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Un’analisi multidisciplinare
della nuova retorica politica
contemporanea
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L’obiettivo di questo lavoro è di costruire un approccio multidisciplinare all’analisi del
linguaggio del potere. Ci si focalizzerà non tanto su singole personalità o eventi storici
(come, ad esempio, il linguaggio di Mussolini o del Terzo Reich), quanto piuttosto su
come linguaggi e codici siano utilizzati per raggiungere degli scopi specifici. In un
qualsiasi talk show, o in qualche convegno, si potrà spesso assistere a dei politici che
discutono utilizzando concetti vaghi e astratti, spesso frammentari; riscuotendo, però,
il favore, e gli applausi, del pubblico. In altre parole: non dicono nulla, ma questo nulla
lo dicono bene. E l’incomprensibilità diventa un punto di forza e di autorevolezza.
Introduzione
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Parole chiave: retorica politica, approccio multidisciplinare, pubblicità elettorale, emozioni, framing.
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È da qualche anno che in psicologia politica si ipotizza che la maggioranza degli elettori conosca davvero poco del programma elettorale dei politici che hanno votato (Brader, 2006). Nel 1992, ad esempio, negli Stati Uniti,
quasi ogni elettore sapeva che George W. Bush, oltre che essere l’allora presidente in carica, detestava i broccoli e l’86% degli elettori conosceva il nome del
suo cane (Millie). Per quanto riguarda le differenze del programma politico di
Bush rispetto a Clinton, invece, le percentuali erano molto più risicate. Solo il
15%, per esempio, sapeva che entrambi i candidati sostenevano la legittimità
della pena di morte (Lau e Redlawsk, 2006). La scelta di un partito o di un candidato, quindi, più che da un’analisi ragionata dei programmi politici, sembra
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Comunicazione Politica 2/2011
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Una prospettiva retorica del discorso politico
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essere condizionata da particolari «scorciatoie cognitive» e da stati emotivi innescati da una precisa e articolata retorica di stampo politico.
Lo scopo di questo articolo è quello di descrivere le tecniche retoriche più importanti e i principali concetti da tenere presenti nell’analisi della
comunicazione politica. L’obiettivo è quindi quello di fornire al lettore una panoramica quanto più vasta possibile, citando sia gli autori classici, sia gli studi
più recenti. Per fare questo, è stato utilizzato un approccio multidisciplinare,
cercando di inquadrare il fenomeno da diverse prospettive. L’articolo inizia con
un’analisi retorica del discorso politico, andando a esplicitare quali siano le
leve maggiormente utilizzate per creare un effetto persuasivo. La letteratura di
riferimento, in questo caso, deriva principalmente, ma non unicamente, dagli
studi di stampo linguistico e semiotico. Successivamente ci si sposterà verso
un inquadramento più generale, andando ad analizzare il contesto in cui ogni
discorso politico è inserito e prende senso. In questa direzione, utilizzeremo
una chiave di lettura prevalentemente sociologica e sociolinguistica. Dall’analisi
del contesto ci si sposterà, infine, su alcune considerazioni derivate dalla letteratura psicologica, incentrate sull’uso delle emozioni in ambito politico. Tali
considerazioni finali permetteranno di inquadrare – con una nuova prospettiva
– alcuni dei concetti principali esposti nelle prime due parti.
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Questa prima parte dell’articolo è incentrata sulla ricerca delle particolarità retoriche del discorso politico. È innegabile che, nella gestione pubblica del potere, il linguaggio svolga un ruolo decisivo, soprattutto per raccogliere
e mantenere consensi. Così come non ogni discorso è politico, la politica non
deve essere ridotta esclusivamente a discorso. Tuttavia, il rapporto tra politica
e linguaggio è fortissimo e radicato: la politica come costruzione persuasoria di
consensi è discorso, e il discorso che stabilisce relazioni e agisce nella realtà è
già parte di un processo politico.
L’accordo. L’argomentazione è finalizzata a ottenere un effetto su
coloro ai quali è rivolta, al punto tale che il suo successo presso i destinata-
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ri diventa la misura della sua validità. Ciò porta alla definizione di uditorio
come l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo dalla sua
argomentazione. È importante sottolineare questo aspetto di intenzionalità
dell’emittente, poiché permette di collegare il modello retorico con la situazione
pragmatica, nella quale il ruolo dei partecipanti è definito e cruciale (Perelman
e Olbrechts-Tyteca, 1969). Concetto non nuovo, visto che già Cicerone, nel suo
Orator, sosteneva che tra i vari registri di eloquenza non ve ne sia uno migliore
in senso assoluto, in quanto la composizione del discorso e il modo con cui
esporlo devono essere scelti in base alla tipologia del pubblico che si vuole convincere. Il bravo politico sa che non può pensare di portare tutti dalla sua parte,
ma conosce quale parte della popolazione potrà essere più facilmente persuasa
a sostenerlo. Solo partendo da un’accurata analisi del proprio pubblico potrà
costruire le argomentazioni più efficaci.
Data la crucialità dell’uditorio, è evidente che l’oratore deve innanzitutto preoccuparsi di catturare e tenere viva l’attenzione, e, adattando il proprio
discorso alle aspettative e ai bisogni dei destinatari, stabilire e mantenere un
contatto continuo con loro. In quest’ottica, la base dell’argomentazione consta
nel creare un terreno comune tra l’oratore e il suo uditorio, un solido insieme di
premesse condivise dalle quali può partire l’argomentazione vera e propria. In
questo senso, per entrare in sintonia con il pubblico, si utilizza spesso un accordo basato sul reale e/o sul preferibile.
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Accordo sul reale. L’accordo sul reale si verifica quando il politico cerca un comune accordo con il suo pubblico per quanto riguarda i fatti storici
e gli eventi «oggettivi». È evidente che, soprattutto in politica, le verità sono
soggettive, e ognuno racconta la sua «storia». Prendiamo, ad esempio, la storia
politica italiana degli ultimi 10 anni: gli eventi accaduti, le imprese realizzate,
le realtà statistiche, i conti economici, per quanto siano dati «oggettivi», sono
stati raccontati, o, meglio, narrati, in modi radicalmente opposti, a seconda del
politico intervistato. Pensiamo poi all’uso sempre più frequente dei sondaggi e
dei dati statistici. Secondo Ceri (1997), l’informazione che essi veicolano è poco
oggettiva, in quanto sono sempre interpretati e spesso basta la considerazione o
meno di una sola variabile per far cambiare completamente i risultati. Comunque, continua Ceri, essi assolvono anche ad altre funzioni indirette che hanno
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a che vedere con la persuasione politica. Innanzitutto vanno a consolidare e
rilanciare l’immagine positiva di un determinato candidato e indebolire quella
dell’avversario. Si parla, in questo senso, di «salire sul carro del vincitore» (to
jump on the winner’s wagon), ossia della tendenza degli elettori incerti a votare
per il partito che sembra vincente. In secondo luogo, poi, i sondaggi inducono un
effetto di agenda setting, cioè affermano il rilievo di alcune questioni politiche a
dispetto di altre (si veda, ad esempio Walgrave, Soroka e Nuytemans, 2008).
