arte in Sicilia

Mostrare la genesi di una nuova città, ripercorrendone la vicenda storica a partire dalla sua formazione, è il principale intento che si propone questo volume sulla storia di Delia. L’inquadramento dell’abitato, nell’orizzonte temporale e geografico del fenomeno delle ‘città nuove’ di fondazione, evidenzia l’atto performativo della committenza feudale nel suo impianto e trasformazione. Estrema importanza ha, in ciò, sia il riferimento al modello fondativo adottato in fase di pianificazione urbana che la lettura del rapporto col territorio mediante lo studio dell’economia feudale. Delia, intesa in tal modo, non appare una realtà isolata, ma parte integrante di un sistema abitato ramificato che muta il volto del latifondo agricolo della Sicilia interna in una ‘terra di città’. Il centro si trova, dunque, inserito in un circuito di relazioni culturali, dove la trasmissione delle idee, mosse dal gusto della classe feudale, avviene attraverso la circolazione di maestranze e la diffusione di trattati e incisioni architettoniche. È un processo animato tra Cinque e Seicento dalla famiglia Lucchesi, che affida alla fondazione della città la sua scalata sociale tra i ranghi dell’alta aristocrazia siciliana. Nel Settecento Delia passa sotto il controllo dei Gravina, principi di Palagonia, e viene interessata da numerose trasformazioni che sembrano definirne il quadro di una vera e propria ‘rifondazione’. Si tratta di interventi che determinano l’arrivo di architetti e plasticatori da altre realtà feudali, come Palagonia, negli anni delle grandi ricostruzioni avvenute dopo il terremoto del 1693. Nell’Ottocento, la crisi della feudalità, associata alla crescita del notabilato locale sempre più potente e influente, si manifesta con l’affacciarsi della questione demanialista che avvicina Delia ad altri centri come Caltanissetta e Paternò.

Sommario:
Santa Lucia è una delle sante più venerate e facilmente riconoscibili grazie all'attributo oculare che reca spesso con sé. La venerazione luciana, che si sviluppò precocemente in Sicilia e si diffuse rapidamente oltre l'isola, toccando le coste inglesi fino al Bosforo, fu portatrice di precisi significati politici e dinastici nel Medioevo. Lo scopo del presente saggio è quello di mostrare come l'immagine di Lucia,  associata alla stessa Sicilia, sua terra natia, divenne un inseparabile binomio, tra il VII e il XV secolo. Tale dato venne ben presto usato e spesso sfruttato per veicolare precisi messaggi sul potere reale sull'isola e nel sud Italia. L'obiettivo della ricerca sarà, oltre l'analisi delle testimonianze monumentali tra Sicilia e Campania, realizzate dalle due case reali concorrenti, l'Aragona e gli Angioini, le testimonianze pittoriche
presente nella regione pugliese. Quest'ultima dimostrò, infatti, di essere un fertile terreno nel XIV secolo per l'assimilazione delle eleganze cortesi provenienti dalla corte napoletana e soprattutto, nella sperimentazione della nuova iconografia luciana diffusasi nel XIV secolo.
Forse per la prima volta in Puglia, infatti, fa la sua comparsa tra le mani della santa il piattino con gli occhi, l'attributo che diventerà presto l'unico simbolo in grado di distinguerla chiaramente dalle principesche sante colleghe.

Abstract:
Saint Lucy is one of the most venerated and easily recognizable saints thanks to the ocular attribute that she brings with her. Lucian veneration, which developed precociously in Sicily and spread rapidly beyond the island borders from Ravenna to the English coasts until the Bosphorus,
brought precise political and dynastic meanings to the Middle Ages. The aim this essay is to show how the image of Lucy, soon assimilated to Sicily as an inseparable binomial between the 7th and 15th centuries,
was used to convey precise messages of royal power on the island and in southern Italy. The focus of the research will be, beyond the monumental testimonies between Sicily and Campania, sponsored by
the two competing royal houses, Aragon and Angevin, the pictorial testimonies present in the Apulian region. These proved to be fertile ground in the 14th century for the assimilation of courtly elegances
of neapolitan court and above all, in the experimentation of the new iconography during the 14th century. Perhaps for the first time in Puglia the saucer with the eyes makes its appearance, the attribute that will soon become the only symbol able to distinguish her clearly from the princely holy colleagues.

