intesa proficua. Certamente l’aretino, durante la sua permanenza romana, era rimasto incantato dalla novità e maestà dei capolavori realizzati dal genio fiorentino: il Mosè della tomba di Giulio II, la Pietà della Basilica di San Pietro, gli affreschi della Sistina, opere che gli lasceranno un’incredibile impronta per la potenza dei volumi espansi e l’espressività dei sentimenti. Nel 1542 si stabilisce a Milano, dove ottiene la carica di incisore della zecca imperiale: apprezzato da Carlo V, per il quale esegue numerosi ritratti in bronzo, segue l’imperatore in Baviera e nelle Fiandre. Qui incontra anche il giovane Giambologna la cui opera ha molti punti di contatto con quella del Leoni. Passa un ventennio e l’artista prediletto di Pio IV, ormai celebre, ottiene da Michelangelo una lusinghiera attestazione di stima e fiducia che è quasi un’investitura: nel 1560 il Buonarroti lo designa espressamente per l’esecuzione, in sua vece, di un monumento di grande importanza, il sepolcro del Meneghino, fratello del Pontefice, nel Duomo di Milano. Leone si presenta, quindi, come un artista dalla cultura molto ampia e recettiva di tutte le novità tecnicostilistiche che fa proprie reinterpretandole in base alla sua sensibilità: l’oreficeria e la scultura veneziane, la potenza energica di Michelangelo, i “moti dell’animo” di Leonardo di cui collezionerà i disegni (molti dei quali sono studi preparatori per il Cenacolo; M. S. TRONCA, La collezione di Leone Leoni e le sue implicazioni culturali, in Leone Leoni tra Lombardia e Spagna, cit. nota 92, pp. 31-38) che passeranno tramite il figlio Pompeo a Windsor e a Madrid. Dio Padre (fig. 16), la cui barba ricorda esempi ben noti al Leoni quali il Mosè michelangiolesco e la figura del suo mecenate, Pietro Aretino, incisa su una moneta, è somigliante al viso del San Paolo dell’Escorial e al Padre Eterno (fig. 22) del gioiello del Tesoro del Duomo così come i putti (fig. 16) che sostengono questa figura nella Croce Capitolare sono confrontabili con quelli che giocano sulla nuvola con i simboli della Passione collocati nella lunetta della Pace (fig. 22). Inoltre, la figura di sant’Ambrogio (fig. 8) e la serie degli Evangelisti (figg. 17-18-1920) raffigurati con il rispettivo simbolo richiamano le statue realizzate per il Retablo dell’Escorial sia nell’iconografia sia nell’attenzione ai dettagli e alla vigorosa volumetria. All’edicola di Pio IV sono stati avvicinati altri preziosi tra cui un medaglione raffigurante Giuditta con la testa di Oloferne e un pendente in oro su fondo di diaspro con una figura di san Sebastiano94 derivata dalla scultura di medesimo soggetto realizzata per il Duomo di Milano da Cristoforo Solari, un artista al cui stile appartengono “le (94) Questo gioiello, reso noto dalla Hackenbroch, è stato genericamente attribuito a manifattura milanese fino al XX secolo per il rapporto con la scultura monumentale di Bambaia e Cristoforo Solari. (S. ZANUSO, Cristoforo Solari tra Milano e Venezia, in “Nuovi studi”, Rivista di arte antica e moderna, anno V, n. 8, 2000, pp. 17-33, in particolare p. 19) 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO proporzioni tozze, i volumi espansi e fortemente plastici95”. In questa statua emerge una resa ammorbidita e naturalistica del nudo, un’espressione di intenso patetismo del volto e “alcune note arcaizzanti quali, in corrispondenza del fianco destro, la cascata di pieghe coniche che, nella loro ridondanza, sembrano citare soluzioni care alla scultura gotica96”: proprio il dettaglio del perizoma sembra richiamare la fattura di quello della Croce Capitolare, leggero e aderente alle gambe di cui emergono i volumi, annodato allo stesso modo lateralmente97 (figg. 524). Secondo Hackenbroch98 il gruppo dei gioielli appartiene allo stesso autore della Pace del Tesoro del Duomo, che Venturelli99 identifica inizialmente con la bottega dei Leoni e in un secondo momento ipotizza anche altri autori100 quali i Miseroni o Annibale Fontana mentre Agosti101 avanza l’attribuzione al Moderno, proposta da tenere in considerazione per Zanuso102. Alla luce di queste valutazioni, ritengo che la Croce Capitolare potrebbe essere avvicinata a questo corpus di opere. Non si può individuare con certezza l’autore dell’oreficeria in esame – ritengo l’ipotesi di Leone Leoni abbastanza plausibile visti i confronti stilistici “col suo concitato manierismo non alieno da una (95) S. ZANUSO, Cristoforo Solari..., cit. nota 94, p. 24 (96) Ibidem, p. 22 (97) Ibidem: “A fronte della deludente esecuzione materiale, il San Sebastiano rimane, nell’insieme, un’immagine di una modernità abbastanza sorprendente nel panorama della produzione locale dei primi due decenni del Cinquecento: va detto anzi che i caratteri più notevoli dell’opera, cioè un classicismo monumentale e naturalistico in sintonia con gli esiti elaborati dalla cultura figurativa centro italiana, sono poco frequentati dagli scultori lombardi e soprattutto in aperta controtendenza rispetto al classicismo minuto e descrittivo che andava proponendo, a cavallo tra secondo e terzo decennio del secolo, colui che a queste date poteva ormai essere considerato, secondo le parole di Vasari, “concorrente” di Cristoforo Solari: ovviamente, Bambaia. Quest’ultimo, a modo suo, non doveva comunque rimanere