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Accordo sul preferibile. Il politico, per trovare un accordo con la sua
platea, oltre a muoversi nella narrazione dei fatti, creando un’implicita condivisione del passato, può tentare anche un accordo sul preferibile, ossia sui valori.
A livello retorico, Perelman e Olbrechts-Tyteca (1969) rilevano come spesso, nel
trattare i valori, si ricorra all’espediente della dissociazione. La dissociazione è
considerata come uno schema argomentativo in cui il parlante, all’interno di
un concetto generalmente ritenuto unitario, individua un aspetto specifico e
lo separa. Facciamo l’esempio della frase pronunciata da Silvio Berlusconi il 20
febbraio 2011: «Quanto all’agenda futura, io convocherò il Consiglio dei Ministri […] per fare in modo che anche l’Italia possa avere finalmente una giustizia giusta ed anche una giustizia degna di un Paese moderno». Soffermandoci
in particolare sulla locuzione «una giustizia giusta», possiamo notare come la
presenza dell’articolo indeterminativo («una») implica l’esistenza di un’altra giustizia e produce immediatamente dissociazione. Ovviamente se vi è «una» giustizia «giusta», vuol dire che ve ne sarà un’«altra», che presumibilmente sarà una
«giustizia ingiusta» (che appartiene all’avversario). Ciò è un ossimoro in termini
logici, in quanto la giustizia non può esser ingiusta per definizione, tuttavia –
con questa tecnica – si possono enfatizzare i valori positivi rappresentati dalla
propria posizione e opporli al tempo stesso alle affermazioni degli avversari,
accusandoli indirettamente di menzogna.
Un altro tipo di dissociazione è quella che permette di trasformare
valori universali troppo generici, banali e potenzialmente confondibili, in valori
precisi e marcati positivamente, creando per gli avversari controfigure di segno
opposto. Ad esempio, il Fli («Futuro e Libertà»), nella lettera al Corriere della Sera
del 28 dicembre 2010, si è definito: «Un partito laico, non laicista». Se il Fli avesse
sostenuto di essere un partito «laico», si sarebbe appropriato di un valore troppo
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vago e astratto; ma, utilizzando la dissociazione, ha dichiarato di essere un partito laico, (ma) non laicista, concretizzando e caratterizzando così il termine.
Altro esempio ancora è fornito dall’abuso della parola «libertà» nella
politica italiana, rintracciabile anche nei nomi di partiti e coalizioni come «Futuro e Libertà», «Casa delle Libertà», «Popolo della Libertà», «Sinistra Ecologia e
Libertà», ecc. Il concetto di libertà riporta a un valore molto vasto e auspicato
(quasi) da tutti; di conseguenza, per farne un termine proprio, il politico dovrà
specificare e delimitare il contenuto. L’abile oratore, allora, nella creazione di un
partito come all’inizio di un discorso, userà la parola «libertà» in senso astratto
e generale, per costruire un frame di riferimento e creare un accordo con il pubblico (chi difatti non vuole la libertà?). Creato il quadro di riferimento universalmente accettato, arriverà poi, per dissociazione e per gradi, a mettere sempre
più a fuoco, specificando di quale aspetto della libertà vuole farsi portatore.
In questo senso, è interessante fare qualche ulteriore considerazione
sull’importanza dei valori in ambito politico. Vari studi hanno accertato che
tratti, valori e preferenze morali distinguono gli elettori di destra e di sinistra
più che i tradizionali indicatori demografici (età, sesso, condizioni economiche
e livello d’istruzione). Nel caso della politica italiana, ad esempio, alcuni studi
(Caprara, 2003) hanno mostrato che le differenze significative tra gli elettori
del centrodestra e del centrosinistra riguardano soprattutto due valori: l’universalismo e la sicurezza. L’universalismo concerne la comprensione, la tolleranza,
il rispetto e la protezione del benessere di tutte le persone e della natura. La
sicurezza concerne l’incolumità, l’armonia e la stabilità nella sfera personale, familiare e sociale. Generalmente gli elettori del centrosinistra assegnano
priorità all’universalismo mentre quelli del centrodestra assegnano priorità alla
sicurezza. L’universalismo è in maggiore sintonia con i temi del pluralismo, della
solidarietà e dell’uguaglianza, particolarmente cari alla sinistra, mentre la sicurezza è in maggiore sintonia con i temi dell’ordine e della stabilità, particolarmente cari alla destra.
Caprara, considerando l’universalismo e la sicurezza come indicatori
dell’orientamento valoriale dei partiti, ha posizionato i vari segmenti elettorali
in uno spazio bidimensionale, le cui coordinate rappresentano i punteggi medi
dei due valori. Nella figura 1 viene riportata la mappa dei partiti (riferita alle
elezioni del 2001).
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Figura 1. Mappa dei partiti
+0,6
Lega
Nord
+0,5
+0,4
Forza Italia
Fiamma
Tricolore
+0,3
Alleanza Nazionale
Ccd-Cdu
+0,1
Margherita
0,0
Democratici
di Sinistra
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Sicurezza
+0,2
–0,1
Radicali
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–0,2
Italia dei Valori
–0,3
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–0,4
–0,5
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Comunisti Italiani
–0,6
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–1,1 –1,0 –0,9 –0,7 –0,6 –0,5 –0,4 –0,3 –0,2 –0,1
0,0
Girasole
Rifondazione
Comunista
+0,1 +0,2 +0,3 +0,4 +0,5
Universalismo
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Fonte: Caprara (2005)
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Il framing. Il framing (inquadramento) consente di separare l’oggetto della discussione dall’ambiente circostante, strutturando il modo in cui esso
viene percepito. Bleich (2007), ad esempio, ha concluso che negli Stati Uniti il
sostegno pubblico alla lotta all’Hiv/Aids scende in modo significativo quando
il problema si inquadra in termini di «aiuti agli altri Paesi» piuttosto che come
«problema di salute globale».
Il framing si sviluppa in particolare nelle parti iniziali e finali di un
discorso, le quali hanno, materialmente e soprattutto metaforicamente, il difficile compito di contenere e di mettere in prospettiva un discorso, rendendolo
accessibile e accettabile ai destinatari.