in Beni Archeologici -Archeologia Navale Studente: Valentina Coppola, Docente Relatore: Marco Bonino Questo lavoro è una riproposta della tesi triennale che ho svolto, una raccolta cioè delle immagini e degli elementi decorativi presenti nelle imbarcazioni in legno caratteristiche della tradizionale carpenteria navale siciliana, sottolineando le motivazioni che hanno spinto all'ideazione di determinati modelli; motivazioni spesso legate all'arcaico timore dell'ignoto che ha prodotto, in tutte le culture, una serie di miti 1 e superstizioni che, nelle imbarcazioni, si sono tradotte nell'animazione della natura interna dell'oggetto stesso, espressione di un sentimento magico 2 .

L'articolo propone un argomento inedito, tratto dalla mia tesi di dottorato (conseguito in data 4 marzo 2016) dal titolo "La committenza gesuitica e la pittura a Palermo tra XVI e XVIII secolo".
Oggetto del contributo in questione è un inedito ciclo pittorico ritrovato nella chiesa del Gesù a Casa Professa di Palermo, di committenza gesuitica e attribuito in questa sede al pittore Orazio Ferraro da Giuliana S. J. Il soggetto degli affreschi seicenteschi è quello delle Quarantore, arricchito da riferimenti alle Sacre Scritture cui il pittore guarda per l’iconografia del Serpente di bronzo e per la rappresentazione dell'episodio veterotestamentario relativo a Giona e la balena. L’attribuzione, fondata su una esaustiva indagine bibliografica e su raffronti iconografici, è confermata dalle notizie riportate da documenti già noti e relativi all’attività del Ferraro nella stessa Casa Professa.

L'articolo si presenta come un condensato dei risultati ottenuti nel corso di un lavoro di ricerca durato un triennio, condotto tra Italia, Spagna e Portogallo e confluito in toto nell'omonima tesi di dottorato. La ricerca mira ad approfondire e arricchire, mediante nuove acquisizioni, lo studio in merito alle opere pittoriche di committenza gesuitica custodite presso le fondazioni palermitane dell’Ordine: chiesa del Gesù a Casa Professa, Collegio Massimo dei Gesuiti, chiesa di San Stanislao Kostka e chiesa di San Francesco Saverio, a cui si aggiungono i dipinti trasferiti presso altre sedi. Principale oggetto d’indagine è il "modus operandi" di tale committenza, nel suo interagire con le istanze del capoluogo siciliano, dal primo insediamento (1549) fino alla cacciata dal Regno di Sicilia (1767), decretata da Ferdinando IV di Borbone. Nell’ottica di un assetto più organico, si è proceduto alla riorganizzazione del materiale relativo alla trattazione del tema, poiché si presentava frammentario e dispersivo.

Analisi del percorso artistico di Herta Schaeffer, artista di origine tedesca che nel 1933 si trasferisce a Palermo per sposare il Pittore Alfonso Amorelli. Il saggio costruisce la cornice culturale in cui l'artista opera a partire dagli anni Quaranta; ne mette in evidenza lo stile attraverso lo studio delle opere (diverse inedite) e individua una mappatura delle decorazione pubbliche realizzate nel corso degli anni Cinquanta...

Storia, arte, natura, architettura, teatro, archeologia, industrie, agricoltura, tipicità a Napoli e nel Sud Italia. Tutto questo rappresenta il circuito storico dei Siti Reali borbonici, un patrimonio identitario mondiale da salvaguardare e far conoscere, innanzitutto alle giovani generazioni.
Schede su Palazzina Cinese e Reggia di Ficuzza in Sicilia.