insensibile al fascino del San Sebastiano del Duomo, visto che lo prendeva a modello verso il 1525-1528, per il San Sebastiano dell’Arca di Sant’Evasio a Casale Monferrato.” (98) Y. HACKENBROCH, Renaissance Jewellery, New-York – München, 1979, pp. 41-44 (99) P. VENTURELLI, Gioielli e gioiellieri milanesi. Storia, arte, moda (1450-1630), Milano, 1996, p. 119 (100) P. VENTURELLI, scheda relativa alla Pace, in Carlo e Federico..., cit. nota 89, pp. 286-287 (101) G. AGOSTI, Bambaia..., cit. nota 32, pp. 131-132 nota n. 87 (102) S. ZANUSO, Cristoforo Solari..., cit. nota 94, p. 29 nota n. 21 000 NUOVI ANNALI - 2010 vena pittoricistica d’estrazione veneto-sansoviniana103” – ma certamente si tratta di un artista di altissimo livello che ha una solida preparazione tecnica, una conoscenza aggiornata sulle novità della cultura rinascimentale romana e fiorentina, i cui punti di riferimento principali sono la miniatura e la scultura. Costituisce una prova evidente il doppio filone che si è prospettato con la vicinanza stilistica ad opere di Cristoforo Solari, uno dei protagonisti della decorazione scultorea del Duomo nonché rappresentante del classicismo monumentale e naturalistico aggiornato sulle novità dell’Italia Centrale, e di Leone Leoni, artista pluridisciplinare, orafo, culturalmente vivace, tramite oltre che interprete di tendenze artistiche molteplici. È un dialogo tra le arti il segreto di questo maestro orafo che fa della sua opera un capolavoro dell’oreficeria milanese della metà del Cinquecento, frutto di un incontro-scontro di sensibilità ed esperienze diverse che si ritrovano a lavorare fianco a fianco nel cantiere del Duomo: questo confronto di personalità arricchisce l’esperienza dell’autore della Croce Capitolare grazie al rapporto con maestri che operano in ambiti diversi e veicolano particolarità di centri artistici anche stranieri. In questa direzione possono essere citati illustri Crocifissi che hanno dettagli stilistici affini con la figura del Cristo della croce Capitolare. Si tratta di esemplari di artisti con cui l’aretino entra in contatto durante il suo soggiorno romano: il Cristo in croce in legno policromo conservato al Museo del Bargello di Firenze e attribuito a Michelangelo giovane (1495) per lo studio anatomico e la posizione delle gambe; il Crocifisso marmoreo dell’Escorial (1556-1562) di Benvenuto Cellini per l’espressività del volto, la resa dei capelli e della barba nonchè il dettaglio delle braccia tese con i vasi sanguigni che emergono in superficie. Inoltre, “non è forse una coincidenza che proprio a Leone si debba la più antica menzione del Giambologna, in una celebre lettera a Michelangelo scritta da Firenze nel 1560. Leone giunse alla corte imperiale per sottoporre a Carlo V il progetto di un monumento equestre in bronzo, e anche se allo stato attuale delle conoscenze possiamo solo supporre che il giovane fiammingo abbia incontrato lo scultore di Carlo V, la presenza del Leoni nella patria del Giambologna riveste un ruolo emblematico, poichè il fiammingo ne diventerà in un certo senso il successore: da lui deriverà l’idea di una celebrazione dinastica affidata a bronzi realizzati con una tecnica sempre più perfezionata per poter rispondere alle esigenze della produzione di scultura in scala monumentale104.” Anche se si tratta di un’opera successiva, è interessante notare la vicinanza tra la Croce “di san Carlo” e l’esemplare in oro conservato nella Geistlichen Schatzkammer a Vienna – il cui modello viene attribuito al Giambologna105 – affini per la lavorazione della lamina e per l’attenzione all’effetto di chiaroscuro. La citazione di maestri di grande rilievo è data dalla raffinatezza delle figurazioni dell’oreficeria in esame che può reggere il confronto e anzi inserirsi a buon diritto tra le opere dei maestri più importanti del Rinascimento sia per l’abilità tecnica sia per la realizzazione precisa ed al tempo stesso “espressionistica”. Gli aspetti stilistici sono confortati dai riscontri archivistici. Dal punto di vista documentario si sono rivisti gli inventari della Sagrestia Meridionale del Duomo di Milano dove erano custoditi tutti i beni del Capitolo Metropolitano e questa oreficeria in particolare106. (104) D. ZIKOS, Le belle forme della Maniera. La prassi e l’ideale nella scultura di Giambologna, in Giambologna. Gli dei, gli eroi: genesi e fortuna di uno stile europeo nella scultura., B. Paolozzi Strozzi – D. Zikos (a cura di), Firenze-Milano, 2006, pp. 2143, in particolare p. 22 (105) D. DIEMER, Giambologna in Germania, in Giambologna. Gli dei, gli eroi..., cit. nota 104, pp. 107-125 in particolare pp. 114-115 (106) Biblioteca Ambrosiana, A 112 Inf. foglio 284 (p. 142 verso); ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1581, Cart. 3/2, f. 2 v; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1581, Cart. 3/3, f. 1 v; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1595, Cart. 3/7, f. 3 r; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1595, Cart. 3/8, p. 4 r; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 3 (già 150), 1653, Cart. 3/10, f. 41 v; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/1, 1784, p. 6; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/3, 28 Settembre 1796, n. 63; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/4, 