All’inizio del discorso si possono utilizzare formule di compiacimento verso l’uditorio particolare che si ha di fronte. Queste ultime sono generalmente tanto più utilizzate quanto più la situazione è caratterizzata; nei comizi, ad esempio, si ha di fronte un pubblico piuttosto preciso e peculiare. Per
esemplificare, Berlusconi, in un suo comizio tenuto a Trieste nel 2006, iniziò
intonando la canzone Trieste mia, per poi recitare qualche verso di U. Saba
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(poeta, per l’appunto, triestino) e, infine, dichiarando di voler comprare casa nel
territorio giuliano. È chiaro che attraverso questo tipo di elogio introduttivo si
raggiungono diversi scopi. Innanzitutto si crea una forte vicinanza con l’uditorio; nel nostro esempio, Berlusconi appare come uno di loro, come un buon triestino. Cialdini (2001) dimostra che, quanto più una persona riesce a dimostrarsi
simile al suo interlocutore, tanto più piacerà a quest’ultimo. La somiglianza
può riguardare gli ambienti di provenienza, gli interessi, le opinioni, i tratti di
personalità e il modo di vita. Gli attuali tirocini per venditori, in questo senso,
consigliano spesso agli allievi l’approccio denominato mirror and match, che
consiste nell’imitare la postura, l’umore e lo stile verbale del potenziale cliente;
queste somiglianze, per quanto banali, hanno la loro efficacia.
In secondo luogo è bene non sottovalutare l’efficacia degli elogi.
Sempre secondo Cialdini, sapere che una persona prova per noi ammirazione
o attrazione può essere un ottimo modo per indurre da parte nostra simpatia
e acquiescenza, come contraccambio. Secondo Cialdini, l’essere umano dimostra un’ingenuità straordinaria di fronte alle adulazioni. Pur essendoci dei limiti
alla nostra credulità, specialmente quando abbiamo la certezza che l’adulatore
cerchi di manipolarci, di regola tendiamo a credere alle lodi e ci piace chi ce le
intesse, spesso anche quando esse sono palesemente false.
Continuando la nostra discussione sul framing, possiamo spostare
ora l’attenzione sulla conclusione del discorso. Qui si fa spesso ricorso all’epifonema, ossia a quella figura retorica che consiste nel porre una frase sentenziosa
o esclamativa a conclusione enfatica di un’argomentazione. Un lampo di spirito
o di sentimento, al quale, spesso, segue una pausa di sospensione per amplificare l’effetto che esso provoca sul pubblico. Questo gusto per le frasi secche e
sentenziose era tipico ad esempio di Mussolini. Ricorda de Mauro (1997) come il
rapporto del Duce con le masse fosse garantito: «Oltre che dalla violenza squadristica, dalla violenza suasiva e allucinogena di frasi spesso uniproposizionali,
quasi sempre lineari, secche, brevi, fatte di parole d’alta frequenza, spesso scandite come proverbi, perentori: […] “Si tiene duro e si dura” o “Bisogna essere o
di qua o di là”» (de Mauro, 1997: 152).
Il dialogismo. La funzione di stabilire legami con l’uditorio viene
svolta inoltre da un’altra tecnica oratoria molto efficace per ravvivare il proprio
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discorso: il dialogismo. Questo consiste nel comunicare dei concetti «sceneggiandoli», creando cioè un’ipotetica rappresentazione di scambio di domande e
risposte tra l’oratore e l’avversario o tra l’oratore e il suo pubblico. L’uditorio non
viene lasciato «tranquillo», in una sola posizione di ascolto, ma viene coinvolto
con un ampio uso di interrogazioni e domande retoriche (rivolte dall’oratore sia
a se stesso sia al pubblico). Anche in questo caso l’intenzione è quella di catturare l’attenzione dell’uditorio e impedire che si distragga o che si senta trascurato dall’emittente (Leff e Goodwin, 2000). Berlusconi, ad esempio, utilizza una
sequenza impressionante di domande retoriche (Squarcione, 1994), come, ad
esempio: «Allora che cosa si deve fare? Credo che si debbano approntare delle
cure, che si debbano approntare dei programmi che dicano con precisione che
cosa si deve fare per risolvere ogni problema» (Berlusconi, 6 febbraio 1994).
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Ipotassi e paratassi. L’utilizzo della forma paratattica o ipotattica
come modalità di connessione nel periodo è un importante indicatore nell’analisi del discorso, tanto che Perelman e Olbrechts-Tyteca (1969) reputano che la
scelta della modalità di coordinazione o di subordinazione sia altrettanto importante rispetto a quella che si opera nella classificazione degli argomenti che
si andranno a discutere. Il discorso che privilegia la paratassi pone gli elementi
al suo interno sul medesimo piano, impedendo un loro collegamento puntuale,
«così i contorni delle proposizioni non sono mai netti, e le parti del periodo
hanno a volte alcunché di indefinito» (Fedel, 1999: 117). L’eguaglianza sul piano
sintattico determinata dalla coordinazione comporta, in linea di principio, un
vantaggio ma anche un pericolo. Il vantaggio deriva dal fatto che l’enunciato
collegato mediante coordinazione lascia indeterminato il valore del rapporto
tra i contenuti espressi dalle proposizioni, lasciando la libertà dell’interpretazione all’uditorio. Il pericolo si annida nel medesimo meccanismo, in quanto
può generare equivoci o addirittura errori di interpretazione del messaggio (per
ulteriori approfondimenti, si veda, ad esempio, Binnick, 2009).
Fedel (2003) nota come Berlusconi ricorra spesso a costruzioni di
questo tipo, privilegiando però la coordinazione per asindeto, cioè l’accostamento semplice di proposizioni l’una con l’altra, senza ricorrere a congiunzioni.
La struttura della frase si scinde così in segmenti quasi autonomi, guadagnando in scorrevolezza e comprensibilità. Il registro colloquiale frequentemente
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utilizzato da Berlusconi esige l’adozione di forme verbali semplici e dirette,
con l’obiettivo di veicolare un senso di naturalezza e spontaneità altrimenti
difficile da raggiungere con un’eccessiva articolazione logica. Questa scelta
comporta anche la rinuncia a quanto di positivo porta con sé la costruzione
ipotattica, «la costruzione argomentativa per eccellenza» secondo Perelman e
Olbrechts-Tyteca (1969). La subordinazione, rispetto alla coordinazione, ha difatti il vantaggio di poter esprimere in maniera più precisa e articolata concetti
ostici e complessi.
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Impliciti e presupposizioni. Uno dei mezzi linguistici più efficaci ai
fini della persuasione politica consiste nell’uso degli impliciti e delle presupposizioni. Queste consentono al parlante di trasmettere la sua visione del mondo
al di fuori del sistema dell’argomentazione, evitando in tal modo di essere sottoposto al gioco dialettico della confutazione. La presupposizione è semplice:
un’affermazione ne presuppone un’altra solo se questa è una condizione della
sua stessa verità o falsità (ad esempio dire che «Il fratello di Luigi si chiama
Mario» presuppone che Luigi abbia un fratello). Nella retorica politica, spesso,
si rende presupposto ciò che in realtà dovrebbe essere posto, in quanto non necessariamente condiviso a priori (Sbisà, 1999). Non sempre una presupposizione
fa parte delle conoscenze o delle opinioni dell’ascoltatore, sicché l’oratore può
introdurre nuove informazioni per il ricevente, il quale, se aderisce al contenuto
dell’enunciazione, automaticamente accetterà le nuove premesse.