Palazzo Bonocore edificato nel tardo XVI secolo in uno dei quartieri più storici di Palermo, la Kalsa, si affaccia tra la monumentale fontana Piazza Pretoria, la chiesa di Santa Caterina (1566-1596) e il Palazzo Bordonaro (XVI sec). Il palazzo fu sede di diversi proprietari tra i quali Giovanni Lo Valvo che decise nel 1547 di venderlo a Francesco Di Carlo successivamente passato a proprietà al pisano Stefano Conte. Nel 1610 morto Stefano Conte il palazzo si estingue con il figlio Francesco Conte, scomparso prematuramente nel 1619 senza eredi. Da quel momento l'abitazione sarà frazionata tra vari illustri proprietari. Solo nel 1716 Francesco Gastone, Presidente del Tribunale di Palermo, figlio di Ignazio Gastone proprietario in parte del palazzo, riesce ad acquistarne l'intera proprietà. Durante la permanenza della famiglia Gastone il palazzo viene ampliato e diventa una dimora patrizia acquisendo prestigio e notorietà in vista anche delle nozze della figlia Margherita Gastone andata in sposa a Francesco Antonio Lo Faso IV Duca di Serradifalco, divenuti eredi, nel 1740, di tutta l'abitazione. Nel 1875 l'ultima erede dei Lo Faso, Giulietta, vende il suo palazzo a un ricco banchiere palermitano Salvatore Bonocore (Buonocore). Dal 1912 il palazzo sarà nuovamente frazionato fra diversi proprietari, il piano nobile sarà donato da Giovanna Giacalone, erede Bonocore, alla Curia Arcivescovile di Palermo di cui tutt'ora ne è proprietaria e concesso dal 30 ottobre 2015 all'Associazione I World che adibisce il maestoso e affrescato piano nobile alla Mostra delle Oasi delle Identità del Patrimonio Culturale Immateriale di Sicilia, permettendo di rendere nuovamente fruibili uno dei più rappresentativi monumenti storici di Palermo. Le Trasformazioni del Palazzo Bonocore L'architettura di palazzo Bonocore testimonia la successione temporale-architettonica che ha subito nel corso dei secoli. Al piano terra sono ancora evidenti paramenti bugnati espressione dell'architettura tarda manierista che ne testimoniano la datazione della fabbrica al XVI secolo. Durante la permanenza della famiglia Gastone (1716-1740) il palazzo subì un consistente ampliamento rendendolo una delle più austere dimore aristocratiche di Palermo tanto da essere descritta da P. La Placa come un "Palagio dalle vistose forme di un teatro". Tra 1810 e il 1843 Domenico Lo Faso, membro nel 1827 delle Commissioni di Antichità e Belle Arti di Palermo, progetta per il suo palazzo una facciata in stile neoclassico che riprende molto lo stile del teatro alla scala di Milano città in cui studiò architettura. Nel 1860 il palazzo subì notevoli danni a causa degli eventi bellici. Durante la proprietà dei Buonocore (1875-1912) il palazzo fu sottoposto ad altri interventi di restauro soprattutto nella facciata neoclassica progettata dai Lo Faso. Gli affreschi del Piano Nobile del Palazzo Bonocore Il piano nobile di Palazzo Buonocore offre al visitatore un viaggio tra affreschi neoclassici databili alla metà del XIX secolo. Il piano terra un tempo dedicato alle stalle conduce attraverso il sontuoso scalone caratterizzato dalle rimanenti teste leonine bronzee, al piano nobile maggiore espressione della maestosa aulicità e bellezza dell'età Neoclassica. Le sette sale un tempo caratterizzate da pregiate maioliche settecentesche che decoravano l'intero pavimento offrono un variegato repertorio figurativo grazie a un recente restauro che ha reso fruibile nuovamente lo splendore degli ornati neoclassici.

In uno degli altari laterali della chiesa Madre di Scicli, attualmente chiusa per lavori di consolidamento, è collocato un dipinto di grandi dimensioni raffigurante «S. Guglielmo protettore della città di Scicli». La tela, già più volte segnalata da Paolo Nifosì, necessita di un intervento di restauro: oltre all'allentamento del supporto, presenta infatti alterazioni nella superficie pittorica e, in alcuni punti, profonde lacerazioni che sembrano insidiarne la conservazione.