4 Dicembre 1796, n. 39; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/6, 24 Maggio 1798 – 5 Pratile anno VI, Vestaro n.7, n. 194; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 17841827, Cart. 5/8-9, 28 Aprile 1800, Vestaro II e III; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/10, 1814 – 1820, p. 38; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 17841827, Cart. 5/11, Inventario Anno 1827, pp. 69-70; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/12, Inventario Anno 1827, pp. 69-70; ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), (103) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Pace di Pio IV, in Tesoro e Museo..., cit. nota 88, scheda n. 32, p. 64 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO La prima attestazione certa si trova nell’Inventario Castelli, datato 1565, redatto in occasione della prima visita pastorale in Duomo del nuovo Arcivescovo Carlo Borromeo. In questo registro la Croce Capitolare, descritta107 nei particolari, è elencata per prima. Se questo è il sicuro termine ad quem per la realizzazione della Croce, si è trovato anche un possibile termine a quo: la presenza di una notizia riportata negli Annali della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Al giorno giovedì 12 gennaio 1542 è così annotato: “Sulla proposta dei signori Ordinarj di far fare una nuova croce d’oro in concorso colle rappresentanze dell’Ospedal maggiore e dei luoghi pii della Misericordia, della Carità e della Scuola delle Quattro Marie, deliberarono dovere gli agenti della fabbrica pagare la porzione contingente della spesa108.” Una datazione tra il 1545-50 e comunque entro il 1565 risulta quindi plausibile alla luce dei confronti stilistici e dei riscontri documentari. Se, tuttavia, non si sono trovati riferimenti precisi sulle circostanze relative alla committenza, la consultazione degli archivi ha permesso di reperire notizie sulla sua struttura originale, le modifiche nel corso del tempo e i restauri che hanno interessato la Croce. Nel 1653 si registravano109 alcuni guasti. Un primo intervento è effettuato nel 1754cx mentre “fu intieramente ristaurata nel 1849 e costò il ristauro compreso l’oro aggiuntovi Mil. 110 £ 6000111”: un costo molto elevato giustificato probabilmente dal rifacimento112 di tutta la struttura lignea e dal rinforzo113 delle lamine d’oro diffusamente danneggiate. Questa ipotesi collimerebbe con i rilievi compiuti nel 2003 quando lo studio di restauro Angelucci riceve l’incarico di effettuare una ricognizione completa e accurata dello stato di conservazione del manufatto ed eventuali operazioni di ripristino della stabilità dell’opera114. La Croce Capitolare si caratterizza per la raffinatezza dei materiali costitutivi: la preziosità e la siml’estremità inferiore un S. Ambrogio, nell’estremità anteriore vi sono i SSti Evangelisti il tutto d’Oro, ed il bastone d’argento. Valore dell’oro £ 5400 - Peso dell’Argento 30 e Valore £ 115” (111) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/12, 1827, pp. 69-70 (112) Il legno sagomato si presenta di varie essenze con lamelle di piccole dimensioni unite ad incastro e attaccate con colla animale. I bracci sono uniti mediante due lastre di ferro avvitate. Anche il puntale è fissato alla croce con il medesimo sistema (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro, punto n. 16). Questa struttura ha fatto supporre al restauratore un radicale ed invasivo intervento di restauro dovuto al cattivo stato di conservazione: il legno doveva essere danneggiato tanto da essere sostituito. Per di più la sagoma già complessa della croce è stata resa una forma metallica chiusa nella quale, in occasione di questo antico restauro, si è dovuto inserire un nuovo legno costruendolo a lamelle incollate, adattandolo braccio per braccio, con un gioco di incastri che ne ha fatto un’opera d’alta ebanisteria, ma che gli ha tolto buona parte della capacità portante. Questo intervento ha reso la croce fragile ed esposta all’attacco di microrganismi che hanno determinato la perdita della capacità adesiva della colla animale stesa per fissare le lamelle. L’effetto non è stato così nocivo per il legno che ha potuto essere recuperato con un paziente lavoro di pulitura, disinfezione e consolidamento. (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, relazione di restauro, pp. 2-3) (113) E’ probabile che nel corso di questo restauro ottocentesco le rotture delle lamine, indebolite dalla stessa lavorazione a sbalzo e dai danni successivi, si presentassero così diffuse ed importanti da decidere di rinforzarle applicando sul retro lastrine di metallo e saldare le fratture ad alta temperatura con l’argento che ha però modificato la composizione del metallo nelle zone ad esse circostanti. Questi stessi punti col passare del tempo sono stati aggrediti dai gas dei microrganismi, responsabili della perdita di coesione della struttura lignea, provocando degli annerimenti. (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, relazione di restauro, p. 2) Per ottenere una buona durata dei risultati ottenuti con il restauro, dopo consistenti lavaggi con e senza un detergente neutro, è stata applicata su tutte le superfici una resina acrilica pura, incolore, elastica e sufficientemente reversibile in