Coppock (2006) ha analizzato la «lettera ai cittadini» che Cofferati
ha indirizzato alla popolazione di Bologna per spiegare la posizione dell’amministrazione comunale a proposito della problematica questione della legalità.
Lo studioso ha messo a confronto la versione finale di questo testo con la bozza
iniziale, notando come, pur trasmettendo gli stessi concetti, nella redazione
definitiva siano state rese implicite numerose considerazioni o affermazioni
che erano esplicitate invece nella bozza. Questo è stato possibile ricorrendo
soprattutto all’uso di proposizioni incidentali, che, tendenzialmente, inducono
a mettere in background il loro contenuto e vengono sommariamente assunte
come vere dal lettore. Esemplificando, nella bozza vi era questa affermazione:
«Nell’azione della giunta […] deve essere chiara la discriminante verso chi si
pone fuori dalla legge o si sottrae dai percorsi di legalità»; e ancora «l’illegalità,
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qualunque sia la ragione che la determina, non può trovare giustificazioni».
Frasi chiare e nette, forse però con una sfumatura eccessivamente punitiva
e giustizialista; ecco allora che nella versione finale queste due proposizioni
diventano: «Tutto ciò al fine di prevenire, […] l’illegalità. Compito delle istituzioni, senza indulgere in nessuna giustificazione, è quello di rimuovere le ragioni
che la determinano o la favoriscono». Osserviamo come i concetti della bozza
vengano quindi condensati in un’unica frase inserita tra due virgole («, senza
indulgere in nessuna giustificazione,»); come conseguenza, questa proposizione
passa in secondo piano e assume uno statuto di presupposizione.
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Proposizioni enfatiche negative. Nell’utilizzare delle frasi negative
l’oratore spesso raggiunge diversi obiettivi. In primo luogo, quando un politico
sostiene enfaticamente una negazione (ad esempio dicendo: «Noi non ostacoleremo mai, e dico mai, la giustizia») induce automaticamente l’uditorio a
riformulare la questione in termini opposti, attribuendola agli avversari (in
questo caso si inducono gli ascoltatori a pensare che evidentemente qualcun
altro – tra gli oppositori – ostacola la giustizia). Tutto questo senza esporsi in
un’accusa diretta.
In secondo luogo, negando enfaticamente qualcosa, si induce a credere che si farà di tutto per combatterla, stimolando l’uditorio a riformulare
la frase in termini positivi (riferendoci all’esempio di prima, il pubblico potrà
pensare che se l’oratore sostiene fermamente di non volere ostacolare mai la
giustizia, ciò vorrà dire, coerentemente, che farà di tutto per legittimarla). Tutto
questo senza prendere pubblicamente un impegno preciso (Fairclough, 1989;
Fiol, Harris e House, 1999).
È però vero, d’altro canto, che molti studiosi in comunicazione sostengono che l’inconscio abbia difficoltà a elaborare una negazione (Simini,
2003). Per questo motivo, se ci viene detto di non pensare a un elefante giallo,
ci verrà in mente un elefante di colore giallo. Secondo questa prospettiva, quindi, quando Bersani l’11 dicembre 2010 ha affermato: «Noi non ci arrendiamo al
declino dell’Italia», seppur l’uditorio abbia compreso logicamente il messaggio,
a livello inconscio avrà tendenzialmente associato la figura di Bersani come
arrendevole al declino dell’Italia. Probabilmente per lo stesso motivo, l’uso delle
negazioni è estremamente raro nei discorsi di Berlusconi.
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Soggetto e verbo. Per quanto riguarda l’uso dei verbi, Weinrich
(1978) individua una contrapposizione tra il mondo narrato e il mondo commentato. L’autore parte dalla considerazione che le forme verbali che presentano un’indicazione di tempo (ovvero le forme temporali) possono essere definite
«segni ostinati», in quanto hanno un alto numero di occorrenze nei testi, come
si deduce chiaramente se si confronta il loro comportamento con quello di altri
elementi, quali, ad esempio, i complementi di luogo. Si può osservare come
l’utilizzo di particolari forme temporali, soprattutto nei discorsi politici, non sia
assolutamente ingenuo, ma corrisponda spesso a un tentativo di costruire una
particolare modalità di rappresentazione attraverso cui manovrare l’atteggiamento ricettivo dell’ascoltatore. Il ruolo dei tempi verbali non è dunque soltanto quello di fornire informazioni cronologiche, ma piuttosto quello di indicare
l’atteggiamento comunicativo che si intende adottare in una particolare situazione. Secondo Weinrich, passato remoto, imperfetto, trapassato remoto e condizionale sono le forme temporali della narrazione; presente, passato prossimo e
futuro quelle del commento. All’interno dei due gruppi bisogna poi considerare
la prospettiva linguistica, ossia la possibilità di recuperare informazioni o di
anticiparne. Passato remoto e imperfetto nella narrazione, presente nel commento, sono le forme non marcate rispetto alla relazione con il tempo reale.
Trapassato prossimo e passato prossimo, rispettivamente, guardano indietro a
ciò che è stato; condizionale e futuro in avanti a ciò che sarà.
Le forme narrative si combinano con la terza persona e quelle commentative con la prima, in quanto il narrante può narrare gli eventi mantenendoli lontano da sé e dal destinatario (con l’uso della terza persona), oppure commentarli, avvicinandoli alla sua situazione comunicativa (con l’uso della prima
persona). I tempi del commento indicano che il discorso va fruito in uno stato
di tensione partecipativa, quelli della narrazione, invece, sollecitano una distensione, ossia il corrispettivo dell’atteggiamento di sereno distacco del narratore.
Questa distinzione porta a un risvolto pratico da non sottovalutare: gli eventi
narrati sono quasi sottratti dalla possibilità di replica, in quanto sono presentati
e fruiti nella serena dimensione impersonale tipica dello scenario «mitico». Essi
sono spostati, dal terreno vivo e contingente del discorso, al palcoscenico della
storia; sembrano diventare intoccabili, non discutibili e dunque non modificabili; in una parola, veri. Il mito non si discute, si contempla. Il politico, ottenuta
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la condivisione implicita del passato, può poi guidare verso la costruzione del
futuro; «Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente
controlla il passato» diceva Orwell (1949).