O. SERGI, La cappella del Protettore S. Vitaliano. Interventi nel Duomo di Catanzaro dopo il Concilio di Trento; in M. PANARELLO, Artisti della tarda maniera nel Viceregno di Napoli. Mastri scultori, marmorari e architetti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 267-278.

I protagonisti della «storia pittorica» messinese di Francesco Susinno sono, almeno in gioventù, dei gran viaggiatori. Seguendo l’esempio del più celebre di essi, Antonello da Messina, già per Vasari spintosi fino a Bruges, gli artisti messinesi sembrano avere ben chiara la necessità di approdare almeno a Roma, o Venezia, o Napoli per arricchire la propria formazione o migliorare il proprio operare. Ma Messina è anche meta di artisti che dai maggiori centri artistici italiani transitano o si stabiliscono in Sicilia: da Polidoro e Vincenzo da Pavia, a Paladini e Caravaggio, per limitarsi ai più noti. Di tutto ciò Susinno si fa convinto narratore e sostenitore, nelle sue pagine si trovano continue affermazioni in questo senso e del resto egli stesso aveva conosciuto un periodo giovanile di soggiorni a Napoli e Roma. Appare perciò singolare che le sue Vite siano essenzialmente incentrate sulle opere visibili a Messina, che al continuo viaggiare dei suoi eroi corrisponda una sua sostanziale stanzialità che lo fa essere poco informato anche di centri poco lontani dalla sua città, le cui opere d’arte o semplicemente trascura o cita attraverso testimonianze di seconda mano.

In questa serie l'artista focalizza l'attenzione sull'ipocrisia e sulle false classificazioni o "maschere" che pirandellianamente siamo tutti costretti a portare nella società moderna: maschere che altri ci costringono a indossare secondo le varie situazioni della realtà e che sono quasi sempre molto diverse dalla verità profonda del nostro temperamento e della nostra psiche.

To put on in unstable balance - In Bilico between two islands, Taiwan and Sicily. The works within the dialectical exchange "Poised" are a variegated photograph of the differences and similarities between wits born and raised far physically, but close for purpose and storytelling. The natural game introduced to visitors is to look for the red line that unites the works of the artists.

Il Collage nell'arte di Giuseppe Alletto L'interesse dell'artista per la tecnica del college è direttamente proporzionale alla sua passione per il cinema. Il suo interesse per i collage non va inteso come mera riproposizione di cascami primoavanguardistici bensì come pratica creativa che fonde indissolubilmente tecnica e poetica. Il collage nella sua purezza altri non è se non giustapposizione di immagini differenti o di frammenti di esse. Dal gesto tecnico stesso scaturiscono l'elemento concettuale e il cortocircuito visivo metaforico che costituisce il sostrato stesso dell'Opera finale. In questo senso Alletto si riferisce a pratiche di montaggio cinematografico altamente concettuali quali ad esempio quelle di Eisenstein per spiegare ciò che lo spinge di volta in volta a creare collages. Adoperando questa tecnica Alletto finisce per riattraversare da un altra prospettiva i filoni principali della sua produzione dalle visioni apocalittiche all'indagine sulle emozioni umane alla violenza criminale.

Bruno Corà (a cura di), Turi Simeti. Grandi opere, catalogo della mostra (Palermo, Polo museale regionale d'arte moderna e contemporanea, 3 marzo -11 giugno 2017), Milano, Skira, 2017, pp. 93, € 16,00. È già da qualche anno che il museo palermitano di Palazzo Riso organizza personali sugli artisti siciliani contemporanei che hanno trovato una affermazione nel panorama nazionale ed internazionale: coloro i quali -come precisa anche la direttrice del museo Valeria Patrizia Li Vigni -oltre a misurarsi con le stimolanti influenze esterne sono riusciti negli anni a mantenere una costante e personale cifra stilistica.