rapporto alla consistenza superficiale dell’oro (S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, relazione di restauro, pp. 2-3) (114) S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, relazione e scheda di restauro Inventari 1784-1827, Cart. 5/13, p. 23; Inventario dei paramenti e delle suppellettili sacre del Duomo di Milano, in “Archivio Ambrosiano”, XXX, Milano, 1976, p. 54. (107) Biblioteca Ambrosiana, A 112 Inf., foglio 284 (p. 142 verso): “1. Una croce d’oro con il manegho d’argento con il fondo di piastre di oro con sopra uno intaglio, lavorato all’arabesca di oro, uno Dio patre, un Christo in croce co’ la diadema, et il pelicano, di supra. Alla dextra detto Christo, una Madóna, Alla sinistra Sto Giovannj. Al piede Sto Ambro et dalla parte detto Dio patre, li quatri Evangelista, et 8 granate e 4 zaffiri, et altre 4 granate, 4 zaffiri et una grisolice xide (?) co’ le suae casse d’oro, tutti finj, e 4 bottoni di cristallo de Montagna, ornati de 4 fogliette d’oro co’ doi scartozzi per caduno d’oro. Et nel primo bottono d’issa granatine nu. 4 ligate in oro a fogliammj, et è fatta per uso dlle processioni, il costo è libbre 88 66 (108) Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine fino al presente, vol. III (1481-1550), cit. nota 36, p. 279 (109) R. BOSSAGLIA – M. CINOTTI, Croce astile capitolare detta di “S. Carlo”, in Tesoro e Museo..., cit. nota 88, vol. I, scheda n. 22, pp. 60-61 (110) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/1, 1784, p. 6: “Una croce d’oro grande portatile aggiustata nel 1754. col Crocifisso pure d’oro, nella parte posteriore un Dio Padre; su la cima un Pelicano, alle due estremità laterali la B.V. e la Maddalena; nel- 000 NUOVI ANNALI - 2010 bologia dell’oro è completata dalle gemme. È, infatti, non solo un Crocifisso processionale, una Croce fiorita-albero della vita ma anche Crux Gemmata et Gloriosa: il patibolo del figlio di Dio splendente della gloria della sua Resurrezione. Le pietre preziose della Croce Capitolare sono state individuate in modo preciso da alcuni inventari o guide: al f. 284 dell’Inventario Castelli115 del 1565; nel 1642116 sono ricordate delle “gioie117”; nel 1723118 era “ornata di gioje n. 21, nella croce quattro palle di Cristallo, e quattro granate nel pomo abasso119”; la medesima descrizione si trova nel 1739120; alcune pietre colorate sono ricordate nell’inventario del 1796121; “con diverse pietre false” è citata nel 1798122; una nota alla descrizione della croce in un inventario del 1827 è particolarmente interessante: “Con ventotto pietre fine diverse cioè 10 (? , la seconda cifra è malamente corretta e non ben comprensibile forse un 6 o probabilmente uno 0 perchè la somma sia corretta) granato porpora e 4 piccole, sette zafiri, un topazio paglierino, due zafiri falsi, e quattro palle di cristallo di morate (?) forate.123” Il secondo inventario del 1827124 che cita il restauro di £ 6000 milanesi non fa menzione di eventuali sostituzioni o sistemazione delle pietre preziose. Nel 1840125 Malvezzi la indica “fregiata di ventuna gioie, di quattro granate e di quattro palle di cristallo finissimo” mentre nell’inventario del 1976126 si enumerano “sul recto tredici pietre in castone di varia qualità e grandezza (una mancante); sul verso dodici pietre in castone di varia qualità e grandezza (una mancante).” L’analisi gemmologica127 effettuata ha esaminato: 4 ovoidi incolori sfaccettati con foro passante a raggiera attorno al centro della croce individuati come quarzi naturali incolori ossia cristalli di rocca; sulla parte anteriore 9 pietre trasparenti: 4 da rosso a rosso porpora a cabochon ovale irregolare (granati naturali) e 5 blu di tagli vari (a gradini, a faccette, a cabochon) di cui 4 corindoni naturali varietà blu trasparente ossia zaffiri naturali e 1 vetro artificiale azzurro trasparente ovale sfaccettato posto all’estremità esterna alla destra del Cristo; sulla parte posteriore della croce sono presenti 11 pietre trasparenti: 1 gialla chiara ovale sfaccettata (non analizzata con certezza a causa della montatura), 7 da rosse a porpora a cabochon ovale irregolare (granati naturali), 1 violablu chiaro (zaffiro naturale), 2 blu chiare rettangolari a tavola a gradini (zaffiri naturali), 1 pietra mancante; sulla base dell’innesto: 3 pietre da rosso a rosso porpora a cabochon ovale irregolare (granati naturali) e 1 pietra mancante. Gli zaffiri presenti sulla croce hanno caratteristiche tipiche di quelli di Sri Lanka (già Ceylon)128. La pietra mancante del retro della Croce è segnalata dalla presenza sul verso di 12 castoni129: rispetto alla pubblicazione di queste analisi, sono passati parecchi anni e in questo lasso di tempo, oggi, i castoni del retro sono effettivamente 12 ma tutti completi della propria gemma. Il restauro del 2003 ha infatti rilevato: sui bracci 9 gemme sul recto e 12 sul verso e 4 cristalli di rocca sfaccettati inseriti all’incrocio dei bracci130. Quella mancante è stata sostituita con una pietra trasparente sfaccettata di colore verde. In effetti, osservando il castone, il bordo è stato visibilmente forzato per estrarre la pietra originale e mal adattato a quella attuale che è di misura più piccola rispetto al diametro dell’incastro. Tuttavia importa notare la fattezza identica di tutti i castoni