Analoga funzione viene svolta dal passivo. In uno studio sperimentale, Sansò (2003) ha dimostrato che l’uso del passivo è percepito dal pubblico
come un maggiore distacco dell’oratore da quanto sta dicendo. La costruzione
passiva evoca sì il soggetto, ma questo viene percepito in modo più distanziato
e lontano dall’azione (rispetto a una frase con forma verbale attiva).
In questa direzione possiamo collocare alcune considerazioni di
Benveniste (1990) sull’uso della persona. Secondo l’autore, il discorso è caratterizzato dalla presenza di un mittente e di un destinatario, e di conseguenza
utilizza la categoria della persona (io, tu). Il soggetto è la categoria della persona che permette al parlante di appropriarsi del linguaggio, propagando la sua
presenza a tutti gli elementi suscettibili di accordo. Diversamente, nella storia
compare solo la non persona (egli), che non ha legami diretti con la situazione
di enunciazione. In questo senso, nel linguaggio politico, viene usata la terza
persona (singolare o plurale) quando si vuole creare un minor coinvolgimento
e un livello più basso di empatia. Ad esempio, dati o risvolti negativi vengono
di solito presentati in modo impersonale, quasi vi fosse una deresponsabilizzazione dei protagonisti. Differentemente, l’uso della seconda persona (singolare
o plurale) è finalizzato a stimolare il senso di appartenenza del pubblico nei
confronti di un progetto o di un partito politico.
Proprio a questo scopo Berlusconi si rivolge spesso al pubblico con
l’uso della seconda persona plurale («voi», «vi», «-vi»); in questo modo l’uditorio
si sente continuamente chiamato in causa. Facendo alcuni esempi, possiamo
rintracciare questo meccanismo nel discorso pronunciato da Berlusconi il 28
marzo 1998: «Allora domandatevi tutti voi se ciò che le vostre famiglie o le vostre imprese pagano è commisurato ai servizi che questo Stato ci ammannisce»,
«Vi ricordo anche la nostra ferma intenzione […]», «Vedete, questa è davvero la
loro mentalità, una mentalità burocratica […]».
Sempre a questo proposito, Fairclough (1989) nota come nei discorsi
della Thatcher il pronome «tu» venga spesso preferito al pronome «uno», anche
nei casi in cui grammaticalmente si consiglierebbe il secondo. Questo per delle
ragioni ben precise. Anzitutto, perché «uno» è poco usato a livello colloquiale,
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appartenendo maggiormente alla classe borghese e intellettuale (e i fini della Thatcher erano quelli di farsi percepire come «una del popolo»). In secondo
luogo, «tu» mantiene una connotazione di solidarietà e di vicinanza che invece
manca al freddo «uno».
L’utilizzo della prima persona singolare, invece, viene percepito
come una forte vicinanza tra l’oratore e ciò che sta dicendo; è quindi utilizzata
dai politici come forma di impegno personale nella modificazione della realtà.
Un’ultima osservazione riguarda la prima persona plurale. Essa induce il destinatario a divenire co-soggetto dell’enunciazione, facendo propri i
contenuti dell’enunciato; si attua, così, un coinvolgimento emotivo dell’uditorio, dando a questi la sensazione di essere parte di un progetto vincente (Kuno,
1987; Serino e Pugliese, 2006). C’è da aggiungere, però, che Benveniste (1990)
individuava per la prima persona plurale due funzioni opposte, ma non contraddittorie: da un lato l’uso esclusivo (io + loro), dall’altro lato la funzione inclusiva
(io + voi). Fairclough (1989) rileva a questo proposito che nei discorsi della
Thatcher l’uso del pronome in modalità inclusiva era finalizzato a creare coesione con i cittadini, sfruttando peraltro l’ambiguità di alcune occorrenze che,
essendo interpretabili come forme esclusive (il governo) o inclusive (cittadini
britannici), permettevano di identificare le scelte e le valutazioni dell’esecutivo
con quelle del popolo. Mentre l’uso chiaro e non ambiguo della forma esclusiva
veniva usato dalla Thatcher solamente per riferirsi alla propria parte politica in
contrapposizione agli altri partiti.
In sintesi, un abile politico quando deve parlare di avvenimenti negativi a lui attribuibili, potrebbe utilizzare una narrazione in terza persona (estraniazione), magari accompagnata da verbi al passato remoto (storicizzazione) e
utilizzando attribuzioni esterne di responsabilità (il destino, la storia, congiunture sfavorevoli, ecc.). Se, all’opposto, deve parlare di avvenimenti positivi a lui
attribuibili, potrebbe utilizzare un commento in prima persona, magari accompagnato da verbi al presente e utilizzando attribuzioni interne di responsabilità
(impiegando parole come: «Responsabilità», «azioni», «cambiamento», ecc.).
L’uso dei sinonimi. Con il termine «sinonimia» si suole intendere la
condizione di intercambiabilità tra diverse parole, senza sostanziali variazioni di
significato. Esistono però alcuni casi in cui vengono usati dei vocaboli che non
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sono sinonimi di per sé, ma che lo divengono a livello ideologico e, soprattutto, a
livello implicito. Fairclough (1989), a questo proposito, cita un articolo del Times
incentrato sull’invasione delle Falkland, in cui vengono usati come sinonimi della
parola invasion i seguenti vocaboli: aggression, injustice ed evil; questi ultimi tre
sono sinonimi a livello testuale (nel senso che grammaticalmente vanno a ricoprire questa funzione), ma non lo sono a livello di significato. Ciò crea, a livello
ideologico, un trasferimento di significato sul vocabolo – e sul concetto – di
invasion da parte dei suoi sinonimi; in particolare, gli viene aggiunta una dimensione morale (evil), legale (injustice), e politica (aggression). Più recentemente si
può ricordare, a questo stesso proposito, l’uso fatto dall’amministrazione G.W.
Bush delle locuzioni «guerra al terrorismo» (war on terror) e «civilizzazione» per
definire la seconda guerra del Golfo iniziata nel 2003 (Esch, 2010).
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Conclusa l’analisi del discorso politico in sé (ciò che la semiotica di
stampo greimasiano definisce come «testo»), in questa seconda parte dell’articolo andremo ad analizzare il contesto in cui ogni discorso è inserito e nel
quale assume senso. Secondo Fairclough (1989), le abitudini e le pratiche sociali
che la gente comunemente utilizza senza pensare sono spesso incarnazioni di
assunzioni che direttamente o indirettamente legittimano le relazioni di potere. Pratiche sociali e strutture dei discorsi che sembrano essere universali e di
senso comune possono essere viste come originate nella classe dominante e poi
successivamente «naturalizzate». Il potere ideologico è il potere di presentare
le regole e le pratiche di un gruppo di persone dominanti come universali e di
senso comune; in questo modo si avrà un’acquiescenza automatica – e non
consapevole – dei rapporti di potere.