I Rovi di Alfonso Leto costituiscono, nel contesto di questa mostra personale nello spazio della Fattoria dell’Arte/Torre Ottagonale di Santo Stefano Quisquina, una sorta di ricerca del senso del sacro che sembra voler  approfondire in un modo del tutto inedito quell’atmosfera di diffusa religiosità di cui il territorio stefanese appare permeato nel ricordo del pellegrinaggio di Santa Rosalia alla Quisquina e della presenza dell’imponente Eremo.
L’artista invita lo spettatore a seguire un percorso verso le
scaturigini remote del Sacro irridendo alla religiosità studiata a tavolino e stratificata dalla tradizione, volgendo invece lo sguardo verso una religiosità libera e intuitiva, a una sorta di panteismo, alla gioiosa effusione con la natura.
Ad accogliere da lontano  l’osservatore, nel percorso che dalla collinetta immersa nella campagna stefanese conduce alla torre ottagonale luogo dell’esposizione,  sarà un’opera/installazione consistente in un telo segnato dai Rovi dipinti dall’artista che, penzolando dalla sommità della torre verso l’esterno, offrirà alla vista l’immagine di un drappo segnato da arterie multicolore.
Con questo appunto visivo in favore di un'architettura che sia piena osmosi tra esterno e interno, tra natura e artificio,  in una sorta di fantasticheria medievaleggiante, l’artista sembra invitare lo spettatore a trasformarsi in eroe mitico e ad espugnare la torre/museo per scovare infine il suo tesoro in forma d’arte.
La principale qualità della serie dei Rovi firmata da Alfonso Leto risiede nella loro vocazione poetica e nella loro estrema polisemìa che spinge lo spettatore a vedere di volta in volta, in quelle linee colorate, tracciati di fiumi di una geografia satellitare a venire, spine che realizzano il martirio dell'artista che offre sé stesso ripetendo quell’incessante rituale di violenta abnegazione in cui consiste l'atto artistico, ferite
Che segnano e fecondano dei pattern bianchi come campi da arare e da preparare ad un nuovo ciclo cosmico naturale o, ancora,
Fratture che spandendosi sulla candida superficie di un uovo primordiale proiettato ortogonalmente anelano e additano alla nascita di qualcosa di nuovo, di misterioso e inaspettato.

La galleria Giuseppe Veniero Project di Palermo presenta una mostra personale Diario 99-'16 che fa luce sull'ultima produzione di Alfredo Rapetti Mogol. L'oggetto principale della ricerca dell'artista milanese è il linguaggio. Dagli inizi eminentemente pittorici caratterizzati da un linguaggio figurativo nel senso esteso del termine (figurazione come rappresentazione di oggetti riconducibili alla realtà) Mogol passa all' " evocazione " pura, intesa qui come rimando " vago e indefinito " a qualcosa che va oltre il reale, mediante segni non direttamente riconducibili alla realtà. La lingua impiegata da Mogol è criptica, perché nelle sue opere si dipanano segni e codici che non appartengono a nessuna lingua storicamente codificata, ma al tempo stesso semplicissima, universale, capace di raggiungere chiunque. Nella mostra da Giuseppe Veniero Project l'artista offre allo spettatore il risultato delle sue ultime ricerche, dalle opere monocrome in cui segni, quasi incisioni sulla pellicola pittorica, creano un alfabeto personalissimo e allo stesso tempo universale, alle opere in cui campeggiano lettere dell'alfabeto disposte in maniera non immediatamente leggibile e perciò votate a stimolare un intervento diretto e decisivo dello spettatore che è invitato a ricostruisce la dinamica convenzionale della comunicazione linguistica e, infine, ad afferrare il messaggio proposto dall'autore. La dinamica interattiva scatenata dalle opere di Mogol e la valenza concettuale della riflessione sul linguaggio sono, per così dire, " riscaldate " dall'impiego di differenti materiali dalla tela al marmo, alle composizioni in dittici e trittici alla scelta cromatica ricercata, riscontrabile soprattutto nelle opere con le lettere dell'alfabeto: tutti " sintomi " di una esigenza e di un interesse estetico che è da considerare elemento imprescindibile di qualsiasi espressione d'arte.