delle pietre posizionate sulle lamine (fig. 15): sono a forma di fiore a 6 o 8 petali lisci bordati da una ulteriore fascia perimetrale con lavorazione a zigrino come il fondo delle lamine cui sono fissati grazie a due chiodini esterni (115) Biblioteca Ambrosiana, A 112 Inf., f. 284 (p. 142 verso) (116) P. MORIGI, Il Duomo..., cit. nota 87 (117) Ibidem, p. 119 (118) NAVA, Distinto Raguaglio..., cit. nota 87 (119) Ibidem, p. 101 (120) P. A. FRIGERIO, Distinto Ragguaglio..., cit. nota 87, p. 67 (121) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/3, 1796, voce n. 63 (122) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/6, 1798, voce n. 194 del Vestaro n. 7 (123) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/11, 1827, p. 70 (124) Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/12, 1827, p. 70 (125) L. MALVEZZI, Il tesoro del Duomo..., cit. nota 87, pp. 11-12 (126) Inventario dei paramenti e delle suppellettili sacre..., cit. nota 106, p. 54 (127) Analisi gemmologica del Tesoro del Duomo di Milano, Superchi M – Sesana E. (a cura di), Milano, 1986, pp. 30-33 (128)Ibidem, p. 32 (129) Ibidem, p. 31. Come si è potuto rilevare dagli inventari, il numero dei castoni della croce non si è mai modificato (n. 21, escludendo i quattro cristalli di rocca e i quattro granati nel nodo) mentre nel corso dei secoli sono state rilevate delle mancanze e, a volte, delle pietre definite “false” (Milano, ACMi, Fondo Sacrestia Meridionale, Cartella 5 (già 152), Inventari 1784-1827, Cart. 5/6, 1798, voce n. 194 del Vestaro n. 7). Questa pratica è abbastanza frequente anche per possibili cadute oltre che eventuali sottrazioni. (130) S. ANGELUCCI, Il Restauro..., cit. nota 4, scheda di restauro, punto n. 10 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO ed un perno centrale sottostante la base. La montatura a notte delle pietre è ottenuta con il perfetto inserimento della gemma e il ripiegamento del bordo esterno. Per i castoni dei granati del nodo (uno dei quali ancora privo della pietra), semplici tondi, è stata utilizzata la stessa tecnica. I cristalli di rocca (fig. 16) sono forati per permettere la disposizione a raggiera rispetto all’incrocio dei bracci. La splendida lavorazione dell’attacco e della parte terminale del foro è realizzata in lamina d’oro: un cespo d’acanto con foglie distese fa da base a doppie volute dentate che si dipartono nelle quattro direzioni. All’incrocio di questi sostegni si innesta l’ovulo di cristallo la cui base è avvolta in altre foglie d’acanto così come la punta esterna è decorata con quattro foglioline al centro dalle quali è dissimulato il chiodo di fissaggio. La scelta predominante della Croce Capitolare si è incentrata sui granati e gli zaffiri che, con buona probabilità, erano le sole varietà di gemme che originariamente impreziosivano questa oreficeria. Le tipologie diverse che si sono rintracciate, credo siano frutto di rimaneggiamenti successivi. Il rosso del granato può assumere molte sfumature simboliche ma associato al Cristo è la vittima sacrificale la cui morte era intesa come compimento di tutti i sacrifici di sangue131. Il rosso è anche il colore della fiamma della luce di Dio che ci illumina, dell’ardore della sua Carità132. Il blu dello zaffiro da sempre simboleggia la virtù della spiritualità legata alla modestia, atteggiamento imposto a chi pratica le Leggi di Dio e segue con fedeltà l’insegnamento della Chiesa. Nella religione cristiana il simbolismo è molto antico: sia il trono di Jahvè, che quello di Zeus, sono raffigurati come la volta celeste blu impareggiabilmente luminosa. Lo zaffiro è una delle gemme che servono per il cielo di Gerusalemme. È ritenuto anche simbolo del manto che la Regina dei Cieli, Maria, stende con gesto materno su tutti i credenti e sui peccatori, nonchè del mantello di Gesù in associazione al Regno dei Cieli133. Sono “diverse, se pur numerose, le virtù dello zaffiro, che secondo i lapidari purificava gli occhi, raffreddava il sangue, e curava le malattie della pelle, difendeva da frodi, inganni e povertà e procurava l’amore di Dio e degli uomini. Pietra color del cielo, spesso associata alla figura della Vergine come simbolo di castità e purezza, secondo Alberto Magno generava pace e concordia e faceva l’animo puro e devoto a Dio.134” In particolare, “il blu può essere accompagnato dal rosso quando indica lo Spirito Santo, perchè nella teologia cristiana lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio prende i colori dell’Amore divino, Dio (rosso), e della Verità divina, Gesù Cristo (blu)135.” Il colore non colore dei cristalli di rocca che circondano emblematicamente le figure del Crocifisso e del Padre Eterno “è l’espressione dell’assoluto, dell’inizio e della fine, della pienezza e del vuoto, e anche dell’unione di questi estremi136”. In quanto colore della luce, il bianco traslucido del cristallo “trasmette il senso dell’illuminazione, della trasfigurazione, della resurrezione e della completezza137”. Simbolo di divinazione, la forma preferita per questo materiale era una sfera o un ovoide cui erano riconosciuti anche poteri ipnotici138. Le gemme incastonate nelle lamine oltre a creare un gioco cromatico elegante e raffinato, valorizzano ancora di più l’uso simbolico dell’oro che vuole proprio sottolineare