Il senso comune non è altro che un insieme di aspettative e di assunti impliciti che controllano sia le azioni dei membri di una società, sia la
loro interpretazione delle azioni altrui. L’efficacia di un’ideologia dipende quindi
dalla sua capacità di incarnarsi nel senso comune e il discorso deve essere considerato particolarmente significante in questa funzione.
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Per arrivare a un’interpretazione coerente di un qualsiasi discorso,
Fairclough (1989) ritiene che esistano due passaggi fondamentali:
– innanzitutto, c’è bisogno di trovare una coerenza tra le varie parti
interne che lo compongono;
– in secondo luogo, si dovrà rintracciare una coerenza tra il discorso
e le proprie esperienze del mondo.
Queste sono entrambe connessioni che il lettore/ascoltatore fa
come interprete di un testo e non sono contenute nel testo stesso. La coerenza
globale di un testo o discorso viene generata da una sorta di reazione chimica
che nasce quando vengono uniti gli spunti (cues) contenuti nel testo con il
senso comune dell’interprete. Andando a specificare, l’ascoltatore o il lettore,
ogni qual volta si troverà di fronte a un testo, andrà a formulare una catena
di assunzioni finalizzata a legare insieme i diversi enunciati che si succedono,
attraverso l’inserimento dei collegamenti mancanti tra le proposizioni esplicite.
Tale formulazione può essere automatica (gap-filling), o progettata attraverso un processo di inferenza. Questa distinzione tra inferenza e gap-filling può
essere applicata anche alla coerenza tra testo e mondo; il testo (e quindi qualunque discorso), difatti, può essere adattato al mondo o automaticamente o in
modo inferenziale. Tutto ciò va a suggerire un modo attraverso il quale imporre
assunzioni ai lettori/ascoltatori in maniera automatica, ossia l’inserimento di
spunti testuali che riportino a dei presupposti impliciti che l’interprete deve
assumere se vuole ricavare il senso globale del testo. Il discorso persuasivo e la
propaganda utilizzano questo stratagemma anche in maniera ovvia; ad esempio, intitolare un articolo «Il problema asiatico per l’Europa occidentale» farà sì
che l’interprete, per dare senso alla proposizione, dovrà presupporre automaticamente (gap-filling) che vi è un problema asiatico, e ciò lo indurrà quindi
anche a supporre che l’Asia sia fonte di problemi.
L’ideologia è tanto più efficace quanto più lavora in maniera invisibile, e l’invisibilità viene raggiunta quando determinate concezioni sono sviluppate
in un discorso non come elementi espliciti, ma come assunzioni di background.
Secondo Bourdieu (1988), la specificità del discorso d’autorità (politico, accademico, religioso, ecc.) consiste nel fatto che non basta che esso sia
capito (in alcuni casi può non essere capito, nondimeno conserva il suo potere),
ma deve anche essere riconosciuto come tale. Perché il linguaggio di un politico
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sia accolto con un’aura di rispetto, occorre che siano riunite le condizioni sociali
che gli permettano di dimostrare l’importanza che esso stesso si attribuisce.
Allo stesso modo in cui la realizzazione di uno scambio rituale come quello
della messa presuppone che siano riunite tutte le condizioni sociali necessarie a
garantire la produzione di emittenti e riceventi conformi allo scopo. Tale riconoscimento è accordato solo a certe condizioni. Anzitutto, un discorso d’autorità
deve essere pronunciato dalla persona autorizzata a farlo, il detentore dello
skeptron, conosciuto e riconosciuto come colui che è abilitato e abile a proferire
questa sorta di discorso particolare (il prete, il politico, il professore, ecc.). In
secondo luogo, il discorso deve essere pronunciato in una situazione legittima,
ossia davanti a interlocutori che riconoscono l’autorità e lo schema rituale. In
terzo luogo, il discorso deve servirsi, per essere proferito, di forme (sintattiche,
stilistiche e contenutistiche) legittime. Ovviamente il discorso può innovare, ma
deve partire da assiomi formali e di contenuto conosciuti e riconosciuti dalla
platea di riferimento.
Oltre alla legittimazione del discorso, per Bourdieu (2002), le scienze sociali devono tener conto anche dell’effettualità simbolica dei riti di istituzione, ossia del loro potere di agire sul reale. Ad esempio, l’investitura (di
un cavaliere, di un deputato, di un presidente della Repubblica, ecc.) esercita un’effettualità simbolica del tutto reale, perché trasforma realmente la
persona «consacrata». Pensando alla nomina di Napolitano a presidente della
Repubblica (2006): in primo luogo quest’investitura trasforma l’immagine che
tutte le altre persone hanno di lui, e di conseguenza i comportamenti che
essi assumono nei suoi confronti; in secondo luogo quest’investitura trasforma
l’immagine che la persona «consacrata» ha di se stessa e i comportamenti che
essa si sente in dovere di adottare per conformarsi a tale rappresentazione.
Qualsiasi investitura che denomini l’autorità è fondata non sulla fede di una
persona singola (sempre esposta a essere contestata o sminuita), bensì sulla
fede collettiva, garantita dalle istituzioni e materializzata dal titolo, da simboli
o altri attributi (Cialdini, 2001). Le testimonianze di rispetto, quelle che consentono ad esempio di chiamare qualcuno con il suo titolo («signor presidente»,
«eccellenza», «onorevole», ecc.) sono altrettante ripetizioni dell’atto inaugurale
di istituzione compiuto da un’autorità universalmente riconosciuta, e dunque
basate sul consensus omnium.
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Parlare significa appropriarsi anche di uno o più stili e registri
espressivi, che sono già dati nell’uso (ad esempio il registro accademico, il registro amicale, il registro da osteria, il registro politico, ecc.). Questi registri non
sono considerati in maniera paritetica, ma presentano una gerarchizzazione di
fondo, che spesso è parallela a una gerarchia di gruppi sociali. Una competenza
sufficiente per produrre frasi in grado di essere comprese può essere del tutto
insufficiente a produrre frasi in grado di essere ascoltate e riconosciute in determinate situazioni sociali; i locutori sprovvisti della competenza legittima si
trovano, di fatto, esclusi dagli universi sociali in cui esse sono richieste.