la preziosità della Croce e lo splendore della luce che emana quasi effusione dello stesso Spirito Divino. Questo materiale luminoso e non soggetto all’ossidazione è collegato quasi in tutte le culture al Sole. Nel Cristianesimo l’oro è simbolo della luce celeste e della perfezione139, della divinità che la Bibbia definisce “luce del mondo” e della gloria, in particolare quella ultraterrena140, riservato così molto spesso alla produzione di oggetti sacri o regali. L’importanza delle croci d’oro si relaziona alla Crux Rutilans, la croce rifulgente141 collocata sul Monte (134) G. BUTAZZI – M. T. BALBONI BRIZZA – A. ZANNI, Anello, in Gioielli..., cit. nota 132, scheda n. 2, p. 30 (135) R. GILLES, Il simbolismo nell’arte religiosa, Roma, 1993, pp. 146-147 (136) I. RIEDEL, Colori..., cit. nota 131, p. 187 (137) Ibidem (138) M. T. BALBONI BRIZZA – A. MOTTOLA MOLFINO – A. ZANNI, Lampada, in Gioielli..., cit. nota 132, scheda n. 6, p. 38 (139) H. BIEDERMANN, Enciclopedia dei Simboli, cit. nota 59, pp. 352-353 (140) E. URECH, Dizionario dei simboli cristiani, cit. nota 9, p.184 (141) S. HEID, La croce dorata sul monte degli Ulivi dal IV fino al VII secolo, in La Croce. Iconografia e interpretazione (131) I. RIEDEL, Colori. Nella religione, nella società, nell’arte e nella psicoterapia, Roma, 2001, p. 38 (132) M. T. BALBONI BRIZZA – A. ZANNI, Anello, in Gioielli. Moda, magia, sentimento, M. T. Balboni Brizza – G. Butazzi – A. Mottola Molfino – A. Zanni (a cura di), catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 26 settembre – 2 novembre 1986), Milano, 1986, scheda n. 1, p. 29 (133) I. RIEDEL, Colori..., cit. nota 131, p. 81 000 NUOVI ANNALI - 2010 Un’altra occasione in cui ne è menzionato l’uso specifico è la processione d’ingresso del nuovo Arcivescovo: “il gruppo del Capitolo era riconoscibile per la croce d’oro che ne apriva l’incedere.144” Qualsiasi Arcivescovo giungesse nella propria sede era assimilabile al Cristo che entrava in Gerusalemme, ma nel rito erano conservate reminescenze pagane, rese evidenti dall’uso di archi trionfali. Il percorso di avvicinamento alla sede era segnato da frequenti atti di omaggio da parte delle Autorità locali. Le celebrazioni d’ingresso iniziavano non quando il nuovo Arcivescovo varcava la porta della città ma con la vestizione che avveniva nella Basilica di Sant’Eustorgio a cui seguivano la presentazione reciproca con le istituzioni cittadine e il rito del bacio della croce. Ogni fase della cerimonia avveniva in luoghi diversi: la sagrestia, la Basilica, il sagrato. Terminata la vestizione, il prelato raggiungeva l’altare maggiore della Basilica accompagnato da alcuni religiosi. L’ingresso di san Carlo nella diocesi di Milano ha portato un’importante innovazione nel rituale: la partecipazione collettiva e attiva del popolo organizzato in confraternite. Il corteo che ha accompagnato il Borromeo era aperto da due canonici assistenti, seguiti dall’Arcivescovo, dai vescovi suffraganei e da diversi cappellani, uno dei quali portava, degli Ulivi di Gerusalemme tra il IV e il VII secolo, citata per la prima volta da san Girolamo. Ben visibile da lontano è sfolgorante soprattutto al mattino dato che il sole sorgendo proprio da tale punto accende con i suoi raggi l’oro: a questa immagine suggestiva era associata l’idea del Cristo, sole nascente della giustizia. Da questo riferimento si può desumere il valore che le croci d’oro hanno sempre assunto nel panorama liturgico cristiano, in particolare se processionali, come nel caso della Croce Capitolare: l’oggetto perde la valenza concreta per assumere un significato paradigmatico, quale segno di riconoscimento di un popolo, stella polare cui orientarsi sempre, ideale di moralità. Nella liturgia del rito ambrosiano una croce aurea gemmata era utilizzata durante la festa del ritrovamento della Croce il 3 maggio. Nel Medioevo, a Milano, oltre che nella Cattedrale, questa ricorrenza – così come ci è testimoniata da Beroldo142 – era solennizzata nella Chiesa di Santa Maria ad circulum dove veniva portata una croce di tale tipologia143. (secoli I - inizio XVI), B. Ulianich (a cura di), Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 6-11 dicembre 1999), voll. 3, Napoli-Roma, 2007, in particolare vol. II, pp. 49-55. All’inizio del IV secolo, sotto Costantino, molti pellegrini, giunti in città, si recavano su questa altura per vedere il Tempio, distrutto dai Romani nel 70, prova evidente della veridicità della profezia di Cristo (“Non resterà qui pietra su pietra”). Riportano notizie di questi pellegrinaggi sia Eusebio di Cesarea († 339) sia San Girolamo (†420), il quale parla di una croce risplendente d’oro che guardava le rovine dell’edificio sacro agli Ebrei, simbolo della gloria di Dio e della forza con cui abbatte gli idoli. Un episodio rafforza questa convinzione: quando nel 363, sotto l’imperatore Giuliano l’Apostata, si cercò di riedificare il luogo di culto, un terremoto fece fallire il tentativo e i Cristiani celebrarono l’evento come una vittoria della Croce. Un ulteriore tentativo di ricostruzione non andò a buon fine perchè, per un miracolo, dal cielo piovvero pietre; anche in questa occasione la Croce aveva trionfato. Gli Ebrei, anche dopo la distruzione del Tempio, avevano mantenuto la consuetudine di rivolgere le