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Le osservazioni sul gap-filling derivate dall’analisi sociolinguistica di
Fairclough richiamano il concetto di pensiero automatico studiato in psicologia
sociale (si veda, ad esempio, Aronson, 1999). Secondo la psicologia sociale, il
pensiero possiede un’importante proprietà che facilita notevolmente la nostra
comprensione del mondo sociale: la capacità di elaborare informazioni in maniera rapida e inconscia. Basti ricordare quando tutti noi abbiamo iniziato ad andare
in bicicletta: dalla goffaggine iniziale, i primi capitomboli, la concentrazione che
mettevamo su tutto quello che stavamo facendo, le nostre azioni sono via via
divenute automatiche; e ora, mentre andiamo in bicicletta con assoluta facilità,
riusciamo anche a pensare ad altro. Il nostro modo di pensare può diventare automatico proprio come le nostre azioni. Quanto più ci siamo addestrati a pensare
in un certo modo, tanto più naturale e automatico diventa quel genere di pensiero, fino a poterlo fare senza alcuno sforzo, quasi senza accorgercene. Questa
modalità di pensiero inconscia, non intenzionale, involontaria e priva di sforzi
viene definita elaborazione automatica. La difficoltà nel definire l’elaborazione
automatica risiede precisamente nel fatto che essa si verifica senza che ce ne
accorgiamo, rendendocela così alquanto sconosciuta. È tanto più probabile che
una persona si affidi a questi automatismi quanto più le manchi la disponibilità,
il tempo, l’energia o le risorse cognitive necessarie per intraprendere un’analisi
completa della situazione. Da ciò deriva che, quanto più siamo in condizioni di
fretta, stress, incertezza, indifferenza, scarsa motivazione o forte coinvolgimento
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emotivo, tanto più tenderemo a utilizzare il pensiero automatico (Aronson, 1999;
Gilbert e Hixon, 1991). Ai fini di questo articolo, ciò diviene particolarmente
importante, in quanto aiuta a comprendere l’uso, da parte della classe politica,
di un linguaggio che fa leva essenzialmente sulla sfera emotiva, valoriale e mitica degli individui; quella che, in una parola, possiamo chiamare irrazionale. La
logica argomentativa, il ragionamento sillogistico, l’uso di spiegazioni razionali
e logiche, sono usati solo ex post, per sostenere e giustificare questa base emotiva. In sintesi, uno dei cuori teorici di questo lavoro consiste nel sostenere che
la persuasione politica evochi e agisca su premesse irrazionali ed emotive, per
poi coprire il tutto con un velo di argomentazioni (pseudo-)razionali, per creare
delle giustificazioni apparentemente valide. Il sostenere questa ipotesi ci pone in
contrasto con alcuni autori (ad esempio Piattelli Palmarini, 1996), i quali vedono
la persuasione come un’abilità logica e argomentativa. Altri autori, però, come
Sears e Kosterman (1994), riportano i risultati di una ricerca nella quale sono
stati analizzati gli atteggiamenti e le intenzioni di voto di alcuni soggetti sperimentalmente sottoposti alla visione di alcuni filmati relativi alla presentazione
di un candidato. In alcuni di questi filmati venivano utilizzati numerosi indici
simbolici che richiamavano alla componente emozionale ed emotiva, mentre in
altri filmati il candidato si limitava a trasmettere solo delle informazioni del suo
programma. I risultati mostrano come i filmati in cui erano presenti i richiami
emotivi finiscano per essere quelli maggiormente in grado di indurre un atteggiamento più favorevole verso il candidato. Questo avveniva anche quando nel
primo tipo di filmato il candidato ammetteva la possibilità di aumentare le tasse,
mentre nel secondo tale possibilità non veniva considerata.
In un’altra ricerca, Mancini e Mazzoleni (1995) rilevarono alcuni indici quantitativi riguardanti la presenza in video dei vari candidati durante un
periodo preelettorale in Italia (dal 26 gennaio al 25 marzo del 1994). Le discussioni che si dimostrarono predominanti furono quelle incentrate su argomenti
come alleanze, aspetti ideologici e lotta politica, rispetto a temi più concreti e
di largo interesse per il cittadino medio. Secondo gli autori, insomma, i politici
preferiscono parlare di temi astratti ma allo stesso tempo ricchi di valenze simboliche. Gli autori hanno poi fatto notare come il primo compito di cui un’ideologia politica si occupa sia quello di trovare un avversario netto e chiaro contro
cui schierarsi. Ricollegandoci con la letteratura in psicologia sociale, possiamo
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osservare come l’uso della «contrapposizione» faccia leva proprio su caratteristiche istintive dell’essere umano (che tende a definirsi in base all’appartenenza
a un gruppo e in base all’opposizione verso altri gruppi), piuttosto che su reali
diatribe razionali (Tajfel, 1981).
Anche Villa (1995) ha analizzato le strategie retoriche utilizzate negli articoli dei giornali dedicati alla stessa campagna elettorale del 1994. In
questo studio, sul piano delle strategie argomentative, viene rilevata una certa
ricerca dell’assenso da parte del destinatario con strumenti prevalentemente
non razionali; in particolare, vengono utilizzati luoghi comuni, richiami a valori
o a elementi ricchi di pathos, curiosità o baruffe, e cose di questo genere.
Tutti gli studi appena riportati non vogliono significare che gli elettori non badino a questioni di loro interesse; lo fanno, ma non in un modo
perfettamente razionale. L’elettore tende, piuttosto, a preferire le posizioni che
riescono a generare in lui o in lei un maggiore numero di sensazioni positive e
a limitare le emozioni negative. A questo proposito, molte ricerche sostengono
che le emozioni che hanno un maggiore impatto, a livello politico, siano la paura e l’entusiasmo (Archibold, 2004; Brader, 2006; 2011; De Castella, McGarty e
Musgrove, 2009; Hernandez, 2003; Valentino et al., 2008).
L’emozione da sempre più sfruttata in politica è la paura. Ad esempio, in Usa, i Democratici hanno accusato l’amministrazione Bush di usare la
paura per alimentare il legame fittizio tra Saddam Hussein e al-Qaeda (Archibold, 2004). Allo stesso tempo, i Repubblicani accusano i Democratici di usare
tattiche intimidatorie per soffocare il dibattito sul welfare e sulla riforma medica (Hernandez, 2003).
Un altro esempio ce lo forniscono gli studi di De Castella, McGarty
e Musgrove (2009), i quali hanno studiato i discorsi politici tenuti John Howard (primo ministro australiano) dal 2001 al 2007, osservando la presenza di
contenuti capaci di generare un senso di paura. Questi aumentavano in modo
significativo nei periodi in cui il sostegno militare australiano all’invasione in
Iraq era fortemente osteggiato dall’opinione pubblica, mentre diminuivano sostanzialmente nei momenti in cui la maggioranza della popolazione appoggiava
l’intervento militare.
La paura, una volta instillata, aumenta generalmente l’impressione
di prestare un maggiore interesse alla situazione politica e, effettivamente, può
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spronare alla ricerca di maggiori informazioni in un particolare ambito. In generale, però, essa genera una diminuzione della valutazione dei diversi profili
dei candidati, sia in termini quantitativi che qualitativi (Valentino et al., 2008).
Huddy, Feldman e Cassese (2007), ad esempio, sostengono che la paura abbia
rafforzato l’attenzione e l’interesse verso le notizie legate al terrorismo post 11
settembre, ma non abbia aumentato la conoscenza della guerra in Iraq.
La paura gioca quindi un ruolo decisivo nel processo di persuasione.
I messaggi con testi e musica capaci di favorire un senso di paura sono quelli
che, rispetto a ogni altro tipo di emozione, meglio riescono a favorire un processo di cambiamento negli atteggiamenti (Brader, 2006; 2011). La pubblicità
politica basata sulla paura, inoltre, ha la capacità di attirare l’attenzione e di
porre in primo piano la tematica presentata.
Per quanto riguarda l’entusiasmo – definito come la capacità di trasmettere la speranza di realizzare i propri obiettivi – esso ha una capacità non
tanto di cambiare le opinioni, ma, piuttosto, di rafforzarle e di enfatizzarle. L’entusiasmo, inoltre, tende a creare una chiusura cognitiva nell’elettore, chiudendolo
alle nuove informazioni e radicalizzandolo su quelle esistenti (Brader, 2006; 2011).
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Mondi possibili e story-teller. Ci soffermiamo ora, sempre utilizzando
una prospettiva di stampo psicologico, su un altro fondamentale meccanismo
su cui si basa la comunicazione politica: la creazione di mondi possibili. La
definizione di «mondi possibili» consente di sottolineare che, sebbene spesso
utopici o eccessivamente semplicistici, i mondi disegnati dai politici restano
tuttavia possibili, si offrono a noi come delle alternative che possono essere
prese in considerazione, allo stesso tempo sufficientemente vicine e lontane per
suscitare i nostri meccanismi di proiezione o d’identificazione (Caprara, 2003).
La gratificazione che proviene dall’immaginare un futuro con più lavoro, con
città sicure con un rapporto idilliaco con la natura è una risorsa significativa per
compensare e risarcire le più concrete frustrazioni del presente (difficili condizioni lavorative, presenza di criminalità e insufficiente rispetto ambientale).
Weick (1995) ritiene che nella psicologia umana non ci sia una logica dell’esattezza, una logica della verità compartecipata e oggettiva; c’è, piuttosto, secondo l’autore, un tipo di logica legata agli schemi cognitivi, che sono
soggettivi, e che quindi sono alla ricerca solo della coerenza e della plausibilità,
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ossia, in altre parole, di qualcosa che incarni l’esperienza passata e le aspettative personali. In breve, quello che è necessario per «creare senso» (sensemaking)
nell’uditorio è una buona storia. Una buona storia, quando è verosimile, tiene
insieme elementi disparati abbastanza a lungo da stimolare e guidare l’azione,
in maniera abbastanza plausibile da permettere alle persone di attribuire un
significato retrospettivo a quello che è successo e in modo da sedurre altre
persone a contribuire nella stessa direzione. Secondo Weick le storie sono architravi del pensiero, che spiegano e stimolano l’agire futuro. Quando le persone
reinterpretano i fatti accaduti alla luce di una storia verosimile, impongono una
coerenza formale e un rapporto causa-effetto su quello che altrimenti sarebbe un insieme fluido – e diversamente interpretabile – di esperienze. Le storie
trasmettono e rinforzano controlli impliciti, vincolando valori e significati condivisi. Ecco quindi che un vero leader, più che un attento logico, deve essere un
bravo story-teller (narratore di storie).
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Lo scopo di questo articolo è stato quello di evidenziare alcune tra le
tecniche più importanti da tenere in considerazione nell’analisi della comunicazione politica. L’originalità dello scritto consta anche nel suo approccio multidisciplinare. La prima parte è difatti centrata sull’analisi del discorso politico e
della sua retorica, attingendo prevalentemente dagli studi di stampo linguistico
e semiotico. Nella seconda parte abbiamo poi tenuto conto del contesto di riferimento, involucro entro il quale il discorso politico prende senso e assume
legittimità. La letteratura di riferimento è stata quindi quella sociolinguistica e
sociologica. Infine, nella terza parte, ci siamo focalizzati su due elementi chiave
sui quali fa perno molta della retorica politica: l’importanza delle emozioni e la
creazione dei mondi possibili. In questo senso, abbiamo prevalentemente utilizzato una lente d’interpretazione psicologica.
L’articolo è stato quindi strutturato in queste tre parti per chiarezza
espositiva e per favorire la linearità dei passaggi. Qui, in conclusione, vorrei
infine fornire una seconda chiave di lettura, attraverso cui poter rileggere molti
dei concetti esposti nei paragrafi precedenti.
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Sintetizzando e collegando gli studi di Fiol, Harris e House (1999),
Hogg (2001), Reicher e Hopkins (1996), Seyranian e Bligh (2010), possiamo ipotizzare che i leader politici che risultano maggiormente carismatici facciano
ricorso nei loro dialoghi a tre determinati passaggi: la fase di rottura, la fase di
spostamento e la fase di riallineamento.
Unendo sinergicamente questi studi con quanto finora detto, possiamo dire che in una prima fase, la «fase di rottura», il leader tende a rompere
legami identitari del gruppo: a) aumentando l’identità di gruppo, sottolineando
la sua somiglianza con i suoi sostenitori, utilizzando riferimenti di accordo (sul
reale o sul preferibile) e un linguaggio inclusivo (l’uso del noi e del dialogismo),
e b) creando un senso di insoddisfazione nei confronti dello status quo attuale,
reinterpretando il passato e il presente del gruppo (attraverso l’uso accurato
degli impliciti, dei tempi verbali e della persona), ed esprimendo e suscitando
un’insoddisfazione emotiva, per trasmettere un senso di urgenza o di crisi (facilitando, così, l’uso del pensiero automatico).
Successivamente vi è una fase che potremmo chiamare di «spostamento», in cui i leader alterano l’identità del gruppo attraverso la proclamazione di una nuova gerarchia di valori e la definizione di un’identità alternativa che
è in linea con la visione del leader. Questo viene realizzato con una comunicazione inclusiva, che delinea una visione positiva del futuro, che sottolinea la positività identitaria del gruppo e la creazione di uno scenario positivo idealizzato
(un mondo possibile).
In una fase successiva, quella che potremmo chiamare del «riallineamento», i leader garantiscono la permanenza del cambiamento e incoraggiano i sostenitori ad agire in modo da: a) affermare positivamente l’identità
alterata del gruppo, attraverso una comunicazione inclusiva e sottolineando la
positività dell’identità di gruppo, e b) promuovere l’adesione al mondo possibile incoraggiando i sostenitori con un linguaggio che invita ad agire di conseguenza (story-telling).
In conclusione, quindi, è interessante notare come, al di là di quelle
che possono essere le diverse chiavi di lettura che si possono adottare nell’analizzare il discorso politico, rimangono comunque costanti alcuni concetti fondamentali, che fanno da pietre angolari a ogni prospettiva.
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