preghiere verso quel sito, posizionato a Est. I Cristiani si rivolgevano ad Oriente perché convinti che da quella direzione Cristo sarebbe tornato alla fine dei secoli. Per i gerosolimitani questo significava pregare rivolgendosi verso il santuario degli Ebrei. Si cercò di evitare ambiguità e malintesi innalzando sul Monte degli Ulivi una croce che risultava ben visibile da lontano e sfolgorante. Probabilmente il simbolo cristiano fu rimosso dopo la conquista araba. (142) Beroldus sive ecclesiae ambrosianae mediolanensis kalendarium et ordines saec. XII, M. Magistretti (a cura di), Milano, 1894, p. 123 (143) Il prete che doveva cantare messa la baciava, e, dopo di lui, gli altri. Quindi era condotta a San Pietro in vinea e, di là, fino al Monastero Maggiore (P. BORELLA, Il rito ambrosiano, Brescia, 1964, pp. 432-433). Si può notare che i due poli principali dell’itinerario si trovavano ai capi dell’area corrispondente a quello che era stato il Circo in epoca romana: si pensò così che tale modo di solennizzare la festa rappresentasse la sostituzione cristiana dell’antica pompa circensis. Altre ipotesi vedono nella processione e nelle cerimonie che l’accompagnavano un rito lustrale contro spiriti maligni in favore dell’accrescimento della vegetazione come appunto, nel mese di maggio, volevano gli antichi riti pagani; oppure, pensando al Circo come il luogo dove alcuni cristiani avevano subìto il martirio, si pensa che la Croce portata in corteo possa avere anche un significato di trionfo (P. BORELLA, Il rito ambrosiano, cit. nota 143, p. 433; M. NAVONI, Croce, in Dizionario di liturgia ambrosiana, M. Navoni (a cura di), Milano, 1996, ad vocem, pp. 168-169). (144) F. MARCHESI, Gli ingressi solenni degli arcivescovi in Milano da Carlo a Federico Borromeo (1565-1595), in “Comunicazioni Sociali”, anno XXII, Aprile-Settembre 2000, pp. 169-219, in particolare nota n. 117, p. 185; F. RUGGERI, Un documento inedito sull’ingresso dell’arcivescovo Gaspare Visconti, in “Ricerche storiche sulla chiesa Ambrosiana”, XV, anno 1985, (Archivio Ambrosiano LVI), pp. 20-38, in particolare la descrizione della processione a p. 31: “Deinde sequebantur tres officiales Matropolitanae quorum medius erat notarius ferens crucem archiepiscopalem, ad dextram erat lector ferens mitram praeciosam, ad sinistram mazeconicus ferens baculum pastoralem, omnes in equis tribus albis seu teardis.” 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO issato su un bastone coperto di seta rossa, una mitria preziosa, mentre un altro prelato reggeva il pastorale. La processione era chiusa dal crocifero con la croce145 che sul sagrato era trasportata da uno dei custodi della Basilica. Questa preziosa insegna veniva baciata dall’Arcivescovo inginocchiato su uno sgabello mentre un illustre membro del Capitolo gliela porgeva. Terminati i riti presso la chiesa di Sant’Eustorgio, il corteo nel quale erano rappresentate tutte le componenti significative della città – tra le quali, in posizione di spicco, era riconoscibile la croce d’oro146 del Capitolo – si trasferiva nella Cattedrale. Inoltre è ricordato un episodio147 in cui san Carlo, rientrando a Milano da una visita pastorale, è accolto da molti canonici che gli vanno incontro a sei miglia dall’ingresso in città e da qui egli è stato preceduto dalla croce “que ante Eum deferri solet148”, indicando appunto quella con cui di solito lo si riconosceva: la Capitolare. Oggi è proprio la Croce processionale oggetto del presente studio ad assolvere la funzione di rappresentanza del Capitolo Metropolitano nelle processioni solenni. In particolare, nonostante l’esposizione nel Tesoro del Duomo, essa è ancora utilizzata nel cerimoniale di insediamento del nuovo Arcivescovo al momento dell’ingresso in Cattedrale. Il bacio della Croce “di san Carlo” rappresenta un segno di devozione verso la tradizione Ambrosiana e di deferenza nei confronti del Capitolo Metropolitano che, in processione dalla Sacrestia Meridionale, preceduto da questa insegna, si appresta ad accogliere il nuovo Arcivescovo sulla soglia del portale maggiore del Duomo. In uso nelle processioni solenni almeno dal Settecento149, non è chiaro il momento in cui si adotta come simbolo del Capitolo Metropolitano e quindi della Diocesi tanto da utilizzarla nella cerimonia con il più alto grado di importanza e ufficialità. Forse tutto è riconducibile alla figura del Santo Arcivescovo da cui la Croce ha preso nome. Questa oreficeria sacra viene detta “di san Carlo” senza tuttavia che sia possibile una correlazione precisa con il Santo Vescovo: non si è trovata traccia di questa definizione che abbia fatto supporre si tratti di un dono da parte del Borromeo, possibilità infatti esclusa chiaramente anche dal Malvezzi150 e non supportata da altri riferimenti. San Carlo, nel suo cammino di spiritualità, concentra la sua attenzione sul crocifisso. L’Arcivescovo di Milano non celebra solo la croce “extra nos ma se ne appropria soggettivamente con tutti i mezzi a disposizione dell’uomo credente: sentimenti, affetti, pensieri, intenzioni, innumerevoli atti di mortificazione interni ed esterni, rinunce e sacrifici volontariamente assunti, costantemente cercati e praticati per tutta la vita, in modo non sconsiderato ma con crescente intensità, nella convinzione di poter imitare da vicino Cristo crocifisso, modello di ogni cristiano autentico.151” La vita di Gesù viene vista come magistero il cui vertice e compendio è la Croce, “libro aperto a tutti davanti al quale nessuno può addurre la scusa di non saper leggere 152 ”. Il Crocifisso significa, per Carlo, “il dono estremo di sè da parte di Gesù Cristo e il simulacro dell’efficacissima misericordia di Dio per noi.153” L’ultimo episodio della sua vita è paradigmatico: San Carlo “volle prepararsi alla morte in una scenografia che riproducesse da vicino il contesto della dolorosa passione di Cristo.154” Il Giussano, suo biografo, commenta: “Aveva scolpita nel cuore la passione e morte di Cristo nostro Signore, che mostrava di avere in essa fissi tutti i suoi pensieri e che in questa sola trovava contento; e poichè l’infermità l’impediva di non poter al suo solito separarsi a contemplarla, ne voleva almeno rimembranza avanti gli occhi. Al cui fine fece accomodare un altare in camera ove dava udienza ordinaria, detta la camera della croce, (145) F. MARCHESI, Gli ingressi solenni degli Arcivescovi in Milano , cit. nota 144, pp. 178-179 (146) Ibidem, p. 185 nota n. 117 (147) Diarium Magistri Caeremoniarum Ecclesiae Metropolitanae Mediolani de functionibus ecclesiasticis quibus Sanctus Carolus interfuit vel praefuit, ab anno 1574 ad annum 1577, Biblioteca Trivulziana di Milano, Ms. 1448, in L. MAGNI, L’attività liturgico-pastorale di San Carlo Borromeo nei diarii del maestro delle cerimonie, Tesi di Laurea, a.a. 1978-1979, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, p. LXXXIII, il giorno 24 febbraio 1575 (VI Kalendas martias). (148) Ibidem (149) S. LATUADA, Descrizione di Milano..., cit. nota 87, p. 99 (150) L. MALVEZZI, Il tesoro del Duomo..., cit. nota 87, pp. 1112 (151) F. BUZZI, Il tema della Croce nella spiritualità di Carlo Borromeo. Rivisitazione teologica e confronto con la prospettiva luterana, in Carlo Borromeo e l’opera della “Grande Riforma”. Cultura, religione e arti nel governo della Milano del pieno Cinquecento, F. Buzzi – D. Zardin (a cura di), Cinisello Balsamo (MI), 1997, pp. 47-58, in particolare p. 48 (152) D. TETTAMANZI, San Carlo e la croce. Itinerari di Catechesi, Milano, 1984, pag. 55 (153) F. BUZZI, Il tema della Croce nella spiritualità di Carlo Borromeo, cit. nota 151, p. 50 000 NUOVI ANNALI - 2010 per maggior comodità di essere visitato e servito nell’infermità. Sopra il detto altare fece porre un quadro della sepoltura di nostro Signore; ed un altro simile che teneva nel suo segreto camerino sotto i tetti, fece mettere sopra il suo letto, ed un altro a’ piedi dello stesso letto, nel quale era similmente nostro Signore orando nell’orto; per potere da ogni parte che si volgeva, fissar gli occhi ne’ misteri sacrati di questa santissima passione.155” Forse è azzardato pensare che la Croce arcivescovile detta “di san Carlo” sia stata presente in quella “Camera della Croce”? L’ipotesi può sembrare suggestiva se si pensa che questa particolare oreficeria è portatrice dei diversi significati – teologici, antropologici, simbolici – così cari al Borromeo, riassunti magnificamente in un unico preziosissimo oggetto diventato simbolo dell’intero Capitolo Metropolitano che ha in san Carlo il suo più illustre Arcivescovo. Auspico che l’oggetto di questo studio, suggerito dalla Dott.ssa Giulia Benati, espressione dell’interesse suscitato dalle lezioni coinvolgenti della Prof.ssa Annalisa Zanni, possa apportare un contributo alla storia dell’arte della città che mi ha formato culturalmente e alla quale sono ormai affettuosamente legata. Desidero ringraziare la Prof.ssa Annalisa Zanni, relatrice della mia tesi di specializzazione, per l’impegno, l’attenzione, gli insegnamenti, il Prof. Enrico Mazza per i suggerimenti e le indicazioni, la Dott.ssa Giulia Benati per l’attenzione, la collaborazione e il supporto tecnico-scientifico. A loro vanno la mia stima e la mia gratitudine. Riconoscente per il prezioso aiuto alla Veneranda Fabbrica del Duomo e al Capitolo Metropolitano di Milano, sono profondamente grata per i fondamentali suggerimenti al Sig. Franco Blumer, al Dott. Ernesto Brivio Sforza, al Prof. Ulderico De Piazzi, alla Prof.ssa Mirella Ferrari, al Dott. Roberto Fighetti, a Mons. Claudio Fontana, al Prof. Stefano Lanuti, al Dott. Stefano Malaspina, alla Prof.ssa Lucia Marchese Maiola, a Mons. Marco Navoni, alla Prof.ssa Mariolina Olivari, al Prof. Marco Petoletti, al Sig. Mauro Ranzani che hanno contribuito alla buona riuscita della ricerca. Alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio – Milano, nelle persone del Soprintendente Arch. Alberto Artioli, Sig.ra Lorenza Dall’Aglio, Sig.ra Artemisia Fasano, Sig. Marco Gatti, Arch. Giuseppe Napoleone, Dott.ssa Giancarla Ricciardi e a tutto il personale del Museo del Cenacolo Vinciano va la mia riconoscenza. Inoltre estendo questo ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in me, in particolare alla mia famiglia che ha dimostrato l’affetto di sempre. Dedico questo elaborato alla mia cara mamma. (154) Ibidem (155) G. P. GIUSSANO, Vita di San Carlo Borromeo prete cardinale del titolo di Santa Prassede, arcivescovo di Milano, 2 voll., Varese, 1937, vol. II, libro VIII, cap. XII, p. 172 000 VENERANDA FABBRICA DEL DUOMO DI MILANO bianca 000